SOSTIENE CELATI

Dunque. Quodlibet manda in libreria Conversazioni del vento volatore, che raccoglie interventi di Gianni Celati, incluse rielaborazioni di interviste. Ve ne riporto una, rilasciata due anni fa a Luca Sebastiani per L’Unità.  Molti e spesso condivisibili gli argomenti. Con qualche dubbio: non so Celati, ma molto spesso gli avversatori della non-lingua parlano di ciò che non conoscono. Ne abbiamo discusso altre volte, in questa sede: ma se il mondo letterario è fatto di una piccola cerchia di persone che si legge vicendevolmente, con poche e controllate new entry, come fa a rendersi conto che, nelle zone d’ombra, le cose stanno – e non è peregrino dirlo – cambiando? A me è capitato ultimamente di leggere non pochi testi, spesso editi da case editrici microscopiche, dove il linguaggio è tutt’altro che stereotipato. Peccato che non godano di alate sponsorizzazioni, per dire.
Lei ha iniziato a scrivere quarant’anni fa in un contesto vitale per la letteratura italiana. Una stagione che si sarebbe chiusa di lì a poco. Come ricorda quei tempi? «Quanto ho cominciato a scrivere, quasi tutti gli amici che avevo erano di sinistra e davano per scontata una rivoluzione imminente o futura. Ma l’unica rivoluzione che poi ho visto è stata quella della signora Thatcher. Tutto era pronto perché succedesse quello che doveva succedere: l’avvento al potere del capitalismo finanziario che schiaccia tutte le forme di produzione (industriale o artigianale), l’abolizione d’ogni veduta comunitaria, la guerra individuale per passare davanti agli altri e la new market economy con cui il profitto diventa l’unico ideale sulla terra. Con la signora Thatcher queste tendenze sono diventate un luogo comune, e posso dire anche quando sono arrivate in Italia, e come hanno cominciato a condizionare tutto ciò che si chiamava letteratura».
Quando?
«Quando sono stato cooptato dalla casa editrice Einaudi come traduttore e futuro autore, io non pensavo neanche per un momento alla faccenda dei soldi e del successo. E ricordandomi tutto il tempo consacrato al progetto di una rivista che io e Italo Calvino dovevamo fare con altri, ora mi sembra qualcosa di irreale. Ci scrivevamo tutte le settimane per scambiare idee, e quando andavo a Parigi Calvino passava giorni interi a chiacchierare con me sui nostri programmi. Tutto questo lavoro aveva un carattere gratuito, come un incontro senza idee di profitto. Ricordo Calvino che scuoteva la testa come per annuire, ma forse dubbioso, mentre io gli spiegavo la mia idea che bisognava poter smerciare gratuitamente ogni cosa che si scrive».
Quali sono stati i primi segni d’una mutazione?
«La prima avvisaglia è stata l’avvento della letteratura giovanile. Chi ha aperto la strada è Enrico Palandri, con il suo sorprendente “Boccalone” (1978). Ma qui siamo ancora alle epoche dello scrivere per qualcosa che urge, non per far piacere gli editori. E mentre la Thatcher apriva la nuova era, da noi iniziava la caccia all’autore giovane. Qui sono subito scattati tutti i meccanismi del futuro: il trattamento dello scrivere come una merce, il nome dell’autore come feticcio, le etichette stantie con cui parlarne, la competizione tra case editrici. Per un periodo sono stato amico di Pier Vittorio Tondelli, e sentivo la sicurezza con cui trattava al telefono tutte le offerte che gli arrivavano. Il suo “Altri libertini” ha segnato la strada dei nuovi libri di successo: una strada dove tutto è eccitazione, frasi pubblicitarie, creazione mirata di culti. Cominciava questa nuova era, dove mi sentivo frastornato».
Cosa ha prodotto questo sentimento di frastornamento?
«Alla fine degli anni 70 sono spuntati i controllori manageriali della letteratura, gli esperti che riscrivono i libri per renderli più vendibili (così è stato per “Altri libertini”). Ed è l’epoca in cui è fiorito l’ottimismo obbligatorio. Da allora chi è sospettato di pessimismo troverà dovunque qualcuno che glielo rinfaccia, come un segno di cinismo. Tutto ciò va assieme a una baldoria dei consumi, dove il consumo di libri non si distingueva da quello della saponette. E sarebbe bello poter pensare che un giorno ci sarà un processo alla corte dell’Aja, dove le anime di quei professionisti dell’editoria saranno imputate di genocidio letterario della tradizione dell’arte verbale nelle nostre terre».
