SESTO INTERLUDIO: PORSI LA DOMANDA

E dunque, la cultura ci rende umani? Ci salva, la cultura? Ieri ce lo siamo chiesto a Fahrenheit, riprendendo l’antica domanda. Come accennavo brevemente su Facebook, forse il punto è proprio in quel porsi la domanda. Scriveva Mario De Santis, via mail, durante la diretta: “mi colpisce quando Albinati, che è un grande scrittore, non vuole dare la definizione di cosa sia “migliore”. Da un lato penserei che da uno scrittore mi aspetto un riempimento del significato delle parole. Forse però la cultura, almeno la nostra, post ideologica, fa proprio questo: non decidere. Da un lato ci rende più deboli ed espone al fallimento. Ci fa dire che bisogna porre le domande e non dare risposte. E allora direi che per quante prudenze possa avere Albinati, sta già tracciando un confine. Chi legge e frequenta mostre non  è indenne, ma tendenzialmente, chi legge , chi pratica quell’attitudine a mettersi in discussione, è differente da altri, molti, forse la maggioranza: che oggi ha certezze assolute, che ha la verità in tasca, sui vaccini, sui migranti, sulle donne, su tutto.
Ecco, proprio porsi la domanda ” che cosa significa essere migliore?” e non voler dare una risposta FA la differenza. Non dipende sempre dalla lettura dei libri che hai letto, ma senza dubbio è maggiore in chi pratica cultura che in chi non la pratica”.
Oggi, in un tempo in cui  molti scrittori e lettori sembrano ugualmente pieni di certezze su tutto, vale la pena tornare a interrogarsi sul punto. Magari, andando a rileggere cosa scriveva (sì, lui) Franco Fortini. Nel 1945.
“Quando si pronuncia la parola cultura, viene fatto di pensare ai libri e allo studio; perché per i più, infatti, cultura equivale a sistema più o meno organizzato di conoscenze intellettuali. Per altri, e per noi, cultura è invece il modo nel quale gli uomini producono quanto è necessario alla loro esistenza, la particolare maniera, mutevole per il mutare dei mezzi di produzione, con la quale essi entrano in rapporto con gli altri uomini e con le cose. Cultura è la forma nella quale gli uomini, nella loro storia, si sono scambiati i prodotti del lavoro, costruite capanne e cattedrali, scelte le parole dell’amore; è la forma varia nella quale hanno fissato i costumi, i riti, le leggi; nella quale hanno arati i campi, esplorato il mare, condotto gli eserciti, speculato i cieli, composto i poemi.
Queste forme noi sappiamo che non soltanto non sono eterne ma che anzi si mutano più o meno visibilmente nel tempo secondo una legge necessaria che l’uomo deve cercare di conoscere per potere efficacemente agire.
Mutano i mezzi della produzione e poi, lentamente, penosamente, muteranno di conseguenza leggi, costumi e filosofie degli uomini. Un’antica popolazione ne rese schiava un’altra; e il lavoro dei vinti lasciò respiro ai vincitori, non più costretti all’aratro, per scolpire le statue di Atene o dettare le leggi di Roma. La scoperta del vapore creò, con la grande industria, gli enormi proletari del secolo passato; e il lavoro dell’operaio moderno poté lanciare le transiberiane che recarono all’artista occidentale le opere d’arte della cultura giapponese e a quella le meraviglie della meccanica europea. Questi modi, queste forme costituiscono dunque la cultura (o la civiltà) di una determinata nazione o popolo o classe o individuo, in un dato tempo o periodo.
Ma il tempo odierno, per essere quello d’una profondissima trasformazione dei mezzi e dei rapporti di produzione, vede anche una crisi rivoluzionaria della sua cultura. E questo si scorge appunto nel concetto di cultura; che è ancora, per molti, legato a un’erronea distinzione fra spirito e materia, fra arte e scienza, tra lavoro dell’intelletto e lavoro delle mani. La rivoluzione industriale che dovunque, ora è un secolo, portò al potere la borghesia del capitale provocò un modo di produzione – la grande fabbrica – che era destinato ad alterare profondamente tutta la cultura della società; ma sopravvivevano intanto, come tutt’oggi sopravvivono, leggi costumi arti e filosofie dell’epoca precedente, modi di produzione intellettuale che, per antichissima tradizione, godevano d’una considerazione privilegiata.
