ROTH E QUALCOSA CHE PROGRESSIVAMENTE SPARIRA'

Domani e dopodomani sarò a Umbria Libri: il primo appuntamento, alle 17, è insieme a Giuseppe Lupo, per ricordare insieme Chiara Palazzolo. Se siete dalle parti di Perugia, passate da noi. Intanto, a proposito di scrittura, vi lascio per il week end l’intervista di
Nelly Kaprièlian a Philip Roth (traduzione di Simona Silvestris). E’ interessante, anche perché è possibile che questi ragionamenti sulla scrittura siano, d’ora in poi, sempre più rari.

Giornata ventosa d’autunno newyorchese, Philip Roth, in splendida forma, ci accoglie nell’ampio appartamento dell’Upper West Side. Il suo libro più recente, Nemesi, ambientato in una Newark, anni 40, dove Bucky Cantor, giovane insegnante di educazione fisica e uomo esemplare, si dedica ai suoi ragazzi nel mezzo di un’epidemia di polio, è uscito due anni fa negli Usa, nel 2011 in Italia e poche settimane fa in Francia. Nel frattempo, in Italia come in tutti i Paesi occidentali, procede la pubblicazione delle opere di Roth in riedizione approvata: dopo Good bye Columbus (1959) e Quando lei era buona (1967) arriverà in tascabile da Einaudi I fatti: autobiografia di un romanziere (1988) e sarà il 22 Roth sui nostri scaffali. Ma di nuovi romanzi, dall’autore di Pastorale americana non ne avremo più: “Nei prossimi dieci anni non ho intenzione di scrivere. Vi avviso, ho smesso. Nemesi è il mio ultimo libro”.
Decisione irrevocabile?
“E. M. Forster ha smesso di scrivere a 40 anni. E io che ho sfornato un libro dopo l’altro, non ho scritto nulla per tre anni. Ho preferito lavorare ai miei archivi da consegnare al mio biografo. Gli ho dato migliaia di pagine, memorie non letterarie e non pubblicabili così come sono. Non voglio scrivere le mie memorie, ma voglio che il mio biografo abbia il materiale per un libro prima della mia morte. Se muoio senza avergli lasciato nulla, con cosa comincerà?”.
Tra i suoi romanzi, Nemesi, che ha il respiro di un grande e bel testo metafisico sull’idea di caso e responsabilità nella vita di ciascuno, sembra in effetti quello dove rivela, più di tutti, la sua personale visione dell’esistenza.
“Nella vita è tutta questione di fortuna o sfortuna. Non credo alla psicoanalisi né all’inconscio che ci guida nelle scelte. Abbiamo solo la fortuna o la sfortuna di fare certi incontri che possono rivelarsi buoni o cattivi. La mia prima moglie, per esempio, era una delinquente – rubava in continuazione, mentiva… – se l’avessi saputo non l’avrei mai scelta, detesto i malviventi. Ma ecco, ho avuto la sfortuna di sposare una cattiva persona. Gli psicoanalisti direbbero che l’ho scelta inconsciamente: non ci credo, ma questo si ricollega in un certo modo al mio punto di vista secondo il quale, di fronte alla vita, siamo innocenti. In Nemesi il castigo è rappresentato dall’epidemia di polio, ma nel caso di Bucky Cantor, in realtà è causato dai suoi problemi di coscienza. Ciò che mi interessa in quanto scrittore, dopo Lasciarsi andare, uno dei miei primi romanzi, sono gli esseri umani con un senso estremo, molto radicato, della loro responsabilità. Bucky è un uomo che si misura solo attraverso la propria virtù, e ciò è molto pericoloso. La sua vita verrà rovinata non solo dalla polio, ma anche dalla sua aspirazione alla responsabilità totale”.
In che modo la polio ha attirato la sua attenzione?
