SONO SEMPRE GLI ALTRI

La faccenda di Antonio Suarez, calciatore, e del suo esame per ottenere la cittadinanza italiana, riportano indietro e indietro e poi fermano l’immagine. Ricordo quando, grossomodo sette anni fa, dopo la proposta di Cecilie Kyenge di aprire allo ius soli, titoli e commenti parlarono di “Flusso di puerpere” e “Invasione di partorienti”. Cecilie Kyenge percorreva la strada giusta e su lei si scatenò l’inferno. Quella strada è, come è noto, interrotta.
Ma già allora si poneva un problema che nel tempo non è stato superato: mi sembra che, così come avviene con il sessismo, ci si sia ormai abituati a delegare a una sola parte del paese la mentalità razzista. Non siamo noi, mai, i responsabili: sono gli altri, i nostri avversari politici, quelli che “basta guardarli e capisci cosa pensano e votano”, gli antifemministi che io mai per carità.
Qualche giorno fa ho letto un’intervista a un ex blogger e oggi romanziere, con cui mi capitò di discutere in modo acceso quando parlai del negazionismo sui femminicidi : allora di lui si conosceva lo pseudonimo e non il nome e il cognome con cui firma i suoi libri. Quel post tornò a lungo come un rigurgito sul suo blog, ma non per argomentare, bensì per schernire la sottoscritta, presentata come una pazza invasata (oh, ma certo, l’umorismo, oh, ma certo, si scherza). Ma il romanziere di oggi risponde così alla domanda dell’intervistatore:
È capitato anche a te di scottarti in questo beauty contest. Ricordo una diatriba sull’utilità del termine femminicidio con Loredana Lipperini; ad un tuo commento su una manifestazione contro gli sfratti a Bologna ti criticò su Twitter il collettivo di scrittori Wu Ming.
“… Senti, però, il meccanismo sembra lo stesso anche quando ti danno ragione. È proprio l’architettura dei social che porta allo scontro. Peraltro nei due casi che mi hai citato, per quanto dopo tutto questo tempo non mi ricordi più di quelle vicende nel dettaglio, credo che avessi ampiamente ragione. Ma al di là di questo, il punto qui è un altro: cosa determina chi ha ragione e chi no? La conta dei like o dei retweet o la bontà di un argomento, la sua organizzazione logica, la visione del mondo che è sottesa ad esso? Mettersi a fare solo la conta —peraltro sempre dentro una bolla — è un metodo pericolosissimo: è conformista per definizione. È per questo che non c’è veramente uno spazio per il dialogo sui social. C’è solo posizionamento, appartenenza a una determinata tribù”.
Ecco, sono quei casi in cui rimango senza parole. Lui aveva ampiamente ragione, anche se non ricorda l’episodio. Noi altri, par di capire, scrivevamo per contare like. Sul femminicidio. Sul serio.
Sono sempre gli altri, solo gli altri a essere colpevoli, dunque: ora, a prescindere da questa piccolissima vicenda (a differenza dell’autore intervistato, io ho una buona memoria, e ricordo bene i toni usati, ma ognuno giudicherà da sé se ne ha voglia), sarebbe importante, anche alla luce del voto di domenica, capire che stiamo percorrendo una strada complicata, e che la divisione netta dei territori dove alligna il male perfetto e, di contro, il bene assoluto non ha mai avuto senso, non esistono la Las Vegas e la Boulder di The Stand: a maggior ragione non oggi.

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