Avvenne così la distinzione della quale oggi soffriamo: i filosofi, gli artisti, gli studiosi furono “industrializzati” e usati come merce qualsiasi, oppure furono onorati tanto più quanto il loro “aroma spirituale” si sostituiva a quello delle screditate religioni ufficiali. Ma furono, al tempo stesso, accuratamente invitati ad astenersi dalla vita reale della società; invito che, in generale, fu largamente seguito. Si finì col chiamar cultura solo quella degli studiosi e dei pensatori e fin quella delle scuole, cioè la cultura dei libri, l’erudizione o l’informazione invece dell’azione formatrice. Oggi anche noi siamo costretti a usare in questo senso la parola cultura, per poterci intendere. E così continuiamo a chiamare, per comodità, uomini di cultura tutti gli intellettuali che abbiano un certo grado di informazione e di letture. Quelli insomma che dovrebbero avere nella società contemporanea la funzione di una coscienza vigile.
Ma noi sappiamo che una coscienza senza presa sul reale è illusoria, è vera incoscienza. Né v’è possibilità di presa sulla realtà per gli intellettuali della cosiddetta cultura se non nella relazione, nel flusso e nel riflusso, nello scambio fra i modi e le forme della produzione intellettuale (la Cultura con la C maiuscola) e i modi e le forme della produzione tecnica (agricola, industriale). Queste culture hanno divorziato fra loro, nel mondo moderno, riflettendo la violenza della divisione in classi della società. Ecco che il poeta scrive i suoi versi come se i suoi lettori fossero venti o cinquanta; e l’editore ne abbandona il delicato fascicolo sulle bancarelle mobili di tutte le stazioni, fra i pacchi di prosa dei quotidiani. L’architetto disegna le sue case come vogliono scienza e arte; e le leggi della proprietà privata gliene impediscono la realizzazione. Lo scienziato elabora per lunghi anni rimedi contro la tubercolosi finché il suo governo sferra migliaia di bombardieri sulle città e sui sanatori. Rendersi conto di questo divorzio è già muoversi per superarlo; perché, come nell’individuo lo squilibrio fra intelletto e volontà paralizza l’azione, così nella società le varie forme di cultura dovrebbero tendere non a elidersi o a ignorarsi ma a entrare in rapporto dialettico tra loro. Per ciò appunto chiamiamo alta o esemplare quella civiltà o quella cultura nella quale le varie produzioni sono compiute secondo un certo comune modo, ubbidienti ognuna a una comune misura. Così è alta ed esemplare la cultura di certo medioevo perché nella sua produzione, sia agricola che artigiana, architettonica o scientifica, nelle ideologie politiche come in quelle religiose, si rivela una singolare unità, superiore ai contrasti: che è quella del concetto feudale di proprietà o del nascente diritto comunale.
Noi diciamo che la “cultura intellettuale” del nostro tempo è stata sconfitta e da tempo. Quella che si era fatta titolo d’onore della propria assoluta indipendenza e irresponsabilità di fronte alla produzione della volontà politica della classe dominante (le false democrazie e le dittature) e all’anarchia della produzione industriale (autarchia e imperialismo economico) sin da prima della guerra del 1914 era stata ottimismo idealistico o progressista, e fu incapace di disarmare gli eserciti. Fra le due guerre fu angosciato irrazionalismo che rese possibile tutte le mitologie che hanno vagato e forse ancora vagano sui continenti.
Sappiamo che è un antico sogno assurdo chiedere agli uomini che producono arti, filosofia e scienza, di esercitare sulla società le funzioni proprie del politico o del tecnico; tra uomo di stato e filosofo che lo consiglia, sappiamo che uno dei due ha sempre la peggio: lo stato o la filosofia. Ma sappiamo anche che cosa ha permesso e favorito la scissione delle culture della società moderna: la formazione cioè della grande industria e la conseguente creazione di una minoranza dominante di privilegiati. Essi hanno fatto sì che i modi e le forme della produzione industriale favorissero e accrescessero i loro privilegi – e sappiamo bene come. Così la cultura del capitalismo è scritta sulle facciate delle metropoli moderne: è la grande officina, la produzione cronometrata, l’esercito motorizzato, la grande stampa, il cinema.