“Prima di tutto per me è un tema nuovo, non ho mai scritto nulla a riguardo; poi perché ha significato molto per le persone come me, nate in America tra gli anni 20 e 30. La sua minaccia ci ha terrorizzato. È stato solo dopo aver scritto Nemesi che ho compreso il collegamento col mio romanzo Il complotto contro l’America: in entrambi i casi ho immaginato una tragedia che colpisce la comunità ebraica, dalla quale provengo, a Newark, negli anni 40. Nel caso del Complotto la minaccia è di mia invenzione (il nazista Charles Lindbergh diventa presidente degli Usa). In Nemesi la polio già esisteva, tranne che nel ’44 non vi è mai stata un’epidemia. E poi la malattia è la forma più estrema di sfortuna: arriva e non si può fare nulla”.
Al di là della sfortuna, ciò che le interessa è scrivere come un uomo reagisce a ciò che gli capita?
“Bucky sembra rovinarsi la vita rinunciando alla fidanzata, in effetti dato che lui vuole essere l’incarnazione della “responsabilità”, riuscire nella vita è rinunciare, anche se condanna alla solitudine. Ma non intendo giudicare questa reazione, voglio solo esaminarla. È così che contemplo il mio lavoro di scrittore: cosa succede di fronte a un’epidemia di polio? Il romanzo è fatto per porsi delle domande, non per dare risposte. Non scrivo libri filosofici. E quando si comincia a parlare di metafisica o filosofia, mi addormento (ride). Tutto ciò che mi interessa, tutto ciò che so fare, è raccontare una storia. Quando si parla in astratto ho l’impressione di avere dieci anni, non capisco più nulla e mi viene un gran sonno”.
Nei suoi ultimi romanzi la minaccia è una costante. Fino a che punto essere stato un bambino ebreo in tempo di guerra l’ha influenzata?
“Ho avuto un’infanzia molto protetta. I miei genitori non hanno mai divorziato, ho vissuto in una comunità ebrea al 99% e quindi non siamo stati toccati dall’antisemitismo. Certo, tra gli 8 e i 12 anni, il paese era in guerra e la cosa mi preoccupava molto. Tutte le generazioni che hanno vissuto la seconda guerra mondiale ne sono state segnate per la vita. L’altra minaccia reale era la polio: ogni estate, quando passavamo la giornata fuori ci parlavano della polio. Non ce ne importava nulla finché uno di noi ne è morto. Ma vede, non credo che il vissuto di uno scrittore abbia a che fare coi suoi libri”.
Allora cos’è che spinge a scrivere?
“Il desiderio di fare esperienza, il chiedersi “e se”? E se… succede questo o quello, cosa accade? Tutti i miei libri cominciano con quel “e se”? Per esempio: “E se un’epidemia di polio avesse toccato la mia comunità di Newark nel 1944?”.
Si vedrebbe scrivere “E se… quel genio sposasse una ragazza meravigliosa e vivessero felici?”. La felicità non è uno stimolo alla scrittura?
Ho già scritto un libro del genere! Anni fa, quando ho scritto Il professore di desiderio, volevo affrontare un tema molto comune, del quale però non si legge mai: due persone s’innamorano, si sposano… e poi cosa succede? Ebbene, il sesso sparisce, la sessualità muore. Il matrimonio è la via che porta direttamente alla castità. Ecco, ho cominciato a scrivere Il professore di desiderio su una situazione felice, ma che conduce a un problema vero.
Un problema autobiografico?
Troppo semplice credere che uno scrittore non scriva delle cose che gli accadono. La maggior parte del tempo scrivo di quel che mi succede perché sono curioso. Uno scrittore può essere attirato da temi molto lontani dal suo universo. Quel che conta è ciò che gli fa scaturire l’onda creativa, ciò che gli genera l’energia verbale. Alcuni possiedono questo potenziale, altri no.
Perché?
