L'ACQUIESCENZA DEL COLLABORAZIONISTA: DUE PAROLE ANCORA SUL FANTASTICO

Qualche anno fa uno dei giudici di “Masterpiece”, Andrea De Carlo, ha consigliato a un concorrente di non «andarsi a buttare nel fantasy». L’episodio è sembrato ribadire il vecchio pregiudizio dei letterati che considerano la narrativa fantastica come espediente per intrattenere il lettore e allontanarlo dalla realtà. La parola “fantasy”, peraltro, viene utilizzata quasi sempre dai non frequentatori in sostituzione di “fantastico”. Qualsiasi deviazione del reale è “fantasy”, dunque oggi considereremmo tale anche, che so, Giro di vite, o persino Dissipatio H.G., o qualsiasi testo dove la strada non è quella della riproduzione del mondo tangibile, diciamo così.
Ora, perché mai tornare sul vecchio, vecchissimo punto, ancora una volta? Perché continuo a vedere attorno a me un’incomprensione profonda della narrativa non del tutto realista: se si lamenta il proliferare delle autofiction o della letteratura che guarda a se stessa, non si riesce a concepire, ancora, come legittime quelle famose vie altre, e pazienza. O non troppa, in verità, perché è noiosissimo ripetere sempre le stesse cose.
Dunque, le faccio dire ad altri. Riprendo “Difendere la terra di mezzo “di Wu Ming 4, ora ripubblicato. E in particolare questo passaggio:
“Nel 1968, la BBC realizzò una trasmissione televisiva intitolata Tolkien in Oxford, all’interno della serie “In Their Own Words: British Novelists”. Si tratta di un documentario-intervista nel quale Tolkien viene ripreso mentre passeggia attraverso i cortili e i porticati del Merton College, a Oxford, con indosso un ridicolo cappello di pelo, un cappotto con il collo di pelliccia e una sciarpa rossa arabescata, intento a parlare del suo amore per gli alberi e della sua creazione letteraria. Oppure viene colto come una sorta di stereotipo vivente, seduto nel suo studio, con il boccale di birra, il camino acceso, mentre si accende la pipa e fa anelli di fumo come Gandalf. O ancora mentre assiste ai fuochi d’artificio del 5 novembre. Il tutto è alternato a brevi interventi di studenti e lettori dei suoi romanzi che discutono e commentano. Tra essi non manca il bacchettone che reitera l’accusa di escapismo, e parla del culto di Tolkien, «soprattutto in America», come qualcosa che asseconda il disimpegno politico e sociale.
La risposta di Tolkien è sibillina, pronunciata con un sorrisetto malizioso, e riprende ciò che aveva già scritto nel saggio Sulle fiabe: in sostanza, conferma che in effetti si può definire un escapista, nel significato proprio del termine, cioè di qualcuno che fugge da una prigione. (La risposta completa cheTolkien diede, nel 1947, a chi accusava Lo Hobbit di disimpegno ed evasione è questa: «Non solo essi confondono l’evasione del prigioniero con la fuga del disertore, ma sembrerebbero preferire l’acquiescenza del collaborazionista alla resistenza del patriota » NdL).
La colonna sonora del documentario è tratta dal disco di Donald Swann The Road Goes Ever On: A Song Cicle (1968), che raccoglie canti e poemi della Terra di Mezzo, e a essa collaborò lo stesso Tolkien.
Ma è sul finire dell’intervista che ci si imbatte nel dettaglio più curioso, che tradisce del tutto l’immagine dell’autore costruita fino a quel momento e che letteralmente buca lo schermo. A un certo punto, rispondendo a una domanda sul Signore degli Anelli, il vecchio professore infila una mano nel taschino interno del panciotto, ne estrae un foglietto, inforca gli occhiali e con la sua parlata bofonchiante legge un passo di Simone de Beauvoir (1908-1986):
“Non esiste una morte naturale; di ciò che avviene all’Uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo. Tutti gli uomini sono mortali: ma per ogni uomo la propria morte è un caso fortuito, e anche se la conosce e vi acconsente, una indebita violenza”.
A commento della citazione, Tolkien afferma che «si può essere d’accordo con queste parole oppure no, ma sono la chiave [keyspring] del Signore degli Anelli».
In pochissime parole (già dette, al solito), Tolkien non si contrappose al canone modernista che ammetteva come “letterarie” solo le favole per adulti apertamente allegoriche: tentò, invece, di dialogarvi, mostrando che le strade potevano essere molto più numerose di quelle tracciate da un pregiudizio critico fermo agli anni Venti del Novecento. Scriveva, come dice ancora Wu Ming 4,  «perché credeva nella grande potenzialità dei miti e delle storie di dirci qualcosa su noi stessi», «la sostanza di cui siamo fatti».
Il punto è solo questo. Non bastasse, vi inviterei a leggere il prezioso libro di Simona Vinci appena uscito per Marsilio, Mai più sola nel bosco, dove si comprende molto bene come i miti e le storie sono intessuti con le nostre esistenze, e riescano a parlarci, a qualunque età, con una forza che altrove non è dato trovare.
Comunicazione di servizio: domani e dopodomani vado a parlare proprio di questo, e altro, alla Scuola Holden, come ogni anno. Il blog verrà aggiornato venerdì.

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