RILEGGERE HARRY POTTER NELLA DODICESIMA NOTTE

Mi concedo sempre una rilettura, per sopravvivere all’urgenza delle letture fresche, e al momento sto rileggendo Harry Potter. Mi interessava, quando, tre giorni fa,  ho ripreso in mano il primo libro, capire meglio come progrediva la costruzione del suo mondo, e come, crescendo, i personaggi aumentassero in complessità fino a quello che per me resta un  finale  (anche) doloroso, Harry Potter e i doni della morte.

Passo indietro. Era il 1997:  Harry Potter compiva undici anni ed entrava a Hogwarts, mentre nel mondo reale la sua prima avventura conquistava lettori su lettori e, insieme, suscitava serissimi dubbi editoriali. Moda passeggera o effettivo ritorno al fantasy? Perché, a ben ricordare, i regni magici, le creature alate e fatate, gli elfi e i draghi erano usciti da tempo dalla letteratura per ragazzi a larga diffusione per riversarsi altrove: nei videogiochi, nei cartoni animati, nelle architetture complesse dei giochi di carte come Magic o delle avventure di ruolo post Dungeon&Dragons.
Tempo un anno, e gli editori italiani cominciarono a parlare di boom e di “luce nel buio”, se paragonata alla crescita zero del mercato adulto. Ancora altri dodici mesi, e le cronache internazionali registrarono con stupore il duello in classifica fra il secondo romanzo della Rowling, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, e l’attesissimo Hannibal di Thomas Harris: vinse Potter. Infine, si arriva all’anno culmine: è il 2001, e insieme al primo film tratto dalle avventure di Harry esce il capitolo iniziale della trilogia cinematografica diretta da Peter Jackson da Il signore degli anelli. Le conseguenze sono immediate: il capolavoro di Tolkien fa nuovi proseliti fra i giovani lettori della Rowling,  su Internet si intasano forum e si inonda la rete di fan fiction dove spesso appaiono fianco a fianco gli incantatori di Hogwarts e gli elfi della Terra di Mezzo, in un unico orizzonte fantastico che viene, infine, restituito definitivamente alla pagina scritta.

Se ricordate, è da quel momento che fioriscono e si diffondono le storie fantasy che dal giovane mago (e, in parallelo, dai mondi tolkieniani) prendono ispirazione: il primo volume della serie di Artemis Fowl è proprio del 2001, l’anno successivo tocca alle eroine femminili, Nina e Peggy Sue, e nel 2003 arriva Eragon, di  Christopher Paolini, e poi tutti i personaggi che hanno fortissimi debiti con Potter, e dunque con Rowling.
Che è da ultimo contestatissima, ma è stata molto amata e ammirata e a volte disprezzata dalla critica accademica. Penso a Harold Bloom, che com’è noto detestava parecchi esponenti della letteratura popolare che ci si ostina a non riconoscere come grande letteratura. Quando, nel 2003, Stephen King venne premiato dalla National Book Foundation, Bloom diede fondo a tutta la sua indignazione, sostenendo che il premio era l’ennesimo colpo assestato alla cultura e che King era un autore di bassa lega, perché la sua era una scrittura basata sulla frase per frase, paragrafo per paragrafo, libro per libro, senza alcuna originalità. Nel 2016, fulminò Paola Zanuttini che aveva osato pronunciare il suo nome. Detestava Tolkien (“Tolkien e Lewis lusingano il narcisismo del lettore mentre ammorbidiscono il suo desiderio prometeico”), e considerava Rowling il segno della decadenza (“parlo a me stesso – cosa che la grande poesia ci insegna a fare – e a tutti quei lettori che in solitudine cercano istintivamente la grande letteratura, disdegnando chi divora autori come la Rowling e si affretta a suicidarsi intellettualmente nel grigio oceano di Internet”).
Quello che Bloom, e molti altri, non compresero di Rowling è che grazie a lei si verificò un intreccio fra lettori di età diverse: Harry Potter era amato dai bambini e dai loro genitori, in modi certamente dissimili, ma non nell’intensità. La saga di Rowling ha inaugurato quello che si chiama crossover, e cioè la fruizione intergenerazionale di un’opera. Inoltre, quelle generazioni unite nello stesso consumo culturale, hanno imparato ad amare i libri come qualcosa di vivo: tutti ricordiamo le file di genitori e figli, di notte, davanti alle librerie, per aggiudicarsi il nuovo capitolo della saga, tutte le volte che arrivava la vigilia della pubblicazione. Quelle notti erano un appuntamento con gli amici: questo sono stati Harry, Hermione, Ron, Silente per chi li ha letti.  E credo che sia successo anche perché le loro storie insegnavano che, nella vita, c’è sempre una scelta, anche se costa. E non conta come nasci, ma come e cosa scegli: solo in quel momento hai il potere di esercitare il bene, di opporti al male e tentare così di fare la cosa giusta. Tutte le volte che discutiamo dell’importanza di inserire dei buoni messaggi nella letteratura per l’infanzia, penso che i libri di Harry Potter abbiano fatto, contro il razzismo e il classismo, molto di più di centinaia di dibattiti, lezioni, pubblicità progresso e saggi prescrittivi e didascalici.

Non solo. Come accennato, la saga aprì una possibilità di incontro fra lettore passivo e lettore creatore (che interviene sul testo attraverso fan-fiction, fan-art e manipolazioni dell’originale) di cui a lungo parlò Henry Jenkins in Cultura convergente.  Ci sono scrittori che sono nati scrivendo fan fiction di Harry Potter: in Italia, il nome più importante che mi viene in mente è quello di Stefania Auci.
Tutto per un  bambino che sembra, all’inizio, un personaggio di Dickens, un piccolo che cresce alla fine del secolo scorso: orfano, solo, angariato dagli zii babbani che lo trattano come feccia. Tuttavia, non è mai davvero solo: i suoi genitori gli hanno lasciato un’eredità che impara a maneggiare con l’esperienza, e che condivide con gli amici. Ecco, gli amici sono stati, per Harry, fondamentali: altri bambini suoi pari, magari con minore potere di lui, ma dotati ciascuno di un particolare talento necessario al lavoro di squadra. Il potere del gruppo è un fatto che gli Anime giapponesi hanno sempre avuto ben chiaro, e che Rowling ha fatto suo. Le storie non devono insegnare, ma trasmettere.

Un pensiero su “RILEGGERE HARRY POTTER NELLA DODICESIMA NOTTE

  1. Ho sempre pensato che insegnare fosse sinonimo di trasmettere. Nell’insegnamento c’è tutta quella parte di lavoro, arte ed esperienza che una volta fattasi esempio trasmette una conoscenza, un punto di vista, un valore. Qual è la sfumatura che in questo caso viene data tra il peso dell’insegnare e quello del trasmettere?
    Grazie

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