Non lo so. D’altro canto è da tempo che ho smesso di chiedermi perché. Sono giunto all’apoteosi della mia vita: oggi so che non so. I temi mi arrivano con difficoltà. Scrivere, per me, è sempre stato molto difficile. Il mio problema è che da bambino mi sono innamorato della letteratura. Solo più tardi ho pensato di fare lo scrittore. Ci ho provato e la cosa ha funzionato fino a un certo punto. Credetemi, avessi potuto fare qualcos’altro di meglio, l’avrei fatto volentieri! Ma all’inizio era così entusiasmante, e allora ho continuato.
Ha appena detto che la vita di uno scrittore non necessariamente influenza il suo lavoro, eppure si preoccupa di ordinare i materiali per la sua biografia?
Non ho scelta. Se potessi scegliere, preferirei che non scrivessero una biografia, ma dopo la mia morte, ce ne saranno, per cui voglio assicurarmi che una sia esatta. Blake Bailey ha scritto un’ottima biografia di John Cheever, che era mio amico, persona difficile da ritrarre, omosessuale e alcolista, ha passato tutta la vita a nascondersi. Bailey mi ha contattato, abbiamo trascorso due giorni interi a parlare e mi ha convinto. Ma non controllerò il suo lavoro. In ogni modo un 20% sarà falso, ma sempre meglio di un 22%.
Ha iniziato a preparare gli archivi per dopo la sua morte?
Una volta che Blake Bailey li avrà utilizzati ho chiesto ai miei esecutori testamentari, all’agente Andrew Wylie e a un’amica psicoanalista di distruggerli. Non voglio che le mie carte personali vadano in giro. Nessuno deve leggerle. Tutti i miei manoscritti sono depositati dal 1970 alla Biblioteca del Congresso.
A 78 anni come vede ciò che ha scritto?
A 74 anni mi sono reso conto di non avere più molto tempo, allora ho deciso di rileggere i romanzi che ho amato a 20 e 30 anni, perché sono proprio quelli che non si rileggono mai. Dostoïevski, Tourgueniev, Conrad, Hemingway… e quando ho finito ho deciso di rileggere tutti i miei romanzi cominciando dall’ultimo: Nemesi. Finché non ne ho potuto più: mi sono fermato poco prima di Lamento di Portnoy, che è imperfetto. Volevo vedere se avevo sprecato il mio tempo a scrivere. Invece ho pensato di aver fatto una buona cosa. In fin di vita il pugile Joe Louis ha dichiarato: “Ho fatto meglio che potessi con quel che avevo”. E’ proprio ciò che direi io del mio lavoro: ho fatto il meglio con quel che avevo. E poi ho deciso di chiudere con i romanzi. Non ne voglio più leggere, né scrivere, non ne voglio più nemmeno parlare. Ho dedicato la vita ai romanzi: li ho studiati, insegnati, ho scritto, letto. Escluso tutto il resto. È molto! Non provo più quel fanatico attaccamento alla scrittura provato tutta la vita. Impossibile affrontare ancora la scrittura.
Non sta un po’ esagerando?
Scrivere è avere torto tutto il tempo. Le nostre bozze raccontano la storia dei nostri fallimenti. Non ho più l’energia della frustrazione, non ho più la forza di affrontarla. Scrivere è frustrante: si passa il tempo a buttar giù parole sbagliate, frasi sbagliate, storie sbagliate. Ci si sbaglia in continuazione, si fallisce continuamente e si vive in una frustrazione perpetua. Si passa il tempo a dirsi: questo non funziona, devo ricominciare. Sono stanco di questo lavoro. Sto attraversando un momento difficile della mia vita: ho perso qualsiasi forma di fanatismo. E non provo malinconia, non penso che libro più libro meno, la situazioni cambi. E se scrivo un nuovo libro sarà probabilmente sbagliato. Chi ha bisogno di un libro mediocre in più?
Non ha voglia di scrivere dell’America di oggi?
Ho 78 anni, non so più cos’è l’America di oggi. La vedo alla televisione, ma non ci vivo più.

