RICORDANDO RICORDA CON RABBIA

Leggere i quotidiani, su carta e on line, in treno, dà il tempo per pensare. Al di là di qualsiasi considerazione politica, quel che è accaduto in questi giorni e quel che continua ad accadere in modi e gradi diversi, dà la misura del livello di sofferenza, infelicità, frustrazione del nostro presente. Se ci fosse Sam Peckinpah, saprebbe trarne uno dei suoi film tremendi e rivelatori. Se Stephen King non avesse fatto ritirare dalla circolazione “The Rage”, potremmo rifletterci su. Mi è semplicemente tornato in mente un monologo, quello di “Ricorda con rabbia” di John Osborne, 1956. Ve lo posto. Non dico che dovrebbe muoverci a pietà, ma dovrebbe spingerci a pensare, tutto qui.
Chiunque non abbia mai visto morire un uomo, soffre di un grave caso di verginità. (Il suo buon umore di qualche momento prima sparisce e comincia a ricordare.) Per dodici mesi ho guardato mio padre che stava morendo, avevo dieci anni allora. Era tornato dalla guerra di Spagna. Laggiù qualche pio gentiluomo l’aveva conciato in tal modo che non gli restava più molto da vivere.
Tutti lo sapevano… anch’io lo sapevo. Ma, vedete, io ero l’unico a cui dispiaceva. La sua famiglia era imbarazzata da tutta la faccenda. Irritata e imbarazzata. Mia madre, poi, non era in grado di pensare che a una cosa sola: al fatto di essersi legata ad un uomo che sembrava trovarsi sempre dalla parte sbagliata, in tutto. Mia madre sarebbe stata lietissima di appartenere alle minoranze, purché fossero quelle che stanno in cima alla scala sociale. Noi tutti aspettavamo che morisse. La famiglia gli mandava un assegno ogni mese, e sperava che la facesse finita tranquillamente, senza volgarità e senza chiasso. Mia madre si limitava ad occuparsi di lui senza lagnarsi. Forse le faceva pena. Credo fosse capace di provare compassione.
(Con disperazione) Ma io ero l’unico a cui dispiacesse veramente! Ogni volta che mi sedevo sull’orlo del suo letto e lo ascoltavo parlare, certe volte mi leggeva dei libri, dovevo lottare per non piangere. E alla fine di quei dodici mesi ero diventato un veterano. L’unica persona che stava ad ascoltare quel pover’uomo fallito e febbricitante era un ragazzino spaventato. Passavo delle ore in quella piccola stanza da letto. Mi parlava ore ed ore, raccontando gli avanzi della sua povera vita a un ragazzo solitario e sgomento, che riusciva a capire appena la metà delle sue parole. E tutto quello che riusciva a percepire era la disperazione e l’amarezza, l’odore dolce e nauseante di un uomo che muore.
Capite, ho imparato molto giovane cosa vuol dire l’angoscia, il non poter far niente, l’essere senza aiuto. E non lo dimenticherò mai. Quando avevo dieci anni io sapevo dell’amore, del tradimento… e della morte, molto più di quanto voi ne saprete probabilmente in tutta la vostra vita!

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