FORBICI

Tra i frammenti che riporto da Umbrialibri c’è una frase di Rosa Matteucci (detta incidentalmente a proposito di Cinquanta sfumature di grigio, appena una parentesi nell’immaignifica descrizione di una visita al santo sepolcro con ortodossi armati di scopa e visioni mistiche della morte): non riguardava ovviamente il contenuto della trilogia ma il lessico. “Non più di trecento parole, sempre le stesse”.
Il secondo frammento viene da Pablo D’Ors, scrittore spagnolo di cui Quodlibet ha pubblicato Avventure dello stampatore Zollinger (traduzione di Marco Stracquadaini) e Aisara pubblica Il debutto (traduzione di Ileana M. Pop). D’Ors, che è personaggio anch’egli visionario ma insieme molto attento, quasi severo nella costruzione dei racconti, ha detto a un certo punto della conversazione che “le parole sono una trappola”. Intendendo – o almeno così l’ho interpretato – che l’ossessione per la parola “bella”, dal suono seducente, in grado di ammaliare chi scrive e chi legge, può distogliere dalla lettura e dalla scrittura. E’ il vecchio “guarda mamma senza mani” di cui parlava David Foster Wallace.
Riporto i due frammenti fra i molti percepiti in questi due giorni perché credo che uno dei problemi della narrativa italiana stia esattamente qui: da una parte il restringersi del vocabolario a disposizione degli scrittori “mass market”, dall’altra un virtuosismo letterario che si autolegittima come fine a se stesso.  Naturalmente, la forbice è sempre stata questa e ha finito con il caratterizzare la nostra scena letteraria da decenni: ma per qualche tempo è stato possibile collocarsi fra le due lame, privilegiare la narrazione senza rinunciare al lavoro sulla parola, e viceversa.
Mi sembra che attualmente le lame siano molto più divaricate, e i fronti anche. O si è estetizzanti sperimentatori non interessati al racconto, o il racconto che viene diffuso si fonda su un linguaggio minimo. Minimo davvero: oggi Francesco Merlo su Repubblica si è cimentato nella conta dei termini utilizzati in rete da alcuni commentatori del Movimento5Stelle, e il risultato è: “17.300 basta! 9940 culo, 9090 cazzo, 8130 merda, 7610 computer, 4720 consumatori. E 4350 nazismo o nazisti, 2710 Hitler”. Se pensate che la citazione politica sia fuori luogo, fate un esperimento.  Qui è stata fatta un’analisi interessante della trilogia della James che riguarda, fra l’altro, proprio la scarsità lessicale: “I tre libri sono oggettivamente scritti male, l’editing è pessimo. Certe frasi, e talvolta intere perifrasi e paragrafi, si ripetono fino all’ossessione cerebralmente frustrante. Ed è qui il nodo: E. L. James ha sottolineato un bisogno latente: quello del brainless reading. Lettura disimpegnata, proprio grammaticalmente. Un’antitesi del concetto di editoria! Non riesco a spiegare il perché, ma mi viene in mente quanti video virali su Youtube o film/telefilm in streaming – in bassissima qualità, pixellati e sgranati – guardiamo abitualmente PUR di usufruire di quel contenuto. Dev’essere questo il motivo per cui la bassa qualità non ha ostacolato in maniera rilevante la disseminazione della trilogia.”
La questione è che quel ventaglio minimo di parole è quello che viene utilizzato oggi anche da autori che avevano dimostrato di possedere un bagaglio linguistico ampio: e che, alle prese col romanzone storico o languido che viene loro chiesto lo hanno compresso. Avviene anche nei libri per bambini, peraltro.
Non credo che il fenomeno sia innocuo, sinceramente.  A chiosa, basti riflettere sulle parole di Antonella Fiori in un articolo per L’Espresso di sabato: “Diminuisce la lettura: sono oggi 25,9 milioni gli italiani che prendono in mano almeno un libro, 723 mila meno rispetto al passato. La conseguenza? Gli editori corteggiano un nuovo tipo di consumatore di cui non immaginavano l’esistenza: uno che non solo ha bisogno di contenere i costi (causa crisi) e quindi si rivolge a edizioni a buon mercato ma a cui interessano “storie facili”. Un lettore bulimico, che più della narrativa di qualità, vuole intrattenimento. E ha bisogno di un’offerta continua che soddisfi questa voglia”.