47 pensieri su “ROTH E QUALCOSA CHE PROGRESSIVAMENTE SPARIRA'

  1. No, Valerio. Semplicemente, anche rispetto a pochi anni fa ne leggo in misura decisamente inferiore. Sembra prioritario scoprire il nuovo Eldorado, sapere di marketing e di filoni trainanti. Al massimo, conoscere le regole per il testo vincente. E’ un fatto, non un anatema.

  2. “Scrivere è frustrante: si passa il tempo a buttar giù parole sbagliate, frasi sbagliate, storie sbagliate.”
    Parole sante. Il vero problema è che non se ne può fare a meno…

  3. Wow.
    Questa intervista è la cosa più bella che ho letto nel web questa settimana.
    E mi auguro che il pessimismo di Loredana sia eccessivo…

  4. Non c’è niente che basti, a mio modo di vedere, a dare un senso ad una vita.
    Ma evidentemente per Roth la scrittura ha rappresentato la grande sfida di tutta un’esistenza. E trovo, nonostante la tristezza, una straordinaria dignità nelle sue parole. Dignità umana, in primis, e anche dignità di invecchiare e di morire decidendo come impiegare il tempo rimastogli.
    Io li ammiro questi uomini (e donne) che dedicano tutta la vita alla loro passione. E se oltretutto con quest’arte hanno saputo anche donare del bello al genere umano, non vedo proprio cosa rimproverargli.

  5. Vorrei invecchiare come Roth, e avere la forza di scrivere un libro diverso e bellissimo come Nemesi. E, come dice Ekerot, di invecchiare con dignità e senza che gli inevitabili rimpianti che accompagnano tutte le vite diventino livore.

  6. Magari ce ne fossero di più di uomini che invecchiando male sanno essere così sinceri con se stessi, senza raccontarsi frottole, senza maschere e fondotinta, e capelli finti ecc.
    Uomini che hanno il coraggio di guardare la realtà dei fatti ed ammettere quando è il momento di dire basta senza rimorsi e paure.
    Per me rimane una lezione di dignità. Sullo stile letterario non mi pronuncio neppure vi basti sapere che i Nobel dei miei sogni sono Murakami e appunto Roth!

  7. Siamo sempre all’esistenzialismo in sedicesimo.
    L’importante è essere “autentici”. Della ricerca della verità e di un bene oggettivo non importa più a nessuno.
    Ma anche Hitler era autentico: credeva molto in quel che faceva.
    Per quanto mi riguarda l’assoluzione non è mai nello stile fine a sè stesso, e comunque denunciare la vanità di ogni cosa e intanto preoccuparsi di raccogliere il materiale per il proprio biografo non è nemmeno tutta questa lezione di stile.

  8. Un grande anche nelle interviste! Dice di aver abbandonato prima del tempo la scrittura, che per lui ha rappresentato la vita, ma di fatto è così attaccato alla vita da badare a ciò che rimarrà di lui dopo la dipartita. La sincerità disarmante la troviamo alla fine: ammette di non conoscere più il tempo che sta vivendo ed è consapevole di non poter più parlare ad un mondo che non conosce. Il desiderio di parlare al proprio mondo conosciuto è la spinta fondamentale alla scrittura, un certo bisogno di testimonianza.

  9. Per come la vedo io vanità sarebbe stato scrivere un libro senza avere nulla da dire, senza averne voglia, prendendo così in giro i propri lettori. Credo anche che molti editori (in particolare quelli italiani) avrebbero provato a convincerlo se non fosse l’uomo che è.
    Raccogliere il materiale per il proprio biografo è passatempo che a quasi 80 anni uno si può concedere senza farsi troppe paranoie sulla vanità.
    Se non sbaglio ha anche chiesto che dopo la sua morte tutto il resto del suo materiale venga distrutto, non mi pare la richiesta di un uomo molto vanitoso. Se penso che esistono autori che conservano per i posteri anche la loro lista della spesa!

  10. “Consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”, così cantava il poeta.
    E penso che Roth ce l’abbia fatta. “Pastorale Americana” è molto più che essere ‘autentici’, è un regalo che questo scrittore geniale ha fatto al mondo. Ha donato la sua bellezza letteraria. Non sarà il bene “oggettivo” (cosa significa “bene oggettivo”?), ma è comunque un’azione straordinaria.
    E poi, come siam bravi a giudicare un’esistenza e una persona da un’intervista.

