RICORDATI DI ME: ANCORA SULL'AUTOFICTION

Ieri sera, in chiusura di trasmissione, Maurizio De Giovanni è tornato sulla questione autofiction: che, intendiamoci, non è lo spettro che si aggira per il mondo letterario, ma una questione che ne suscita mille altre.  E’ vero che in questo preciso momento l’editoria va in caccia di storie del Sé. E’ altrettanto vero che i lettori gradiscono quelle storie, e ne vogliono ancora, e dunque gli autori ne scrivono di nuove, e ci si assicura vicendevolmente che quel che è in quel romanzo è accaduto davvero, giuriamo.
Che questo, alla lunga, rischi di essere un problema è stato detto più volte. Che la letteratura menta per sua natura, anche. Che ci sia una fame dell’io, del riconoscere nell’io altrui quello proprio, pure.
In tutto questo, si tende ogni tanto a dimenticare che l’industria culturale è, come da definizione, un’industria, e come tale soggetta alle leggi di mercato. Qualche anno fa (una decina, mi sembra), si provò a contrapporre la “letterarietà” (mi pare che fu Andrea Cortellessa a parlarne) di alcuni felici pochi alla macchina dell’editoria. Ricordo e recupero un commento, proprio su questo blog, di Wu Ming 4:
“A cosa serve contrapporre alla “società letteraria” – prigioniera degli automatismi commerciali e mediatici – una fantomatica “letterarietà”? A rimpiangere i bei tempi pre-industria editoriale, quando a leggere erano in pochi ma buoni? Quando c’era qualcuno, una casta di intellettuali più o meno organici, che stabiliva appunto lo statuto di letterarietà?
Il problema è essere considerati, accettati, patentati, lasciati liberi di scrivere? O non piuttosto il fare comune, costituire e allargare, con ogni mezzo praticabile, comunità di lettori attivi”.
La domanda è rimasta, in effetti. Ma si è veramente liberi di scrivere o non si cerca, anche inconsapevolmente, di seguire la scia? Avremmo apprezzato, per esempio,  splendidi libri come “In tutto c’è stata bellezza” di Manuel Vilas e “L’assassino timido” di Clara Usón dove entrano le vite degli autori e sono, indubbiamente esempi di letterarietà SE non ci fosse stata di mezzo la valanga di autofiction che ancora ci investono?   E quale verità, infine, racconta uno scrittore?
E infine no, non credo che finirà presto. Sono sempre stata e resto convinta  che i social abbiamo modificato il nostro spirito del tempo. Noi ci raccontiamo, ogni giorno, e raccontiamo quella che diventa la verità nel momento stesso della narrazione. Sono stati i giornali, per primi, a inseguire i social. Ma subito dopo sono venuti i romanzi: e non solo perché raccontano episodi drammatici o belli della vita reale (paternità e maternità, perdita di un compagno o compagna, malattia, dipendenze), ma perché si pongono come espressione di verità nei confronti del lettore. Questo, sottolineo più volte, al di là del loro valore letterario. Perché qualcosa sta pur cambiando se i territori esplorati dai libri che leggo o sfoglio in questi mesi sono quelli che pongono al centro la vita dell’autore oppure, se allargano lo sguardo,  incrociano la vita dell’autore o della sua famiglia con la storia.
Verità, onestà (sì, onestà: non uso a caso questa parola). E’ dunque questo il nuovo patto? Ti racconto me stesso allo stesso modo in cui su Facebook o Twitter o Instagram ti rendo partecipe della zuppa mangiata a pranzo, delle ultime parole di mia madre, della tomba nel bosco dove è sepolto il mio cane da questa mattina? “L’autofiction, c’est comme le rêve; un rêve n’est pas la vie, un livre n’est pas la vie”, diceva Serge Doubrovsky. Non mentire, chiede il lettore così come lo chiede il follower.
Ma la letteratura ha sempre mentito per sua natura, ripeto di nuovo. E, al di là, davvero, della tendenza narrativa ed editoriale del momento, quel che mi chiedo è se non stiamo, un po’ tutti, prendendo un abbaglio. O se non ci poniamo abbastanza il dubbio, tutto qui.
“But I want my novels to be novels, and my autofiction to be books”. Lo scrive il critico inglese Jonathan Gibbs, dunque qualcuno, altrove, i dubbi se li pone.

2 pensieri su “RICORDATI DI ME: ANCORA SULL'AUTOFICTION

  1. Cara Loredana, questo tuo post incrocia pensieri che rimugino da mesi. I social hanno cambiato, in maniera che non riusciamo ancora a quantificare, tutta la comunicazione, ma di più, lo statuto delle emozioni e dei pensieri. Brutalmente: non è penso dunque sono, ma sono sui social dunque sono. Il passaggio che viene a mancare o di cui si oblitera la percezione è lo statuto di rappresentazione, e quindi di finzionalità intrinseca che hanno quei luoghi. Da cui discende una grandissima mistificazione su verità, onestà, espressione diretta del sé e via dicendo che sono tanto più considerati valori, quanto più vengono cercati in luoghi che per definizione usano l’artificio, come ogni (buona) rappresentazione deve fare. Non necessariamente artificio e verità stanno in contraddizione, anzi per Aristotele il primo può aiutare ad arrivare al secondo, ma occorre averne consapevolezza. Uno dei pericoli che io vedo è lo scivolamento progressivo verso la performance continua dell’autore, emulo di influencer, emulo di attori e intrattenitori. Viene a mancare lo spazio per pensare. Per sedimentare. Per mettere in prospettiva. Per farsi ascolto. Se poi la letteratura oggi non abbia più bisogno di lontananza, prospettiva, sedimentazione, dialogo coi morti e con la morte, almeno quanto con la vita, è una cosa che non so dire. Sarebbe un cambio di paradigma epocale. Quindi dovremmo rifletterci e continuare a parlarne.

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