30 pensieri su “FORBICI

  1. Secondo Marco Lodoli, gli studenti italiani che “non sanno più scrivere”. Pochissimi sono capaci “di argomentare, esemplificare, cucire le parole e le frasi tra di loro secondo logica e fantasia”. Manca “l’arte di annodare, incollare, saldare” fra loro i pensieri.
    Forse eccessivo ma non tanto secondo la mia esperienza di ex insegnante. Mancano, soprattutto, di “parole” e dunque, crescendo, la lacuna rimane anche se sono bravi una cifra a smanettare con i computer e aggeggi similari (e la parola “aggeggi” la dice lunga sulla mia imbranatura in questo campo).

  2. Non riguarda solo gli studenti. Nel decennio ottanta-novanta, quando ho cominciato a scrivere per i giornali, una collega mi disse: “il nostro tesoro è il lessico. Più parole conosciamo, meglio scriviamo”. Analizzare gli articoli, oggi, è constatare che nella gran parte i termini utilizzati sono diminuiti. E il computer non è, credo, l’unico responsabile. La questione riguarda, da una parte, la diminuzione del tempo da dedicare alla lettura. Dall’altra, il cosa si legge. Non voglio dire che occorre immergersi in linguaggi rigogliosi in ogni istante della nostra vita di lettori. Dico però che se si usano le parole professionalmente questa immersione è necessaria come la palestra per il corpo. Poi, c’è un duro discorso da fare per quanto riguarda i libri per bambini.

  3. @fabio lotti
    d’accordo. Ci sono però pochi insegnanti in grado ancora di insegnare ad argomentare, annodare saldare. Noi andando nelle scuole ne incontriamo di bravissimi. Ma molti insegnanti oggi sono disillusi e si affidano a compiti scritti anzichè interrogazioni orali, a multiple choice anzichè a argomentazioni verbali. Per combattere il fascino che il pc esercita sui rsgazzi/e serve creatività e desiderio.

  4. Infatti non riguarda solo gli studenti, perché poi questi crescono e diventano quelli che scrivono dappertutto. Mi sembra che manchi l’abitudine alla “fatica” della ricerca personale. Però parlando così mi sento un po’ dinosauro… 🙂

  5. *Poi, c’è un duro discorso da fare per quanto riguarda i libri per bambini.*
    Ultimamente causa cambio libreria abbiamo riordinato i libri del figliolo settenne, contati 110, ma quanti si salvano? Quanti li riapri ed è come la prima volta? Davvero pochi.
    Ammetto di non avere grande cultura e studi alle spalle e la scelta delle letture per l’infanzia è per me un compito ostico. Alcuni sono fantastici per le illustrazioni ma la narrazione stenta o si trascina in rivoli insignificanti, altri brillano per l’inventiva o lo humor ma peccano per mancanza o eccesso di colori. Mi vengono i mente, tra i tanti validi, gli albi illustrati di R. Innocenti (hanno messo d’accordo tutti in casa), o quelli di Babalibri; esaurita la lettura rimangano aperti però i canali dei commenti :”mamma, papà, guarda questo particolare, però che storia buffa e se fosse finita così…”
    Acciderbolina questi però non li regala mai nessuno!
    Nel tempo siamo diventati molto selettivi negli acquisti e abbiamo aumentato la frequenza e il prestito alla biblioteca di zona.

  6. L’equazione è facile, e pure vecchiotta: meno parole = meno libertà. Che ne abbiano sempre meno i “fruitori”, ormai è cosa nota: che ne vengano imposte sempre meno pure agli scrittori, è ben più che inquietante. Comincia a profilarsi l’ipotesi di un “concorso esterno”, dato che di poche parole, come insegnano i poeti, si può pure morire. Non mancano le eccezioni, figuriamoci: ma non mi piace vederle con sempre maggiore frequenza ed evidenza.
    Aggiungo ai suggerimenti di Fabio Lotti: e serve pure insegnare che un mezzo non sostituisce l’altro. Il PC ha il suo fascino e i libri hanno il loro: l’errore è pure non parlare delle incomparabili bellezze di entrambi.

