Ancora un interludio? Sì, perché ho deciso di non riprendere la narrazione delle storie dai borghi se non a campagna elettorale finita. Troppe, e previste, strumentalizzazioni della situazione, ancora irrisolta, dei terremotati: quando ci sarà silenzio da parte di chi ha taciuto per oltre un anno, si tornerà a parlare e soprattutto a far parlare.
Però, in un certo senso, questa piccola storia, cui ho brevemente accennato ieri sera su Facebook, è utile anche per capire cosa si è detto anche sul terremoto e come si è detto e come funziona diffondere notizie. Che è faccenda che, attenzione, non riguarda i giornalisti, bensì chiunque scriva pubblicamente: dunque, tutti coloro che usano i social, un blog, medium, altro.
Accade questo: da parecchi giorni circolava su Facebook la sacrosanta indignazione per un paio di libri pubblicati da Newton Compton, I magnifici 7 capolavori della letteratura per ragazze e, ovviamente, il gemello in versione maschile. Ripeto: indignazione sacrosanta per chiunque si occupi non delle cosiddette questioni di genere ma di libri e lettura (che dovrebbero aprire gabbie e non costruirle).
Ma quei libri erano usciti nel 2013, e oggi sono fuori catalogo nella versione cartacea.
Certo, non necessariamente si ha buona memoria (ai tempi ci fu una polemica niente male, quanto subito dimenticata) e non necessariamente si segue l’andamento del mercato editoriale (oggi operazioni simili si farebbero sulla scia del successo di Storie della buonanotte per bambine ribelli: e si fanno, infatti, come si vede qui): ma una piccola ricerca su Google dissipa i dubbi.
Purché i dubbi sorgano.
Ho visto ri-morire, in questi anni, Wisława Szymborska, Doris Lessing, Margherita Hack, Omar Sharif e tanti altri amati personaggi: basta qualcuno che posta un’immagine, presa da qualche bacheca, e immediatamente quell’immagine, con relativa notizia (e spesso l’articolo linkato, quello che annuncia la scomparsa, reca la data in cui è stato scritto) circola e circola e diventa “reale”. Ci si arrabbia, in genere,quando lo si fa notare, come se fosse una critica personale: è per ricordare Lessing, è per ricordare quell’episodio. E va benissimo, ricordiamo.
E’ un peccato veniale, certo, e chi alza il ditino è visto un po’ come un rompiscatole che interrompe un rito. Ma quel peccato veniale riguarda il nostro modo di essere nei social. E in alcuni casi (le notizie che riguardano la nostra vita comunitaria, per esempio) non è più veniale: pensate a Macerata, dipinta dai quotidiani, nel giorno della manifestazione di sabato, come blindata, sotto assedio, i bus fermi, le scuole chiuse, il terrore che serpeggia, le mazze chiodate nei tombini. Non era vero. E i giornali, in molti casi, pescano dai social: se lo dice Facebook, e se lo dicono in tanti, è il ragionamento, rischia di essere reale.
Non è una questione di fake news, secondo me. E’ una questione di fiducia che noi diamo, tutti noi, a quello che leggiamo su Facebook: fiducia che non può darsi, perché nella maggior parte dei casi in ottima fede, in altri casi in pessima fede, basta un niente per diffondere viralmente una non notizia, o una notizia vera ma vecchia. Il che non riguarda, ripeto, i soli comunicatori di professione, perché ormai tutti siamo comunicatori di professione: e la faccenda del controllo delle fonti va fatta nostra, anche se è una rottura di scatole perdere quei dieci secondi in più. Il manifesto della comunicazione non ostile, al punto 7, dice “condividere è una responsabilità”. Sì, lo è, e tutti, io per primissima, siamo tentati di essere irresponsabili o lo siamo stati più volte. Poi, però, quando ci indigniamo perché una manifestazione pacifica viene fatta passare per un corteo di picchiatori, dobbiamo ricordare che il meccanismo è identico e che, ancora una volta, siamo tutti freaks sotto lo stesso tendone.