SE SCOTT JOVANE RICEVESSE UN LETTORE

Ipotizziamo di poter parlare con Pietro Scott Jovane, amministratore delegato e direttore di Rcs Media Group. E qui già vi scoppia la risata, perché quando mai un giga-manager come Scott Jovane, il cui curriculum è tutto un fiorir di “Chief Financial” e “Chief Executive”, riceverebbe qualche sgangherato/a esponente del mondo dei libri?
Però ipotizziamolo lo stesso, e immaginiamo di renderci presentabili, con tailleur o cravatta d’ordinanza, chignon austero o dopobarba di marca e di arrivare al cospetto dell’uomo che giusto ieri ha dichiarato che “la potenziale cessione delle attività Libri a “corrette condizioni di prezzo” consentirebbe a Rcs di concentrarsi su aree di business strategiche come le news e sport e porterebbe il gruppo a livelli di profittabilità in linea con gli altri principali concorrenti”.
Immaginiamo, dunque, di raccontare il nostro punto di vista, quello di persone che con i libri hanno a che fare in vari modi, scrivendoli e leggendoli e raccontandoli, e di esprimergli le nostre preoccupazioni sul SuperSoggetto Editoriale. Di tentare di spiegare che no, la questione non è tanto “oddioberlusconi”, e che anzi quella è una falsa questione, almeno secondo alcuni di noi. Che quello che ci preoccupa è, invece,  la fine che faranno le persone che rendono possibili i libri: i free lance come gli assunti, gli editor come gli uffici stampa, i traduttori come i direttori letterari. Quelli senza i quali il sistema editoriale non funziona, o funziona immaginando che il mondo dei libri sia identico al mondo dei bagnoschiuma o dei tortellini ripieni, mentre non è esattamente così, e le regole che valgono per i lodevolissimi bagnoschiuma e i sempre cari tortellini non sono le stesse.
Gli esprimeremmo, al presumibilmente già annoiatissimo Scott Jovane, i nostri timori, quelli ribaditi da Wu Ming 4 in questo post. Ovvero, che queste voci che sibilano di una mega-sforbiciata ai dipendenti ad acquisizione avvenuta, e  quelle che lasciano intendere una prossima vendita del SuperSoggetto ad acquirente straniero (magari un pezzetto per volta, che tutto insieme si fa brutta figura), delineano un futuro che avrebbe ripercussioni pesanti anche sulla qualità dei libri.
E perché mai?, direbbe probabilmente il sempre più stufo Scott Jovane? Perché, gli risponderemmo noi, il mercato dei libri è strano e ondivago. Non basta fregarsi le mani perché in classifica arriva il titolo che si sa di scarso valore letterario, ma è così semplice e piano da conquistare lo sdegnoso non-lettore, permettendoci però di pubblicare anche quelli desiderati dai lettori medi e forti.
Perché quando la classifica è occupata da titoli che all’ottanta per cento sono semplici e piani e, diciamolo una buona volta, così brutti che i titoli semplici e piani di una volta sembrano Foster Wallace, forse significa che si sta perdendo di vista il banale concetto secondo il quale l’editore è un imprenditore ma è “anche” persona che fa e diffonde cultura.
Si suppone che a questo punto Scott Jovane  ci guarderebbe con la pazienza compassionevole che si riserva ai cretini. E dal suo punto di vista avrebbe anche ragione: non è il suo mestiere, non è il suo linguaggio, non è il suo mondo.
Però, abusando della sua sopportazione, sarebbe bello tirare fuori dalla borsa   alcuni vecchi articoli. Trent’anni fa, un altro pianeta.