Cos’è questa antica tradizione verbale delle nostre terre? E cos’è la “non-lingua” dei romanzi di successo, di cui lei parla spesso?
«La non-lingua è qualcosa come i non-luoghi – quei luoghi standard che possono essere in Australia, Islanda, Spagna, e non cambia niente. Gli effetti del capitalismo finanziario, basato su investimenti di capitali senza patria, senza luogo e memoria, sono rappresentati perfettamente dai non-luoghi, per una umanità votata allo sradicamento. E per chi non può vivere in quei luoghi stile Ikea, ci sono le invivibili baraccopoli dell’Africa o d’altri continenti. Un pianeta di slums per un surplus di umanità».
L’antica “tradizione verbale” di cui diceva è invece una fedeltà ad una memoria?
«La non-lingua nasce da libri che imitano le imitazione di imitazioni di altri libri, soprattutto romanzi americani. La cosiddetta letteratura giovanile è stata una sbornia di americanismo, con anche l’imitazione dell’italo-americanese usato dai traduttori. Sono sintomi d’una cancellazione della memoria che riguarda una tradizione d’arte verbale nelle nostre terre che arriva indietro fino a Dante, Boccaccio, Ariosto – e più vicino a noi, a Leopardi, e poi Tozzi, Campana, Gadda, Landolfi. Questi sono autori “irregolari”, difficilmente smerciabili su un mercato come quello americano o britannico. Fino a poco tempo fa, oltre alla corruzione e alla criminalità politica italiana, c’è stato qualcosa in Italia di speciale, unico in Europa, ed è la particolarità della nostra tradizione, che arriva fino ad Anna Maria Ortese, Calvino, Manganelli, Raffaello Baldini, Cavazzoni, Daniele Benati e altri dispersi».
Se non è quello di far soldi, qual è il ruolo sociale della letteratura e del narrare?
«Non me la sento di dichiarare “a cosa serve la letteratura”. Sarebbe come dare per scontato che l’utilitarismo è l’unico modo valido di pensare. I manager attuali vogliono “dati di fatto”, slogan, e una fissazione “sull’utile” che li rende ciechi. E chi non si adegua è tolto di mezzo. Nel nostro mondo mediatico, i grandi furbi che hanno speculato senza sosta, sono tutti pieni di medaglie al valore utilitario. Senza parlare del loro capo supremo, che guida la nazione. Negli ultimi trent’anni, non hanno fatto che persuaderci che questa era la via della ragione. Ti pare che la banda di “dispersi” che ho citato sia all’altezza di simili furbate? Non sono piuttosto autori che hanno sempre creduto all’utilità dell’anti-furberia radicale? Diceva Cesare Zavattini: “Non è facile defurbizzare un ambiente, perché la furbizia permette di ottenere il massimo col minimo prezzo. Però poi non è vero: la furbizia è quella cosa che crea tutti gli intralci e i pasticci, e un numero sterminato di telefonate inutili”».
Lei ha parlato della “banalità quotidiana” e spesso le cose che scrive sono visioni di personaggi e cose semplici nello scenario della provincia italiana. È una via all’antifurberia?
«L’ovvietà quotidiana è il riflesso dell’accelerazione moderna, per cui tutte le cose usuali sembrano insignificanti – residuati da superare col “nuovo”. Ma il “nuovo” è superato ogni giorno da un altro “nuovo”. Ed è un lancio continuo di cadaveri vestiti all’ultima moda, che domani saranno già scarti. Da un altro lato, poi, l’attenzione agli aspetti della vita ordinaria, è una grande apertura di tutta la filosofia novecentesca. Di lì viene la nozione della quotidianità come fenomeno. Di come i viventi vedono il mondo circostante attraverso abitudini, stati d’animo, e proiezioni immaginative. Visto così, ciò che è comune, banale, ordinario, è l’opposto di tutta quella paccottiglia che è smerciata come “interessante”, “sensazionale”. Nell’uso pubblicitario, queste nozioni sono gli a-priori di tutto il pensare, immaginare odierno. E l’unico lavoro che si può fare, in ciò che si scrive, è togliere di mezzo quell’a-priori pubblicitario, decondizionando chi legge, anche a costo di renderlo perplesso. Questo è anche un modo per cavarsi fuori dalle furberie dei libri di successo».