Ma, al tempo stesso, essi avevano ereditato dalla società precedente l’ossequio superstizioso per l’intelligenza: “Studi dunque tranquillamente lo scienziato nei suoi laboratori il modo migliore di far progredire la scienza, l’architetto il modo più sano e più bello di abitare; e dipinga pure, nel suo studio, il pittore” dissero allora gli uomini che detenevano il potere economico. “Ma io delle invenzioni scientifiche userò solo quelle che rafforzeranno i miei privilegi e la potenza dei miei eserciti; piuttosto che comode case per tutti sarà meglio costruisca archi e monumenti a testimonianza della mia potenza. E, quanto al pittore, egli dovrà allietare, con lo scrittore, i miei riposi o morire di fame nelle sue soffitte.”
La cultura intellettuale si trovò così senza mani o con deboli mani asservite; e le mani della cultura industriale e contadina si trovarono cieche, senza mente, o con deboli menti asservite.
Questa è la ragione per la quale le più grandi intelligenze della grande cultura mondiale, per quanto abbiano sostenuto il rispetto della dignità e della libertà umana, della democrazie e della ragione, nulla hanno potuto fare davanti allo scatenarsi della barbarie. Ma noi non rimproveriamo a quelle ideologie di essere impotenti a mutare certi modi e rapporti di produzione o a evitarne le conseguenze distruttrici. Noi rimproveriamo a quelle ideologie di non rendersi sufficientemente conto di essere appunto le ideologie di quei certi modi e rapporti di produzione e precisamente di quelli della cultura borghese e non piuttosto di quei modi e forme della produzione che già, entro la società di oggi, hanno disegnato quella di domani. Rimproveriamo quindi all’idealismo di Croce, all’umanesimo di Mann e allo “spirito non prevenuto” di Gide (o meglio agli idealismi, umanesimi, spiritualismi, esistenzialismi di oggi; almeno per quella parte di essi che vorrebbero farci credere di aver trionfato con la carta Atlantica e la bomba atomica) di essere cultura insufficientemente critica verso se stessa e perciò sterile e regressiva.
Ma sappiamo anche che non esiste possibilità di separare l’uomo di ieri da quello di oggi e di domani. Quella cultura intellettuale sussiste e agisce tuttora come, separate da quella, sussistono tutte le forme della produzione industriale e contadina. E la cultura degli sfruttatori. Che possiamo giudicare dunque, tranquillamente, barbarie.
Sappiamo perciò che agire per una nuova cultura intellettuale – vale a dire per una nuova filosofia e per una nuova sociologia ed economia e arte e teatro e scuola – equivale a lottare per una nuova società e quindi anche per la modificazione della sua struttura economica, premessa di ogni altra. Parallelamente dunque e non indipendentemente dall’azione sociale e politica corre la nostra via, che attua nuove forme di produzione intellettuale (di “servizi” intellettuali) a quel modo stesso che i ricostruttori sociali e politici attuano forme nuove di produzione e di distribuzione dei beni. Solo la coscienza e la volontà di questa interdipendenza può far sì che opposte culture, nel seno d’una medesima società, si integrino in una unità che convien dire dialettica. Così che il ritmo di lavoro dell’operaio, la struttura dell’ambiente in cui vive, le leggi che lo governano, il suo modo di divertirsi, di parlare, eccetera, rechino il segno d’una possibile perfezione dettata dall’intelletto; e che, inversamente, le produzioni dell’intelletto non siano dettate dal privilegio.
Tracciare le linee di questa cultura unitaria vorrebbe dire ripetere inutilmente i temi della polemica politica e sociale che la società nuova conduce da decenni dentro la vecchia e a cui l’ultima guerra dei tiranni ha dato così tragica risonanza. E vorrebbe dire anche rischiare il generico di un programma che, in sé per sé, non può esistere. Possiamo solo ripetere che alla meta della nostra opera sta anzitutto il superamento del dualismo, generato dalle classi, fra cultura intellettuale e cultura della produzione o tecnica che dir si voglia; e al suo inizio vi sta il concetto di “persona umana” o di “uomo”, obiettivo e origine di ogni cultura, inteso come l’individuo nella coscienza della propria correlazione col prossimo e delle proprie determinazioni storiche. Che è come dire, con esclusione di quanto tende a distruggere la persona o nella direzione dei miti sotterranei e collettivi della razza, del sangue e della natura (massa indifferenziata) o in quella dei miti celesti di un astratto Spirito o di un astratto Io (individualismo anarchico)”.
Settembre 1945
Franco FORTINI – Una nuova cultura – da Saggi ed epigrammi (Mondadori 2003)