Accadeva, allora, che nel mondo letterario si dibattesse – di già – sulla crisi del libro e su come i best-seller facessero bene e portassero sangue nuovo. Per esempio, nel settembre 1984, Natalia Aspesi raccontava il clima pre-Fiera di Francoforte. Un clima quasi allegro:
“Ridimensionamenti, licenziamenti, cassa integrazione, amministrazione controllata, commissario straordinario, sequestro di libri contabili, vendita di gloriose case editrici a finanzieri d’ assalto, hanno sì funestato il mondo affannato dell’ editoria, ma adesso si parte per la Fiera come per una piacevole vacanza, con l’ animo di certe signorine che vanno in ferie non tanto per trovare un eventuale, indispensabile fidanzato, quanto per dimenticare di non averne. Nel 1983, segnala Leonardo Mondadori, le vendite di quell’ oggetto obsoleto che è il libro sono calate del 7 per cento, “ma se non ci fossimo stati noi, la perdita sarebbe stata del 14 per cento: la Mondadori infatti ha venduto il 4 per cento in più, cioè oltre cinque milioni di libri nelle sole librerie. Anche altri editori mi risulta abbiano avuto qualche soddisfazione”. E infatti Mario Spagnol conferma che per la prima volta, dopo anni arrancanti, la Longanesi è adesso comodamente in attivo, mentre il gruppo Fabbri – che è riuscito a ridursi di 500 dipendenti – ha diminuito di 15 miliardi il suo indebitamento e ha raggiunto un utile di 2 miliardi. E altre ancora sono le notizie cui si agganciano le speranze di chi si ostina a credere nel fascino della lettura. Un sondaggio Demoskopea di poche settimane fa assicura che per la prima volta, dopo cinque anni, la gente ha smesso di fuggire il libro come la peggiore delle jatture. Nei primi sei mesi del 1984 le librerie hanno venduto quasi il due per cento in più di libri rispetto allo stesso periodo dell’ anno precedente (cioè, all’ incirca, cinquantamila “pezzi” in più), mentre nel mese di luglio, forse per dimenticare le non più sopportabili telenovelas, i torpori da cattivo tempo, la prospettiva di vacanze-lampo, la gente avrebbe quasi assaltato le librerie acquistando addirittura il 20,2 per cento in più: soprattutto narrativa straniera, con in testa il vecchio Orwell, poi saggistica, con deliqui per Alberoni, infine narrativa italiana, preferendo Eco (che ormai ha venduto nel mondo più di tre milioni del suo Il nome della rosa), e, nei libri non classificabili, dilapidando tutte le copie reperibili di Bon ton di Lina Sotis”.
Nelle proposte degli editori italiani a Francoforte, però, non c’erano solo romanzi lievi:
“Nella precarietà capricciosa e indistinta dei sempre più numerosi non lettori, gli euforici editori italiani, già felici di non perdere miliardi e caparbiamente decisi a trovare la strada per far tornare di moda il libro, come fosse un pret-à-porter, ognuno va a Francoforte con il suo particolare tesoro; Longanesi con il Diario di una dama di corte, testo di Isabella Fedrigotti e magnifici disegni d’ epoca della vita quotidiana della corte asburgica, Garzanti con due nuovi libri di Calvino (tra i pochi scrittori amati all’ estero), Mondadori con L’ uomo del parco di Francesca Sanvitale, già in fase avanzata di vendita, e con Storia del pensiero marxista da Lenin a Castro di Massimo Salvadori; Einaudi annuncia il nuovo libro di racconti/saggio di Leonardo Sciascia Occhio di Capra, con il quale lo scrittore siciliano vuole attestare la sua fedeltà alla casa. Vito Laterza punta soprattutto su due opere: La prostituzione nel Medioevo del francese Rossiaud, scritto però appositamente per l’ editore italiano – già venduto in Francia e conteso da cinque editori tedeschi – e La città islamica, uno studio dell’ architettura attuale nei paesi arabi di un giovane studioso, Florindo Fusaro”
Passa qualche mese, arriviamo al marzo 1985, e Stefano Malatesta va a parlare con un drappello di direttori editoriali che avevano una caratteristica: sapevano di mercato e sapevano di libri.
“Oreste Del Buono, ora direttore editoriale della Rizzoli, racconta la leggenda di Uccelli di rovo: “Secondo inchieste fatte fare dalla casa editrice negli Stati Uniti sulle nuove preferenze dei lettori, nel libro ci dovevano assolutamente essere due cose. Primo: una storia che si svolgesse attraverso un itinerario “paraturistico”, con grandi distanze da un posto all’ altro e possibilmente passaggi e trasferimenti tra civiltà opposte e diverse. Secondo: una o più trasgressioni di genere sessuale che toccassero ambienti religiosi. Quindi una donna che andava a letto con un prete, destinato a diventare cardinale e a finire in Vaticano. A questo punto cominciarono le ricerche dell’ autore adatto e venne trovata la McCollough”.