12 pensieri su “SOSTIENE CELATI

  1. Amo Gianni Celati e trovo semplicemente geniale il suo modo di scrivere, di pensare, di osservare e riportare. Trovo anche bello e generoso e coerente il suo pensare alla gratuità della letteratura.
    Ma di fatto oggi l’editoria è un’industria: perché dovrebbe sostenere questa letteratura, questa posizione, questa idea – dato oltretutto che la rivoluzione della Lady di ferro c’è stata, mentre quella sognata dalla generazione di Celati no?

  2. Non lingua, appiattimento, perdita dell’unicità?
    Proprio nel 2011, l’anno che segna la fine del main stream come unica possibilità di successo commerciale per l’editore?
    L’anno dell’esplosione degli autori indie, quegli autori autopubblicati, capaci di vendere ebook di nicchia al ritmo di 5000-10000 copie l’anno?
    Guardate come il termine indie viene acronimizzato da un blogger (http://book-promotion.blogspot.com/2009/12/indie-author-or-publisher-true-meaning.html):
    I – Inspired
    N – Nontraditional
    D – Determined
    I – Innovative
    E – Empowered
    Non vi ricorda ciò di cui Celati lamenta l’irrimediabile perdita? Al contrario, secondo questo blogger, *proprio oggi*, nel 2011, ci sarebbero nuove possibilità per autori non tradizionali, non innovativi e non pubblicati dall’editoria industriale.
    A volte basterebbe alzare gli occhi dalla scrivania.

  3. Bah. Siamo più o meno alle solite. Se si indossano certi occhiali si vedranno sempre le stesse cose e non se ne vedranno altre. Che si sia reduci da un trentennio di disastri politici, culturali, sociali, etc. è innegabile. Vederli come un tutto uniforme, come una marcia univoca verso il peggio, senza segnali in controtendenza, senza articolazioni, tentativi anche sporadici di ritagliare un margine di “diversità”, mi sembra un limite grosso. Tanto in letteratura quanto in politica.

  4. La non lingua descritta da Celati, una lingua perlopiù imitativa di quella dei romanzi americani (in traduzione) è però anch’essa, come tutte le lingue, espressione di un’identità. Un’identità sradicata, forse, globalizzata, figlia dei non luoghi ecc. ma pur sempre di identità parliamo, ossia di qualcosa che non ha senso valutare in termini di bene/male o positivo/negativo. Io appartengo a una generazione nata, cresciuta ed educata dai e coi media, dalla TV fino a internet. Non sono cresciuto con i racconti in dialetto del nonno attorno al fuoco e la mia lingua ovviamente non può rimanere influenzata da esperienze formative che non ho vissuto. La mia sintassi e il mio immaginario hanno più a che vedere con la serialità televisiva, con gli anime giapponesi, con la new wave inglese anni ottanta che con Stefano D’Arrigo e ‘Ndria Cambria (l’esempio deriva dal fatto che sono siciliano). Ma ha d’altro canto hanno a che vedere anche con Sciascia, autore per me fondamentale, e con Battiato. Il mondo cambia, cambiano i punti di riferimento e i nodi di influenza, e di conseguenza cambiano i linguaggi, gli stili. Si uniformano? Per certi aspetti, a mio avviso i più superficiali, sì, ma le differenze rimangono. Solo, sono “altre” differenze, forse meno immediatamente sensibili e, per così dire, folcloriche, ma ci sono. Magari per coglierle servono critici nuovi, cresciuti nel medesimo mondo globalizzato, chissà. Che poi nel mondo dell’editoria ci sia un’eccessiva attenzione al mercato che conduce a buttare sul medesimo fin troppe pappette riscaldate, questo è pure vero ma non metterei tutto nello stesso calderone. Tantopiù che, visti i numeri bassissimi di vendita anche degli autori italiani più conosciuti in America (si parla nei casi migliori di poche migliaia di copie) non credo affatto che l’americanizzazione della nostra letteratura sia frutto di una bieca operazione di marketing. Il nuovo non è cattivo né buono. Il nuovo è nuovo e basta. Guardarlo con meno sospetto sarebbe un passo. Scusate il papello.