7 pensieri su “SESTO INTERLUDIO: PORSI LA DOMANDA

  1. La cultura non rende umani e non salva. Bene ha fatto il buon Albinati a sottolinearlo con forza durante la trasmissione. La chiosa di De Santis, qui sopra riportata evidenzia quanto sia vuota ipocrita la vaga cultura irresponsabile di quelli che leggono i lbri e “frequentano le mostre”. Comunque visto che non lo fa nessuno, me la prendo io la responsabilità di dire cosa sia “migliore”. Migliore, non è chi legge più libri, frequenta mostre si rimpinza di salumi e cacadubbi ai festival letterari. Migliore è chi sa perdonare.
    ciao, k.

  2. Scrivo perché sento molta rabbia per le parole di Amir Issaa e forse soprattutto per l’orgoglio di ciò che è diventato, che però non gli permette di cambiare idea circa l’importanza della cultura e dei libri, che non aveva in casa e di cui non aveva sentito il bisogno.
    Continua a dire che i libri e studiare come imposizione, annoiano e per interessarsi alla cultura bisogna utilizzare il divertimento e la leggerezza. OK, ma non sempre e non solo.
    Mi ribello a questo se è solo questo. La cultura non ci rende migliori ma potrebbe farlo, dipende da noi, ma è un’educazione al sentimento e alla consapevolezza.
    Edoardo Albinati per il quale non nutrirei una simpatia istintiva, invece mi coinvolge con i suo lavoro d’insegnamento e con parole di dubbio che però si interrogano sul proprio ruolo nel fornire strumenti a quelli che sicuro non ce li hanno o ne hanno altri non esattamente utilizzabili per la vita di relazione.

  3. Ho riascoltato l’intervento di Amir Issaa per la terza volta e forse sbollita la rabbia, ho interpretato diversamente il non esplicitato, alla luce anche di quello che lei Loredana mi ha voluto dire.
    Assumo il modo di considerare la cultura di Franco Fortini come base di ragionamento e penso che cultura sia tutto, riguardi ogni aspetto della vita umana. Che la dignità della cultura non la separi in alta o bassa, e che effettivamente la cultura alta viene maneggiata dalle elite, che ne fanno strumento di potere e di manipolazione delle coscienze.
    Invece la cultura apparterebbe a tutti come patrimonio comune, come nel caso dei musei pubblici direbbe Tomaso Montanari.
    La scuola ha il compito di avvicinare alla cultura qualunque persona, anche quelli più lontani per il proprio percorso di vita, o per inclinazione personale;
    ecco perché la scheda di autovalutazione del Visconti, che pure fotograferà uno stato di fatto, va contro le raccomandazioni contenute nella Costituzione.
    Anch’io strattono la Costituzione, molto citata e così poco attuata, ma la scuola si dovrebbe votare all’inclusione, alla diversità non all’omogeneità, di cui ci sono già troppi esempi nella società.
    So che il tono di questa mail è molto sentenzioso, il che non è affatto gradevole, ma so che già si sia capito, quanto io senta la cultura come determinante per ogni umano e non solo (penso che anche gli elefanti abbiano un sistema culturale). Dovremmo fare di tutto per riappropriarci della cultura, che circolasse in modo libero tra i cittadini come l’aria, diventando consapevoli che il contadino ha una dignità immensa con la sua sapienza antica e nuovissima (direbbe forse Carlin Petrini) e dignità appartiene anche a chi apparentemente è persona che non serve, non è utile, ma può invece portare esperienza, anche negativa.
    Soprattutto dagli errori si dovrebbe porter imparare, non andrebbe espunti, non andrebbero nascosti, non ci si dovrebbe vergognare, se fatti in buona fede, se non hanno causato danni irreparabili, ma potrebbero diventare motivo di riflessione, di miglioramento. Cari saluti

  4. Cara dottoressa,
    scrivo stavolta non per rabbia, ma per provare a vedere se sia possibile farle cambiare idea circa la necessità di bannare i miei interventi.
    Mandandole il post su Amir Issaa, mi era chiaro che sarebbe stato non gradito, ma io in buona fede l’ho interpretato secondo la mia esperienza e forse la mia rabbia momentanea.
    Ora il blog è casa sua e Lei butta fuori chi vuole se questa persona secondo Lei non si comporta bene.
    A mente fredda ho riascoltato, l’avevo già fatto due se non più volte; durante la notte mi interrogavo cosa significasse per me la cultura ed ero sicura di dover chiarire e riscriverle.
    Con ciò Lei è ovvio che può fare quello che ritiene più opportuno per difendere la sua privacy e la sua serenità, però la invito a riconsiderare la possibilità di tenere insieme anche quello che tanto accomodante non è.

    1. Svelato il mistero: uno dei commenti precedenti è finito, come spesso avviene, in coda di approvazione, ed eccolo. Detto questo, inviterei alla calma e a reazioni meno aggressive nei confronti degli interlocutori.

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