RIPENSARE LA CULTURA

Ieri su Instagram una commentatrice ha espresso le sue perplessità sulle manifestazioni letterarie. In sintesi, diceva, ci si incontra fra i soliti, di norma ben vestiti ed educati, borghesi insomma, e si tralasciano gli altri.

Sono in profondo disaccordo e in parte invece d’accordo. È ingeneroso accomunare tutti nel gruppetto ben vestito (personalmente mi vesto in mercatini e negozi vintage, quindi me la prendo). È ingeneroso dire che siamo tutti fra noi. Certo, ci si conosce e ci si saluta, ma perche non si dovrebbe farlo? Anni di uno vale uno hanno fatto sfracelli da questo punto di vista, sinceramente: non ho motivo di sentirmi in colpa se saluto vecchie amiche. Fermo restando che io ai festival vado per lavorare e poi me ne torno a casa, sempre. È ingeneroso dire che i partecipanti non si sporcano le mani con le periferie, perché molti di noi ci abitano e si impegnano come possono.

Però.

Però è vero che i grandi festival non bastano più e che bisogna immaginare altro, che connetta molti luoghi piccoli in un modo diverso. Sì chiama lavoro culturale. Uso non a caso l’espressione di Luciano Bianciardi, che con quel romanzo esordì nel 1957 fornendo uno straordinario ritratto di quel che significa lavorare o voler lavorare nella cultura: al tempo, con i cineclub, con le biblioteche, con i gruppi di lettura. Bene, credo che dalla discussione dei mesi passati sia stato e sia assente questo punto: cosa significa, oggi, lavoro culturale?

Interrogarsi su questo significa chiedersi quale sia il rapporto di chi fa questo lavoro non solo con i mezzi di cui dispone al momento. Ovvero, non solo i giornali cartacei, non solo le riviste, qualunque sia la forma che assumono, non solo la radio e la televisione e il cinema, non solo Internet, qualunque sia il modo in cui ci si relaziona con i blog, i social, i podcast. Non solo, ancora, i saggi e i romanzi e i racconti, ma i manga, i fumetti, i videogames, i luoghi dove si parla di videogames e fumetti come Twitch. Le serie televisive. Wattpad.

Questi sono i particolari: ma in generale ciò con cui bisogna confrontarsi è l’enorme cambiamento che stiamo vivendo e che ci trascina dalla guerra alla pandemia all’Intelligenza Artificiale all’emergenza climatica e su cui non ci si riesce a soffermare. Non solo: invece di cambiare a nostra volta si privilegia, molto spesso, una visione personalistica (che tanto danno ha fatto e fa) rispetto all’intelligenza dei gruppi (che permettono di capire meglio quel che ci accade) e allo spirito di servizio.

Il lavoro culturale è anche, evidentemente, mettere insieme tutto questo, trovare le connessioni, scorgere i legami non visibili nell’immediato.

Si tratta, inoltre e soprattutto, di chiedersi quanto sia stato esaminato in generale e in particolare il rapporto con il cambiamento dell’immaginario (in ogni campo, dalla scienza all’economia). Quanto ci si rapporti e come con le mutazioni e le esigenze sociali. Significa, infine, chiedersi quanto sono cambiati i lettori e le lettrici, e capire fino a che punto reiterare quel che già sappiamo, e che funziona, abbia ancora senso e in quanta parte e fino a quando.

Non si tratta, insomma, di ragionare su un unico evento, ma sul ruolo di chiunque pratichi e abbia a cuore il lavoro culturale stesso. Sul ruolo degli intellettuali, diciamolo pure.

Nel 1963 Tullio De Mauro pubblica Storia linguistica dell’Italia unita. In quel libro, disse, «spiegavo la saldatura, che regnava in Italia, tra redditi, scolarità, capacità di usare la lingua italiana. Il libro, se posizioni ideologiche supponeva, supponeva quelle di ‘Nord e Sud’, del ‘Mondo’, dei liberali di sinistra. Ma qualcuno che lo lesse come giudice di un concorso disse: ‘Opera più che di studioso di agitatore comunista’. Comunista io? Mai sia! Ma già Leonardo Sciascia aveva scritto nelle Parrocchie di Regalpetra su quanto poco bastava – bastava? – in Italia per essere ritenuto un pericoloso sovversivo».

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