Per prima cosa, una piccola comunicazione di servizio: per chi volesse saperne di più sul Trenino e avesse mancato i due precedenti incontri romani, domenica alle 19 sarò a Libricome con Alessandro Zaccuri e Marcello Kalowski, Officina 2. Se passate, ne sarò contenta.
La seconda faccenda riguarda il modo di concepire polemiche culturali oggi. Non sono polemiche, sono per lo più frecciate velocissime, spesso date alle spalle come nel vecchio gioco dello schiaffo del soldato. Per dichiarata nostalgia, vi offro in cambio quella che fu una polemica nel maggio 1984, perché dopo questo articolo di Beniamino Placido si scatenò un (approfondito) finimondo. Godetevelo e sospirate.
Ci mancava anche questa, adesso: la “cultura del terremoto”. Ci mancava solo questa. Chi ci osserverà di qui a qualche millennio, chi ci osserva già oggi da lontano, da qualche paese straniero, non potrà, non può avere dubbi. Il nostro paese può difettare di molte cose, ma non certo di “cultura”. Si parla quotidianamente di “cultura” della mafia, della camorra, della “ndrangheta”; di “cultura” della pace e di contrapposta “cultura” della guerra; di “cultura” di governo e di “cultura” dell’ opposizione; di “cultura” delle riforme e di “cultura” della rivoluzione; di “cultura” del terrorismo e – visto che la terra trema – di “cultura” del bradisismo.
Sono ovviamente fiero (come tutti, mi immagino) di questa fioritura culturale che onora il nostro paese. Ma, sinceramente, non la capisco tutta. Di fronte ai movimenti tettonici che ricorrentemente ci onorano, non vedo perchè si debba scomodare la parola “cultura” (dei terremoti). Sarebbe più utile mobilitare le risorse della geologia, e soprattutto cercare di appurare se è vero quello che si dice. Che cioè, quando mancano i quattrini per la copertura di nuove leggi di spesa, si fa qualche storno dai fondi destinati al riassetto geologico del territorio. Tanto, mica il terremoto arriverà domani. Il terremoto difatti arriva – puntualmente – dopodomani.
Ma che c’ entra tutto questo con la “cultura”? Ancora più sorprendente (per me anzi più sconcertante) l’ uso della parola “cultura” in riferimento a fenomeni francamente ripugnanti. Non c’ è la mafia, ma la “cultura” della mafia; non c’ è il terrorismo, ma la “cultura” del terrorismo; non c’ è la droga, ma la “cultura” della droga. Non c’ è la tangente (vulgo: mazzetta), ma – per carità – la “cultura” della mazzetta. Forse siamo – chi può dirlo? – ad una svolta storica. Di storia della filosofia. Al rovesciamento della posizione socratica. Per Socrate, ogni malefatta era un fenomeno di “incultura”. Fa il male solo chi non conosce il bene. Per noi invece anche l’ ultimo ladruncolo colto con le mani nel sacco appartiene alla “cultura” del furto, con o senza scasso (“cultura” in senso “antropologico”, aggiungono con aria grave i nostri appassionati “culturisti”, ben sapendo la profonda impressione che con queste parole ci fanno). Perdoneremmo tutto, anche questo goffo esibizionismo culturale o “culturistico”, se non sorgesse un sospetto.
Il sospetto che usiamo tanto spesso la parola “cultura” perchè vogliamo non dico nobilitare, ma distanziare i fenomeni sociali più imbarazzanti. E così facendo, intanto nobilitiamo e distanziamo noi stessi, che non abbiamo più a che fare con la mafia, la camorra, la droga, ma con la “cultura” delle medesime (ciò che, riconosciamolo, è molto più piacevole). E poi, questa passione culturale in un paese come il nostro, che è sempre agli ultimi posti nelle classifiche del consumo di carta stampata, che consuma tutto – dal whisky alle vacanze esotiche – ma non i libri, fa venire in mente qualcosa. Fa venire in mente la definizione che gli studenti del Maggio francese scrivevano sui muri della Sorbona: “la culture est comme la confiture; moins on en a, plus on
l’ ètale”. La cultura è come la marmellata; meno se ne ha, più la si spalma. Dall’ appassionato fervore con cui la spalmiamo dappertutto, dobbiamo dedurre che la nostra riserva di marmellata culturale è piuttosto modesta. Per questo passiamo il tempo a spalmarla dovunque, in strati sempre più sottili. Poi ci lecchiamo le dita, soddisfatti della cultura (o della confettura) che abbiamo.
Mi aggrego alla dichiarata nostalgia, e ai sospiri.
Bah, il problema è ampiamente risolto: oggi la parola cultura è diventata una sorta di bestemmia e quindi la si usa il meno possibile. Forse la marmellata è finita e ora si cerca di gettare il vasetto… chissà se a qualcuno verrà una qualche voglia di riassaporare il sapore perduto? Magari si potrebbe ricominciare a prepararla, la marmellata.