  7. Vorrei aggiungere alla riflessione anche il tema della scrittura aziendale. Nella maggior parte delle aziende la tendenza a fare economia di parole e, fatalmente, anche ad impoverire i concetti, parte da lontano e ha trovato già dagli anni ’90 un alleato formidabile in powerpoint. Ma anche in un posto come quello in cui lavoro adesso, in cui si fa molta ricerca e powerpoint è pressoché bandito, stiamo assistendo a una progressiva scarnificazione dei documenti prodotti. Giorni fa ho chiesto a una collega molto giovane il favore di rivedermi una cosa che avevo scritto un po’ troppo di fretta: me l’ha restituita flagellata e mutilata, perché a suo dire c’erano troppi termini di difficile comprensione, troppe incidentali e tutte le proposizioni erano troppo lunghe. Il che in parte era anche vero, ma certo una via di mezzo tra il barocco e i pensierini sarebbe auspicabile.

  8. La Lipperini in una pagina coglie tutti i bersagli.
    Ho riletto due volte il tuo post. Sono colpita e affondata come lettrice, così come autrice. Mi sento un paradosso, sento le due lame della forbice contorcersi e riunirsi. Lo confesso: ho un dizionario limitato e al tempo stesso amo adornarmi di inutili coriandoli. Sono una di quelle che credono nella storia, che la mia trama faccia il miracolo di cancellare le brutture dello stile. E non ho futuro perchè non sono in grado di soddisfare voglie di istantaneo intrattenimento. Dunque che farò? Con le forbici non posso che dedicarmi al giardinaggio 🙂

  9. Certo non possiamo paragonare i paragoni di Bersani – aggiungendoci quelli di Maurizio Crozza che li espande coerentemente – con la povertà linguistica dei 5stelle!
    Ma in effetti nel panorama contemporaneo i due estremi – la forbice – ci sono: o la parola ri-luccicante ma fine a se stessa e vana o il raccontare trito – proto sceneggiatura per il prossimo film!: penso che proprio gli editori abbiano in ciò delle responsabilità.

  10. Non solo gli editori, in effetti. Gli editori – molti di loro, almeno – hanno la responsabilità di dire all’autore “fammi un libro così” perchè il precedente, dell’autore o di altri, ha funzionato. La critica ha la responsabilità di aver – in molta parte – inseguito la lama della forbisce che basta a se stessa. I lettori – alcuni di loro – di non compiere “salti”, di non cercare territori inesplorati, di voler leggere quel che già conoscono. Ma, come scrive giustamente Maurizio, la questione è diffusa.
    Ps. Giorgia: non c’è che una strada. Leggere 🙂

  11. un interessante caso di ingegneria letteraria inversa.E una puntualizzazione interessante,quella relativa alla forbice.Una capacità di sintesi che lascia inalterato il cuore del discorso e i frammenti di poesia dovrebbe costituire il discriminante per capire la qualità di quello che si prova a comunicare.Il problema è che ormai la difficoltà a concentrarsi rende immane qualsiasi sforzo teso all’interpolazione delle idee.”Agressi sunt Mare Tenebrarum quid in eo esset exploraturi»(cfr Poe)

  12. Poi, da lettori (e mi ci infilo anche io per non parere il bravino della situazione) siamo troppo buoni e poco esigenti. Come ho scritto da altra parte la moltiplicazione dei blog è un fatto di democrazia estremamente positivo. Il pericolo è, a mio avviso, che ogni piccolo consesso di lettori-scrittori si racchiuda in se stesso a miope difesa di certi “amici” e strutture narrative anche quando non lo meritano. Insomma vedo in giro, a proposito di recensioni e giudizi, un sacco di “eccellenti” francamente esagerati. E questo mi pare che disponga un po’ alla faciloneria dello scrivere.
    Il problema non è l’usare poche parole ma quelle giuste (il vocabolario di certi grandi scrittori è volutamente limitato). Però devi conoscerne molte per operare una cernita che viene quasi istintiva dopo una lunga ricerca e “fatica” (sono fissato con questo termine).

