SI CHIEDE TIM PARKS

Tim Parks si pone e pone un bel po’ di domande interessanti nel suo “Di che cosa parliamo quando parliamo di libri”, fresco d’uscita per Utet. Nella corsa della giornata (una trasmissione, un articolo, una malefica riunione di condominio incombente), ne scelgo una.
“Abbiamo proprio bisogno di questa intensificazione del sé che offrono i romanzi? Davvero ne abbiamo più bisogno che in passato?
Credo di no. Se ponessimo la questione, per esempio, a un prete buddista, probabilmente ci risponderebbe che è proprio questa illusione dell’individualità a rendere infelici tanti occidentali. Siamo schiavi della narrativa di un sé che in realtà non esiste, una montatura di cui la maggior parte della scrittura romanzesca è complice. Su questo anche Schopenhauer sarebbe stato d’accordo. Lui parlava di persone “che, leggendo romanzi, si costruiscono una visione assolutamente falsa e illusoria della vita”, il che “generalmente ha un effetto oltremodo dannoso per la loro esistenza”. Come il prete buddista, Schopenhauer avrebbe preferito il silenzio o la scuola dell’esperienza, o magari un mito o una favola che non invitano a un’identificazione ingenua con un alter ego dell’autore.
Per quanto mi riguarda, sono troppo invischiato nella narrazione e nell’autonarrazione per tirarmene fuori. Amo i romanzi impegnativi e i romanzi complessi; ma di sicuro non he ho bisogno“.

Un pensiero su “SI CHIEDE TIM PARKS

  1. Il titolo carveriano ne suggerisce un altro, per lo meno a me che, non per l’intensificazione del sé, oggi faccio l’editore (parola grossa): “Che cosa vendiamo quando vendiamo libri”. Forse Tim Parks potrà aiutarmi. Anche se già ne esce un’altra, di carveriana. “Che cosa leggiamo quando leggiamo dei libri?”. Uhm, non andrò a letto tranquillo.
    Grazie per il post, cara Loredana.
    Massimo

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