  11. Che ingenuità, Ekerot. Nei romanzi e nelle interviste e soprattutto in chi li pubblica non c’è mai la persona o la volontà di conoscerla come tale, ma sempre e solo modelli, materia d’imitazione. Sempre e solo di questo si tratta e si giudica.

  12. Non ho mai capito chi chiede ai posteri di bruciare tutto ciò che ha scritto ed è rimasto inedito… ma non vuoi lasciare niente di più di quel che hai pubblicato, non fai prima a liberartene da solo?
    Oddio… poi è così che ci sono arrivati tutti gli scritti di Kafka, ma siamo su un altro pianeta…

  13. Loredana, guarda che non era una glossa malevola.
    Solo la constatazione dello scarto incolmabile tra vita interiore (imperscutabile da chiunque) e immagine pubblica, testualità, cultura, che per me resta ipotecata da un carattere essenzialmente mimetico (sono sempre più girardiano, lo ammetto).

  14. @Elena Elle non credo che per uno scrittore sia facile veder distruggere il proprio lavoro sebbene non lo si ritenga degno o pronto per essere pubblicato, si tratta sempre di ore di fatica e lavoro su cui ci si è spesi. Immagino sia per questo che si preferisce lasciare l’incombenza a qualcuno solo dopo la morte.
    Se non ricordo male l’anno scorso è uscito postumo “Il Lucernario” di Saramago, si tratta del suo primo libro, l’editore cui l’aveva mandato non gli aveva mai risposto. Quando lo scrittore era già famoso avendo ritrovato il manoscritto lo stesso editore gli aveva proposto la pubblicazione, Saramago rifiutò e si fece mandare il lavoro. Lo tenne per anni sulla scrivania ma non volle mai pubblicarlo, i motivi non li conosciamo.
    Dopo la sua morte la moglie Pilar ha deciso di darlo alle stampe.
    Nonostante io conosca dei veri fan adoranti molti si sono rifiutati di leggere il libro vedendolo come una mancanza di rispetto nei confronti di Saramago.
    I meccanismi e i sentimenti che stanno dietro a queste decisioni di Roth e Saramgo sono così privati e delicati che non mi stupisce il fatto che non distruggano da soli il loro lavoro.

  15. Ciao, io vorrei passare, ma alle 17,30 c’è Marilù Oliva che presenta mala suerte e mi piacerebbe andare anche lì….uffa!

  16. L’intervista è bella – alcune risposte molto belle. Ma quando dice quella roba li del romanzo che deve fornire domande e non risposte, del fatto che a lui la metafisica lo ammorba, ecco quella risposta è precisa e onesta e congrua con i suoi lavori, ecco li ho sentito il preciso motivo per cui a un certo punto io ho cominciato a pensare questo scrittore meno attraente di altri. Io ho amato moltissimo Roth, e per anni sono andata a caccia di usati delle sue cose – ma ecco, lo sento un grande esegeta di un momento storico, di una tradizione culturale. Ma a un certo punto, non gioca pesante. Non è appunto “meta”.
    Ora non è che buttarsi nella mischia metafisica sia un obbligo. Ma quando uno ci prova e scrive anche un gran bene, per me è davvero oltre.

  17. Ho letto “Pastorale americana” e non ho più voluto leggere altro di Roth. Colpa mia, ma non riesco a capire cosa ci trovi D’Orrico. L’unico personaggio interessante è Rita Cohen (se ricordo bene il nome), peccato che sia completamente senza senso.
    Questa intervista mi sembra meglio del romanzo. E’ bugiarda, naturalmente. Tutti i narratori dicono la loro verità attraverso le bugie. Ma almeno l’intervista dà la rappresentazione vera di uno stato d’animo. Domani Roth la penserà in un altro modo. Buon per lui.