  5. “Tutto era pronto perché succedesse quello che doveva succedere: l’avvento al potere del capitalismo finanziario che schiaccia tutte le forme di produzione (industriale o artigianale), l’abolizione d’ogni veduta comunitaria, la guerra individuale per passare davanti agli altri e la new market economy con cui il profitto diventa l’unico ideale sulla terra. Con la signora Thatcher queste tendenze sono diventate un luogo comune, e posso dire anche quando sono arrivate in Italia, e come hanno cominciato a condizionare tutto ciò che si chiamava letteratura”
    Perfetto.
    Ma siccome nella società dello spettacolo l’inedito è l’unico valore marginale della merce, allora “Il nuovo non è cattivo né buono. Il nuovo è nuovo e basta”
    Complimentoni e avanti così.

  6. Bah, mi sembra che l’intervento sia tutto virato sul nero di un pessimismo totalizzante. Se è vero che l’andazzo generale degli ultimi decenni coincide in buona parte con il panorama tratteggiato da Celati, è anche vero che, in questo arco temporale, si sono manifestati modelli in controtendenza. Penso – il primo nome che mi viene in mente – alla qualità dei libri di Vitaliano Trevisan, ad esempio. Ognuno qui, sono sicura, potrebbe suggerire nomi di autori/autrici altrettanto validi/e, in grado, non dico di smentire in toto, ma almeno di diluire l’eccesso di disfattismo che caratterizza l’intervista.

  7. Non comprendo la sequenza logica dell’intervento di Binaghi, sicuramente per miei limiti. Cosa c’entra la mia frase con quella precedente? Io cercavo proprio di distinguere un fenomeno, chiamiamolo pure nonlingua per comodità, che non vedo necessariamente come indice del decadimento dei tempi e dei valori, dal discorso sulla sempre più stringente mercificazione della letteratura, che trovo dipendente da altri fattori. Forse avrei potuto dire “Il nuovo non è cattivo né buono IN SE’. Il nuovo è nuovo e basta. Non volevo dire che l’inedito sia un valore, men che meno che sia l’unico valore o che ci si debba astenere del tutto dal valutare. Ma solo che nel valutare si dovrebbe evitare di partire da formule preconcette e di far di tutta l’erba un fascio.

  8. Guglielmo. a me la tua frase non piaceva proprio perchè mi sembrava una resa totale allo spirito dei tempi. A cui, beninteso, io non oppongo niente di simile a canoni classicisti. Solo la facoltà di distinguere tra quello che è espressione umana e problematica e quello che è puro gergo veicolato dai media, di cui molta letteratura oggi è specchio passivo.

  9. Al di fuori di ogni filosofia letteraria, personalmente credo che la tristezza di una certa letteratura “contemporaneista” stia nel fatto che hanno come obiettivo principe la vendita piuttosto che la qualità. A prescindere dalla letteratura di consumo che non ha pretese, un libro, per essere venduto, deve essere facile da leggere, in modo che il lettore possa ritenersi un “lettore impegnato”. Questo è il nodo da risolvere. Il valore è diventato la quantità della lettura e non la qualità. In un pomeriggio posso leggere un libro intero (se scorrevole), ma dello Zibaldone posso leggere al massimo 4 o 5 pagine perché ho bisogno di rifletterci sopra, ragionare sulla modernità dei suoi significati. In questo secondo caso sono un lettore che consuma poco e quindi non ideale per l’editoria perché rallento il ritmo delle vendite.

  10. Be’ Valter, non intendeva esserlo 🙂 Credo solo che le espressioni umane e problematiche, come le chiami tu con felice definizione, possano essere rese in più d’un modo, anche in quella che ad alcuni appare una nonlingua. Insomma, c’è nonlingua e nonlingua.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto