SETTE DOMANDE ALL'AIE

Si parlava, nei commenti di ieri,  della Rete dei Redattori Precari. I quali hanno recapitato a Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE), una cartolina con sette domande “nell’interesse dei redattori precari, degli editori stessi e dei lettori. Una produzione editoriale di qualità, infatti, può essere assicurata solo se i lavoratori del settore sono soddisfatti del trattamento contrattuale e delle condizioni di lavoro”.
Le domande sono queste:
1) Secondo la vostra associazione c’è un rapporto tra qualità del lavoro (in termini di diritti, tutele e serenità del lavoratore) e qualità del prodotto editoriale?
2) Secondo la vostra associazione, il lavoratore è un costo o un patrimonio?
3) La vostra associazione attua controlli mirati ad accertare che gli editori aderenti non eludano le leggi in materia di diritto del lavoro?
4) L’industria editoriale gode di facilitazioni e sovvenzioni pubbliche di vario genere. La vostra associazione non ritiene che ciò dovrebbe impegnare gli editori a far ricadere i benefici ottenuti anche sui propri lavoratori?
5) Perché nell’ambito dell’ultimo rinnovo del CCNL grafici-editoriali la vostra associazione si è dichiarata contraria a concordare con le controparti un sistema regolamentativo che, senza nuocere alle case editrici, garantisca condizioni di lavoro più dignitose ai loro collaboratori?
6) La vostra associazione sarebbe disposta a definire un sistema di riconoscimento e valorizzazione delle case editrici che instaurano con i propri collaboratori rapporti di lavoro corretti ed equi, al fine di incentivare queste condotte?
7) La vostra associazione sarebbe disposta ad aprire un dialogo con la Rete dei Redattori Precari sulla questione del precariato in editoria?

11 pensieri su “SETTE DOMANDE ALL'AIE

  1. Sostanzialmente sono le stesse domande che sta inoltrando da un paio di mesi a questa parte la redazione di PrecarieMenti a vari operatori dell’editoria, ricevendo risposte elusive o addirittura senza ricevere risposte.

  2. grazie per lo spazio! 🙂
    a Natale scorso siamo andati all’AIE di persona, vestiti da Babbo Natale, a portare le nostre rivendicazioni, e quello che abbiamo ottenuto è stato il loro veto a concordare nel CCNL un sistema regolamentativo che garantisse condizioni di lavoro più giuste. speriamo che quest’anno si sentano almeno in dovere di rispondere.
    ciao.

  3. mi sembra che con questi sette punti si sia toccato un tema di importanza centrale nel dibattito sull’editoria, molto piu’ di quanto non sembri a prima vista . Infatti c’e’ a mio avviso una stretta correlazione tra mancanza di professionalita’ e correttezza nelle case editrici genere “prendi i soldi e scappa”, l’assenza del riconsocimento dei lavoratori del settore editoriale come appunto lavoratori, il disorientamento degli scrittori e la confusione generale del settore. Perche’ nessuno si aspetta che a un lavoratore dell’edilizia basti una pacca sulla spalla e nel caso di un editor non vale los tesso principio?

  4. Cercherò di essere chiara, sintetica e di tenere a bada la rabbia. Ho lavorato come redattore editoriale dal 1990 al 2001 per quella che all’epoca era la più grande società di servizi editoriali (un “service”, come si diceva allora e forse anche adesso). Buona parte dei miei colleghi proveniva dalle redazioni romane di grandi case editrici – redazioni chiuse per questioni di riassetto – ed era stata “svenduta” al service come base sulla quale costruire un buon gruppo di lavoro in grado di garantire prodotti di qualità a modico prezzo. Il contratto grafici-editoriali ha sempre fatto schifo: ma ce ne accorgevamo noi “esterni” che non avevamo integrazioni di alcun tipo, cosa che ci distingueva dai colleghi delle “case madri” dai quali prendevamo ordini e al posto dei quali facevamo il lavoro e che percepivano stipendi assai più alti dei nostri. Verso la fine degli anni Novanta, tutti i collaboratori a ritenuta d’acconto (la differenza tra loro e noi assunti era soltanto nella forma di contratto, il resto – orari e oneri – era uguale) furono obbligati ad aprire la partita Iva, diventando ufficialmente liberi professionisti ma restando di fatto “dipendenti”, legati a un orario di lavoro, con uno stipendio misero al netto delle tasse, senza malattia, senza ferie pagate, senza tutela alcuna. Le case editrici committenti lo sapevano benissimo. Quando venivano gli ispettori del lavoro, i colleghi Iva venivano mandati in massa al bar di fronte, dal quale venivano richiamati con una telefonata al momento opportuno. Gli ispettori non facevano caso alle scrivanie vuote.
    Nel 2001, potendolo fare, mi sono licenziata causa “esasperazione”: della qualità del lavoro non se ne impipava più nessuno, era solo una questione di andare a risparmio, di spendere poco, di fare libri, riviste, enciclopedie e fascicoli con i fichi secchi (per tacer di quello che voleva più foto d’epoca in una rivista dedicata al Rinascimento).
    Quindi la questione ora sollevata è vecchia come il cucco: se non di venticinque anni, almeno di dieci-undici. E allora, che vi devo dire, meglio tardi che mai. Purché non ci si straccino le vesti nel constatare lo stato pietoso ecc. ecc.