  18. bello questo commento di ferrazzi. anch’io come binaghi non apprezzo molto roth, di lui a dire la verità ho letto solo un breve racconto ma che mi ha confermato nella istintiva repellenza . guarda caso però anche questa intervista mi conferma nel quanto sia repellente questo scrittore, e stupisce come le femmine lettrici lascino scivolare il suo commento sulla prima moglie; “ladra, delinquente, malvivente”. Sarà vero non sarà vero. Di certo scrivere certe cose dopo decenni non è da elegantoni. Anche il fatto che voglia far scrivere una biografia autorizzata e poi distruggere gli archivi personali , rende proprio l’idea di un vigliacco che teme la verità, e che ha sovrapposto- senza riuscirci- la letteratura all’inganno.
    ciao,k.

  19. La cosa più fastidiosa in Roth è la mancanza d’autentica radicalità, che l’ha portato a una produzione abnorme e in larga parte ripetitiva. Roth non ha molto da dirci sull’umano, soltanto ciò che sappiamo già, tutte le cose orrende che la vita ci costringe a subire fino alla vecchiaia; eppure non ha fatto che reiterarle per decine di libri.
    In lui non ho nemmeno mai sentito tutto questo gusto per la storia, la narrazione, giacchè la narrazione è sempre evidentemente al servizio d’un teorema più o meno nichilista, è una narrazione “a tesi”. Quando dice d’annoiarsi con la filosofia non si rende conto d’essere lui stesso un filosofo, un filosofo noioso, appunto. Trovo la sua preoccupazione per la propria biografia molto umana ma poco rothiana. Non è abbastanza radicale, appunto. Non lo è mai stato, ha “giocato” esteticamente con la disperazione. Perciò a lui preferirò sempre Leopardi, o Thomas Bernhard, o Nietzsche, o Celan o molti altri davvero sprofondati: perchè non si può scherzare con la serietà.

  20. E che scrittore sarebbe se non intendesse bruciare le proprie carte? E che narratore contemporaneo sarebbe se tendesse all’astrazione? E che autore ebreo sarebbe se la metafisica non lo annoiasse?
    E poi quali libri aveva da parte, Roth, sul suo tavolino, se non quelli che vorrebbe rileggere?
    E poi, un po’di obiettività: negli incipit di ottime interviste non esiste la “splendida forma”.

  21. Va beh alcuni commenti mi richiamano l’inveterata regola di Aldo:) ossia, attenzione a liquidare come scemo aka superficiale aka ingannatore qualcuno che percorre itinerari diversi dal nostro. Attenzione – si va incontro a imbarazzanti figure di cacca ecco.
    In secondo luogo – harper scusa eh, ma perchè tanti clichet sulla letteratura ebraica e anche piuttosto a cavolo? La letteratura ebraica è come tutto l’ebraismo assimilato e laicizzato – buona filosofia del novecento di matrice ebraica deriva da questa conversione di religione in metafisica – è intessuta di ricerca di senso, di richiamo al Totalmente Altro, per dirla con Horkheimer. La fuga da questa dimensione è una delle varie ragioni di attrito che Roth ha avuto con la comunità ebraica(certo non la più importante) e una delle ragioni della sua non assimilabilità con altri autori della tradizione. Malamud per dire.
    In compenso, è stato genialmente filosofico nel modo di utilizzare la sua biografia, come oggetto narrativo, come strumento di riflessione sulla tensione che sussiste tra esperienza e sua narrazione. Buona parte dei suoi romanzi fino al rocambolesco missione shylock, giocano su questa riflessione su ambiguità e scioglimento dell’ambiguità. Trovo filosoficamente davvero affascinante, il gesto dell’appropriarsi della lettura degli altri della narrazione della propria vita, distruggendo le fonti e dicendo al biografo cosa vuole che si dica di lui.
    E infine si penso anche io che sia una persona estremamente sgradevole, che non vorrei avere intorno. Philip Roth, se non ricordo male arrivò al divorzio con Claire Bloom per come l’aveva ritratta in un romanzo. E spesso fa delle riflessioni sulle relazioni di uno scrittore e il suo diritto a rinarrarne che mi lasciano perplessa. Non mi è mai piaciuto come ha parlato di Olocausto, spesso come ha parlato di donne. Tuttavia queste sono cose che ci fanno giudicare un soggetto politicamente, non esteticamente, non come scrittore. (Credo che il grande discrimine buoni scrittori e scrittori mediocri, è che la complessità il talento e il lavoro dei primi permette di poter disgiungere i piani. Mentre dei secondi hai la sensazione che le due cose siano sempre tristemente correlate. Pensiero ot. scusate se un po’ confuso).