Sembra la parabola del best-seller: ne ho già sentite numerose altre, di quelle che fanno sognare i nuovi amministratori delegati delle case editrici. Dopo un successo le spiegazioni si moltiplicano; in un’ era post-industriale spiace ammettere che si va ancora a naso per gli autori o i generi. Però c’ è confusione tra un libro costruito come un best-seller e quello che lo diventa. Dice Franco Occhetto, direttore della Feltrinelli: “La McCollough aveva già scritto Uccelli di rovo. Venne scelto e pubblicato perchè il libro aveva qualcosa”. D’ altronde per un Robbins e per un Follett ci sono centinaia, forse migliaia di scrittori in America che non vendono una copia, pur adoperando gli stessi ingredienti e le stesse tecniche. Altrimenti ci metteremmo tutti a fare non gli autori, ma gli editori. Piero Gelli, direttore della Garzanti, racconta una storia opposta a quella di Del Buono: “Mi trovo alla Fiera di Francoforte, quando vengo contattato da uno della casa editrice Knopf: “Abbiamo un testo straordinario, La congiura e morte di Lin Piao, scritta da un fuoruscito cinese, un testimone oculare, Yao Ming-le. Sarà un successo mondiale. Però massima segretezza. Se vuole, può leggere la traduzione inglese oggi stesso in albergo, alle 17, alla presenza del cinese. Sa, questioni di sicurezza”. Così alle 17 mi presento in albergo e per qualche ora sfoglio il tomo – quattrocento pagine – con Yao Ming-le dietro le spalle, che non mi molla mai. Sì, sembra roba di prima mano, Lin Piao e la famiglia uccisi a colpi di bazooka mentre stavano per salire su un aereo, ecc. Ma anche un po’ noioso, almeno per me, che conosco poco le vicende della Cina Popolare. Alla fine chiudo gli occhi e mi decido a comprarlo, pensando ai trionfi passati del Libretto rosso di Mao, allo scoop mondiale. Ne abbiamo vendute neanche mille copie”.
Bisogna muoversi con accortezza nell’ indicare nuove tendenze di lettura: se va quello o quell’ altro. Perchè si rischia di essere smentiti dopo pochi mesi o di indicare ragioni superficiali, apparenti o limitate. Paolo Caruso, direttore della “Varia” della Mondadori, dice che il successo di Delitto Imperfetto di Nando Dalla Chiesa, 140.000 copie, si fonda su un bisogno diffuso di onestà e moralismo. Nel gergo montecitoriano “moralista” è solo un insulto. Per la gente comune il moralista è qualcuno che rampogna, giustamente, la classe politica e dintorni, che propone a modello figure solide, pulite, magari con qualche difetto, ma integerrime (vedi Pertini). Questo spiegherebbe l’ alta vendita dei libri dei più noti giornalisti italiani (Biagi, Bocca, Ronchey, ecc.) che sono, inevitabilmente, dei moralisti. La diagnosi si può anche accettare. Ma appare un po’ vaga e non tiene conto della differenza di tirature tra un libro e l’ altro, delle recensioni incrociate che si fanno gli autori, della indiretta – o diretta – promozione giornaliera attraverso le firme sui quotidiani. Il caso Dalla Chiesa sembra poi a parte: per l’ enorme impressione suscitata dall’ assassinio del generale che aveva sconfitto le brigate rosse (morte di un eroe lasciato indifeso da uno Stato poco riconoscente), per il tema connesso della mafia, che è quasi un genere letterario con una percentuale sicura di lettori, per le polemiche successive. Così è vero che esiste un ritorno ai classici, per le ragioni che abbiamo spiegato nel precedente articolo. Ma tra classico e classico c’ è una bella differenza. La tendenza a comprare Il ritratto di Dorian Gray, molto venduto come altri libri di Oscar Wilde, non è esattamente la stessa che spinge ad acquistare Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro – 90.000 copie in un anno -: come si concilierebbe un recupero del dandysmo con la riscoperta dell’ “Ombretta sdegnosa / del Missipipì / non far la ritrosa / ma baciami qui”? E perchè Cecco Angiolieri tira più di Petrarca? “Perchè i sonetti di Angiolieri sono ribaldi, suonano più vivi e vitali di quelli del “letterato” Petrarca”, risponde Evaldo Violo, direttore della Bur. Allora dovrebbe andare anche l’ Aretino, e invece no. Prendiamo un altro settore in espansione, con lettori crescenti: quello che si potrebbe definire della nuova spiritualità. Qui ci sono meno controindicazioni, l’ interesse è ecumenico, negli Oscar si va da Origene a Sant’ Agostino, a Pascal, a Carlo Bo, con un’ accentuazione del filone cattolico. La riscoperta di Dio, di Gaspare Barbiellini Amidei, ha venduto 50.000 copie. Una bella alzata d’ ingegno editoriale è stato il libro sui dieci comandamenti, analizzati e commentati da dieci cardinali. Si vorrebbe però sapere se l’ interesse sia del tutto spontaneo, o se sia stato, almeno in parte, indotto dal nuovo corso di Papa Wojtyla, dalla propaganda porta a porta di Famiglia Cristiana. Negli Stati Uniti Reagan spiega complessi fatti politici citando la Bibbia: sarà un segno dei tempi.