  5. La questione è vecchia come il cucco? Certamente! Quanto alle vesti, le abbiamo ben integre (chi ci conosce lo sa). E se 10 anni fa i colleghi, invece di andare a fare consumazioni a comando, si fossero autorganizzati come stiamo tentando di fare ora noi, e se i sindacati li avessero sostenuti… altro che “meglio tardi che mai”…

  6. innanzi tutto, felicissima che la notizia sia stata pubblicata. Cosa non così scontata visto che spesso gli scrittori stessi preferiscono “glissare” sulla questione precariato per non inimicarsi il proprio editore (ho sentito ragioni simili da autori e giornalisti insospettabili e spesso apparentemente agguerriti su altre questioni di tutela dei diritti). Quindi tanto di cappello a Lipperini, e già che ci sono anche a Giulio Mozzi. Il precariato editoriale è un verminaio che non si vuole scoperchiare, perché oggigiorno fra le case editrici, come diceva mia nonna, “il più pulito c’ha la rogna”. Anche le CE più blasonate e rispettate…

  7. Cara Coordinadora, nella tua risposta colgo un disprezzo e un astio del tutto fuori luogo, oltre a una certa supponenza e ignoranza dei fatti. Consumazioni a comando? È assai probabile che tu abbia studiato e fatto ricerche su libri, enciclopedie e dizionari frutto di quelle consumazioni a comando (ma che simpatico modo di definire il lavoro…). Forse io non mi sono spiegata bene, e allora te lo ripeto: il lavoro veniva fatto all’esterno da redattori cacciati a calci in culo dalla porta e fatti rientrare a poco prezzo dal balcone (no, dalla finestra no: stavamo proprio fuori). I signori redattori interni, con il loro bel contratto integrativo (che portava a stipendi doppi e tripli rispetto ai nostri, solidamente ancorati al minimo), non erano affatto interessati né ad autorganizzarsi (e perché mai avrebbero dovuto, loro stavano nel ventre della vacca) né tanto meno a solidarizzare con noi. Il sistema andava fin troppo bene a fin troppa gente. Quanto a noi, forse persino tu ammetterai che è un tantino difficile autorganizzarsi e rivendicare diritti se fuori dalla porta c’è una lunga fila di redattori disoccupati pronti a lavorare al tuo posto per un tozzo di pane. E sui sindacati stendiamo un velo di pietoso silenzio, è meglio per tutti. Sono lieta che abbiate vesti ben integre e vi auguro grande fortuna. Però non è di buon auspicio cominciare una lotta senza volerne conoscere in profondità tutti i meccanismi e tutte le dinamiche; e dando anzi del mentecatto a chi, prima di voi, si è dibattuto nelle stesse acque mefitiche. È come precipitarsi in bocca al nemico con una baionetta spuntata. Ad maiora.

  8. Cara Nicoletta, cogli male, o forse sono io che difetto di capacità comunicativa.
    Cito: “i colleghi Iva venivano mandati in massa al bar di fronte”: queste sono le “consumazioni a comando”, non certo il frutto del lavoro di chicchessia.
    Le dinamiche che tu descrivi sono del tutto simili a quelle odierne, che invece sembrano sfuggirti, dato che racconti con tanta enfasi di eventi ormai ordinari nel nostro settore.
    … E sì, persino io, con tutta la mia grettezza mentale, ammetto che è difficile autorganizzarsi e rivendicare diritti “se fuori dalla porta c’è una lunga fila di redattori disoccupati pronti a lavorare al tuo posto per un tozzo di pane”.
    Eppure noi ci stiamo provando (non da ieri ma da circa 4 anni, per tua informazione). Senza “supponenza” (cit.) né “ignoranza dei fatti” (cit.), e senza permetterci di dare del mentecatto (?) a nessuno, proprio perché sappiamo quanto è difficile agire nella situazione che noi stessi viviamo sulla pelle.
    Ma a chi ci fa notare che le questioni che solleviamo sono “vecchie come il cucco” (cit.), che mobilitarsi adesso è tardi ma meglio che mai (sempre, beninteso, che “non ci si straccino le vesti”), rispondiamo che la nostra rete, per lo meno, c’è, a differenza di 10, 11 o 25 anni fa… E che, anche solo in virtù di questa semplice evidenza, pretendiamo rispetto.

  9. Cara nicoletta, sto seguendo rerepre da un po’ e mi sembra che si stiano davvero impegnando nei fatti, e senza supponenza o ignoranza, ma con volontà di dialogo e approfondimento. E poi, bando al passato: pensiamo al futuro. Rerepre si sta impegnando per migliorare le cose. Vuoi seguirli anche tu? Credo ci sia bisogno di persone di buona volontà, e la rete è aperta a nuove proposte e impegno personale, da quello che vedo 🙂 Probabilmente è solo un inghippo linguistico che non vi ha fatto capire al volo

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