  22. Lipperini, ci spiega perché in Italia il numero di copie vendute dei libri è un segreto di stato, mentre in altri paesi, come l’Inghilterra, la preziosa informazione appare in ogni classifica settimanale?

  23. “Scrivere è avere torto tutto il tempo. Le nostre bozze raccontano la storia dei nostri fallimenti. Non ho più l’energia della frustrazione, non ho più la forza di affrontarla. Scrivere è frustrante: si passa il tempo a buttar giù parole sbagliate, frasi sbagliate, storie sbagliate. Ci si sbaglia in continuazione, si fallisce continuamente e si vive in una frustrazione perpetua.”
    Come dargli torto? Verissimo. Comprendo tutto quel che dice. Eppure il pensiero che non scriva più mi è insopportabile. Se penso a quanto ho atteso negli ultimi anni ogni suo romanzo, sapere ora che non ne arriveranno altri mi rattrista davvero.
    Mi domando perché non gli abbiano dato ancora il Nobel.

  24. Guai a toccare i santini.
    Poi accusano gli altri di essere clericali.
    Albano, io magari m’intorcino, ma esibire due battute stantie di Roth come esempio di critica alla psicanalisi mi pare minimo.
    Io dopo aver letto il “Lamento di Portnoy” ho pensato qualche colloquio all’autore avrebbe fatto un gran bene.
    Ma in effetti, l’equivoco nasce dal fatto che a me della biografia di Roth e degli scrittori in genere non me ne può fregar di meno. Quel che m’interessa è il costume: buoni e cattivi modelli mimetici.

  25. sì, binaghi, lei si intorcina ed è per questo motivo che leggo roth e non lei. ciò detto, la sua mal repressa aggressività mi sconcerta sempre e qui chiudo l’elenco delle osservazioni poiché non sono in casa mia e pare brutto abusare dell’ospitalità.

  26. La mia mal repressa aggressività evidentemente non è così repressa, giusto? Quanto alla sua, dopo aver ripetuto per due volte che m’intorcino senza dire nè dove nè perchè, viene il dubbio che il delitto sia proprio quello di lesa maestà, da parte dell’amazzone letterata, sorta in difesa del Nume.

  27. Abbiamo un concetto un po’ miope di “offesa”, mi pare.
    La signora Albano mi ha dato due volte dell’intorcinato senza spiegare perchè, ma naturalmente il codice arbitrale in questi casi non prevede cartellino giallo. Bisogna inchinarsi e prenderle di queste botte, senza discutere. D’altro canto, a casa mia, nè “amazzone” nè “letterata” suonano come offese. Ma, insomma, cantatevela e suonatevela pure tra voi, se vi fa piacere.

  28. binaghi, il fatto che lei renda un’ovvietà con queste parole: “[È] la constatazione dello scarto incolmabile tra vita interiore (imperscutabile da chiunque) e immagine pubblica, testualità, cultura, che per me resta ipotecata da un carattere essenzialmente mimetico” è per chi scrive un evidente indizio di intorcinamento. dire poi di roth che è invecchiato male (cosa vorrebbe dire poi, nella fattispecie?) e osservare che la scrittura non basta a dar senso a una vita (un’altra ovvietà, questa volta pronunciata in maniera più comprensibile), e criticare dal basso della sua pigra giovinezza roth che a ottant’anni raccoglie il materiale per la propria autobiografia, abbia pazienza ma suona davvero grottesco. in fondo roth non vuole dare lezioni di stile a nessuno ma racconta ciò che desidera fare degli anni che gli restano. non ho ancora capito se il nostro scrittore americano sia andato alla ricerca del bene oggettivo, ma mi permetto di infischiarmene, dato che presumibilmente rimarrà per sempre sugli scaffali miei e di molti a venire. con buona pace dei rancorosi tutti.