Altro esempio: i manuali come best-seller. Sembra siano cinquemila titoli l’ anno, circa un quarto della produzione libraria. Nel primo articolo spiegavamo il successo di Impariamo l’ italiano di Cesare Marchi. Ma prima del libro di Marchi era uscita, per Sellerio, la magnifica Grammatica italiana di Panzini, che ha venduto molto di meno. E nello stesso periodo sono stati pubblicati due o tre testi analoghi. “Le grammatiche, i manuali sul saper scrivere e parlare erano nell’ aria”, dice Del Buono. “Però Marchi è diventato un best-seller. Gli altri sono rimasti fermi. Come inizia a “partire” un libro, rimane, alla fine, sempre abbastanza misterioso”.
A volte si potrebbe supporre che il segreto stia nel titolo. “La direzione commerciale della Mondadori era contraria al titolo Bon Ton“, ricorda Paolo Caruso. “Dicevano che la gente non avrebbe capito, preferivano il genere esplicativo, tipo “Il nuovo galateo”. Invece Bon Ton, questo squillare di campanello, è la forza del libro. Per la Storia della filosofia di De Crescenzo avrebbero preferito Caro Salvatore, tocco napoletano-familiare. Quando si decise per la “Storia”, la tiratura iniziale venne abbassata a 40.000 copie, contro le 80.000 previste per un libro di De Crescenzo. Poi ne sono state vendute 360.000 copie in venti mesi, proporzionalmente più del Gattopardo, del Nome della rosa e del Dottor Zivago perchè, con il titolo giusto, l’ hanno comprato nelle scuole”. Forse quello che dice Caruso è esatto, plausibile. Ma forse non lo è: il dubbio rimane, per fortuna dei libri e dei restanti lettori.
Il successo della collana di Harmony è, per quanto deprecato, indiscutibile. Ma se uno compulsa gli annuari o le collezioni di giornali, si accorge che il filone rosa rimane una costante di tutta la produzione italiana, da decenni. I libri di Liala, riproposti negli anni Settanta, cioè in un periodo teoricamente negativo per i languori di signorinette, ripresero a vendere come nell’ anteguerra. Harmony è solo l’ accorto aggiornamento di un fenomeno che già conoscevamo, allargato con maggiori investimenti e pianificato industrialmente. Però è anche vero che “l’ amore”, nei titoli e nei testi, richiama più che nel passato, come ha dimostrato Alberoni con Innamoramento e amore, 350.000 copie. Ma adesso che mi ricordo: Love Story, di Segal, ha venduto 800.000 copie, ed erano sempre gli anni bui del Settanta, eccetera.