  13. Più che altro è una questione di “cerchie”: non tanto amicali, ma di gusti. Se mi piace il giallo leggo solo giallo, se mi piace l’horror leggo solo horror etc. Estremizzando, mi sembra che la tendenza possa essere questa. Vale anche per l’altra lama della forbice: non leggerò mai un horror, ti pare che possa leggere un giallo, etc.

  14. Che ti devo dire, Lipperini, a me pare che anche da parte di lettori-recensori di una certa cultura ci sia l’abitudine ad essere poco esigenti. Figuriamoci gli altri, ma mi posso sbagliare.

  15. Mi permetto di dissentire da Marco Lodoli: è uno che si crea (nel senso che crede di vederlo davvero, non accorgendosi che si tratta di una sua proiezione) uno “studente-tipo”, che corrisponde poi alle aspettative del “lettore-tipo” che ha bisogno di leggere Lodoli per sentirsi rassicurato nel trovare conferma in quel che già pensa. Piccolo aneddoto, durante l’autogestione della scorsa settimana: ho espresso questo giudizio dvanti agl istudenti, e un ragazzino (che al massimo sarà stato di terza) è intervenuto per dire che non solo il Lodoli editorialista, ma anche il Lodoli romanziere è così. L’avrei abbracciato.
    Sulla prevalenza delle verifiche scritte rispetto a quelle orali: è una conseguenza (che non è possibile che sia non voluta e non conosciuta) dell’aumento progressivo del numero di alunni per classe. Quando hai una media di 28 alunni a classe, e materie con una media di 2 ore, sei costretto a farli scrivere. Il che da un lato male non fa, ma com’è naturale perdi sull’altro lato della coperta. Se poi al posto della scrittura ci sono le crocette, allora il discorso è altro: ma, come direbbero i nostri ministri (di oggi, di ieri, di avant’ieri), “è l’Europa che ce lo chiede”.
    Rendiamoci però conto che queste sono le condizioni di sistema del fare scuola: per volere altri metodi e altra didattica, ci vuole un’altra scuola. Creatività e desiderio non sono una spolverata di parmigiano che si può mettere su qualsivoglia pietanza, a piacere.

  16. a me fa pensare a un’americanizzazione della comunicazione. filtrata dalla tv, in particolare dalle serie tv. l’inglese degli americani e’ ricchissimo, ma con 300-400 parole l’immigrata (tipo io) se la cava benissimo, anzi splende. e quando scrive si sente ripetere che la prosa e’ complicata, che bisogna parlare facile, che l’attention span del lettore e’ minima. dopo qualche anno di resistenza mi sono adeguata, mi tengo la lettura come strumento di espansione lessicale.
    tra parentesi, penso ai ken follett che hanno sempre riempito le borse per il mare di famiglia, non c’e’ sempre stata una scrittura-editoria “da pasto” e una “da meditazione”? non e’ comune, e tutto sommato democratico, che si possa scrivere con poche parole? io temo che il problema sia nella mancata coltivazione della pluralita’ nell’offerta, non nella presenza delle scritture spicciole. e’ come dire che non si fa buon cinema perche’ ci sono le serie tv.

  17. 1) “Più che altro è una questione di “cerchie”: non tanto amicali, ma di gusti. Se mi piace il giallo leggo solo giallo, se mi piace l’horror leggo solo horror etc. Estremizzando, mi sembra che la tendenza possa essere questa”.
    Loredana, io alla tua lista aggiungerei un’altra situazione: lettori (alcuni) che leggono esclusivamente narrativa e si rifiutano di affrontare la saggistica e viceversa.
    2) vado OT: di recente, parlando con due responsabili di differenti biblioteche (Bologna, Forlì), ho appreso che spesso si presentano persone in biblioteca che chiedono i libri “a noleggio”. In pratica, il meccanismo di prestito gratuito a molti è sconosciuto.

  18. Concordo con il post e mi sento meno sola. Mi hanno appena prestato un giallo d’ambiente medievale, premiato ad un concorso “storico” per libri in Italia, campione di vendite. Dopo poche pagine, sono rimasta esterrefatta e mi sono quasi sentita offesa, per l’elementarietà e la povertà (non solo “varietale” – del resto, anche il lessico di Hemingway era scarno, per dire – proprio espressiva) della scrittura. Però avevo paura che i miei gusti difficili di lettrice quarantennale mi avessero definitivamente separato dal mondo reale… grazie per la buona compagnia, sul serio.