  29. Niente. Nessun argomento. Solo irritazione, una sensibilità offesa nelle sue preferenze. Non dà nemmeno l’aria di aver capito cosa significhi “un carattere essenzialmente mimetico”. Cioè che di cosa Roth voglia fare della sua vecchiaia non m’importa una cippa, ma che un’intervista rilasciata è essenzialmente un ritratto e come tale sarà amorevolmente custodito dai fan. Invece si capisce benissimo che lei vuol buttarla sul: “come ti permetti tu scrittorucolo di second’ordine di valutare l’adorabile monumento, premiato da milioni di copie vendute? Sei rancoroso, vorresti essere lui”.
    Ora, nella sua (questa si grottesca) identificazione tra valore assoluto e obbedienza allo Zeitgeist, lei non prova nemmeno a immaginare che ci sia qualcuno che giudica esistenza e letteratura con un criterio diverso dalle classifiche. Stia serena, è in ottima compagnia, ci sono miriadi di sartine che ragionano così, e non fanno nemmeno gli editor.

  30. mi conforta molto accorgermi del fatto che il senso del mio messaggio “si capisce benissimo”: la cosa mi conferma che la mia scrittura è comprensibile. un pregio che apprezzo molto anche negli altri. e non sono neanche rancorosa, pertanto non escludo di poter cambiare opinione sulla qualità della sua scrittura dopo aver gustato la sua melissa.

  31. Allora, Anna. E’ chiaro che da adesso in poi se andiamo avanti è un divertimento a due.
    Ti pare sensato che uno si esponga al ridicolo paragonandosi come scrittore a Philip Roth? No, vero? D’altro canto, mi hai forse sentito dire che Philip Roth scrive male? No, infatti, perchè non lo penso.
    “Pastorale americana” mi aveva fulminato, era uno sguardo impietoso ma verace sull’America. Sono andato a cercarmi altre cose sue e non le ho trovate all’altezza di quello che io chiedo alla letteratura, e con “Everyman” ho smesso di leggerlo. Come ho detto più volte, rispetto molto l’artigianato (e lo pratico) ma se uno vuol sul serio dirmi qualcosa sull’uomo allora deve sapermi rappresentare l’uomo, non una sua caricatura grottesca e incattivita, e pretendere di conquistare ad essa l’umanità del lettore con una sorta di educazione sentimentale alla rovescia. Questo per me ha fatto Roth, e questo me lo rende poco digeribile. Dopo di che, almeno lui lo fa bene. I redattori di Nuovi Argomenti che lo imitano invece mi sciolgono gli intestini.
    Se poi mi dice che questa mia visione della letteratura la trova troppo “pedagogica”, è una critica che accetto, capisco che è molto fuori moda e siamo rimasti in pochi a sostenerla, ma a me va bene così.

  32. trovo che continuare a invadere lo spazio di loredana lipperini manifestando le reciproche ubbie letterarie sia piuttosto scortese. se crede, si può continuare da qualche altra parte, anche se gli spiegoni estenuanti che tanto fanno felici i frequentatori dei litblog mi stancano e non mi insegnano nulla. è vero, trovo la sua visione eccessivamente pedagogica ma trovo anche perfettamente naturale che lei la sostenga. mi indispone il registro delle sue comunicazioni, come dicevo spesso aggressive e talora contraddistinte da qualche sfumatura recriminatoria. e tuttavia, come diceva un saggio amico mio, ognuno è fatto come è fatto.
    mi scuso con loredana lipperini per l’indebita lunghissima conversazione di coppia.

  33. Nessun problema: non la considero indebita. Specie negli ultimi due commenti, anzi, mi sembra che mettere a confronto due visioni letterarie sia interessante anche per chi non partecipa al dialogo.

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