In genere i direttori editoriali concludono le conversazioni sui lettori e sui libri con questa frase: “Bisogna puntare sul valore dei testi. Quando un libro è veramente buono, alla fine ha sempre successo. E’ l’ unica programmazione che si può fare, quella che paga”. Nobili propositi, che spesso, purtroppo, non danno i risultati sperati. A parte il fatto di stabilire se un’ opera sia “veramente buona”, ci sono in giro troppi casi contraddittori per fare di questa regola aurea una certezza, almeno dal punto di vista commerciale. In Italia si sono vendute in poco tempo 25.000 copie de L’ amante della Duras, scrittrice che è un caposaldo ben conosciuto della letteratura francese del dopoguerra. Ma i primi libri di Michel Tournier, come dire il migliore scrittore d’ oltralpe da vent’ anni a questa parte, sono finiti ai Remainders (Il re degli ontani, ad esempio). Mi sembra giustificato l’ apprezzamento generale, anche dei critici, ai Figli di Mezzanotte di Salman Rushdie, ma i racconti di V.S. Naipaul, ossia di uno scrittore considerato prosatore assoluto in lingua inglese, che descrive gli stessi ambienti “terzomondisti” di Rushdie, anche se con distacco europeo, stentano a superare un certo giro di conoscitori. Infine, per rimanere dalle parti dell’ India, ci sarebbe un libro scritto una sessantina di anni fa, diciamo un capolavoro: Passaggio in India, di E.M. Forster, molto citato e letto mai. Consigliamo di comprarlo prima che arrivi il film: così uno può seguire meglio la storia”.
Trent’anni fa. Roba vecchia, da rottamabilissimi intellettuali. Giusto. Eppure quel gioco di equilibri permetteva di pubblicare un Naipaul e anche un Alberoni. La nostra paura, è questo che vorremmo dire a Scott Jovane, è che quel gioco finisca. E che i venturi gestori del SuperSoggetto, da qualunque paese provengano, non lo capiscano, e trovino improduttivo, che so, permettersi “Gli increati” di Antonio Moresco. Lo trovino un lusso. Mentre è quel che è: un libro. Un bel libro.
(D’accordo, non ci provo nemmeno, a parlare con Scott Jovane: sarebbe lui a mettersi a ridere).

4 pensieri su “SE SCOTT JOVANE RICEVESSE UN LETTORE

  1. Ma la domanda è: per quale motivo dovresti parlarci? Ma ti pare che uno produce tortellini scadenti e la gente gli citofona per dirgli di farne di migliori? C’è il mercato per questo, ti risponderebbe. Comprane di un’altra marca, ti risponderebbe, e farebbe bene. Lo stesso ti direbbe Jovane: compra altri libri, produci altri libri. Cosa vuole da me? ti chiederebbe. Se uno arrivasse qua e ogni giorno ti chiedesse di parlare di questo e quest’atro cosa gli diresti? Il blog è tuo e decidi tu di cosa parli. O sbaglio? A me il problema sembra che nel mondo editoriale la mentalità sia ferma ai tempi dei mecenati o che si considerino le case editrici come delle opere di bene. C’è il mercato e c’è internet, ognuno può pubblicare ciò che vuole. Quelli che hanno firmato l’appello se ne vadano dalle loro case editrici, mettano i soldi in comune e facciano la loro casa editrice come la vogliono.
    Ad ogni modo, in questi giorni è uscito un libro che pare una forza, parola di Mozzi. Si chiama La circostanza, di Francesco Paolo Maria di Salvia

  2. Ommadonna, questi come Jackie Brown che insistono a discutere di cose di cui non sanno nulla meno che nulla, forti delle loro piccole ideologie.
    Mercato, mercato, mercato e poi ragionano come se tutto fosse uguale a tutto e che vendere libri fosse come vendere pomodori o vendere case come se fosse vendere telefonini o vendere chiodi come se fosse vendere candeggina. Ogni prodotto o almeno categoria di prodotti ha le sue peculiarità ma loro niente, il mercato, il mercato, il mercato… Mercato dove fallirebbero in due giorni, dovessero entrarci.
    Quando ero giovane erano marxisti-leninisti e simili; ora sono liberisti e/o cattolici tradizionalisti.

  3. Speriamo che qualcun* si accorga che ormai il vecchio dio biblico è stato ampiamente sostituito da un dio ben più geloso di quello: il Mercato. E che come ogni dio geloso non sia minimamente interessato alla libertà (se non condizionata) dei suoi adepti, ma richieda solo sacrifici ai suoi altari effettuati dai suoi autoproclamati sacerdoti. Ti ha mai sfiorato questa idea, Jackie Brown?
    Sempre per Jackie Brown: hai mai letto un economista classico in vita tua? Lo sai che oligopolio e monopolio sono considerati dalla stragrande maggioranza di questi autori come gravi distorsioni del mercato stesso? Come risolviamo questo dilemma insito nel “mercato” (necessità di libera concorrenza e tendenza “naturale” alla concentrazione di offerta e, talora, anche di domanda)?

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