  19. Loredana, si sa nulla della seconda parte del post di Ninja Marketing? Ho provato a cercarlo sul loro blog ma senza successo. Il post che hai segnalato era davvero molto interessante e mi sarebbe piaciuto leggere anche il seguito.

  20. Credo che bisogna iniziare a ragionare sulla velocità di lettura. I libri sfumati mi sembrano equivalenti a certi panini, tutti uguali, tutti con lo stesso peso, ma veloci da mangiare e semplici da gustare.
    Stiamo andando a grandi passi verso una letteratura “fast” e presto i grandi distributori digitali saranno i nuovi McDonald’s della letteratura.
    E’ necessario abituare ed educare i giovani ad una lettura lenta, consapevole, che suscita un pensiero di riflesso e un’elaborazione di quanto è stato letto.
    Altrimenti presto non ci saranno più buoni piatti da gustare ma solo insipidi panini da trangugiare. 🙁

  21. Sono daccordo con Valberici. Lettura, scrittura e conversazione sono strutturati a partire dall’ a-priori fornito dal media con cui ci si esprime. E questo a-priori è una declinazione temporale. Ogni media ne ha una e la comunicazione da un media all’altro è intraducibile. Il libro non è assimilabile dal frequentatore esclusivo de Web, quali sono la gran parte degli attuali adolescenti. Sopravviverà nella scuola, e nelle sue propaggini e in fondo questo dissipa molti equivoci sulle rincorse della scuola degli ultimi anni nei confronti dei nuovi media.
    Ma la comunicazione che rifiuta il libro non è affatto “inferiore” è semplicemente non-letterata. Corrisponde a un bisogno di contatto e di massaggio che un tempo forniva la libera socializzazione in strada e al parco, prima dei babau che ci hanno rinchiusi tutti in casa.

  22. Sono felice nell’apprendere che nella scuola dove insegna il bravo De Michele ci sono studenti della terza classe, “ragazzini”, che hanno letto parecchi miei romanzi, tanto da essere in grado di formulare giudizi denigratori ma precisi, sprezzanti ma articolati. Dunque non bisogna preoccuparsi riguardo alla diffusione della lettura nelle scuole. Si legge molto, se si arriva a leggere persino qualche mio libro! E già si capisce bene dov’è la qualità e dove la truffa, chi vale e chi non vale, chi scrive animato da un potente sentimento di verità, come De Michele, e chi, come me, fa il furbo!

  23. Da lettrice mi piace poter avere ampia possibilità di scelta, sia in termini di lettura disimpegnata, sia in termini di letture più ricche e strutturate.
    A volte ho voglia del puro intrattenimento e a volte ho voglia di riflettere, pensare ed allargare i miei orizzonti (cosa che poi, può accadere anche con una lettura di intrattenimento ben fatta ;-)). Il fast food, ogni tanto, non è da demonizzare purchè, ovviamente, non si riduca tutto a quello!!!

  24. Non mi riferivo a lei, ma ad alcuni dei post in risposta, che invece sono piuttosto manichei. Magari mi concentrerei sul progressivo appiattimento della letteratura di intrattenimento: prodotti editorialmente sempre meno curati, zeppi d’errori tipografici e a volte pure grammaticali, per non parlare delle traduzioni (dato che la letteratura di genere è sicuramente più prolifica all’estero) pagate due lire e tirate via.
    La bulimia consumistica la ritroviamo anche nell’editoria che sovraccarica il mercato con quintali di produzioni davvero scadenti. Anche per chi voglia svagarsi un paio d’ore diventa difficile orientarsi in questo mondo: non funziona la quarta di copertina, molto spesso fuorviante, non funziona la pubblicità (vedi fenomeni tipo twiligth e 50 sfumature per me ancora tutti da capire), a volte me la cavo col passaparola, con qualche blog (un’altra forma di passaparola, un po’ di intuito e tanta fortuna 😉

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