STORIE DI PESTE

“Non si vedeva altro che lutti e lacrime. Appena si spargeva la notizia ( di un caso di peste ), la gente fuggiva per evitare la morte e abbandonava le case deserte, lasciandovi solo i cani. Le pecore erano abbandonate a se stesse, senza pastori. Mentre prima le ville e gli accampamenti erano pieni di soldati, si sarebbe potuto vedere il giorno seguente tutti questi luoghi completamente abbandonati e deserti. I figli fuggivano lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; d’altra parte i genitori abbandonavano i figli febbricitanti senza alcuna pietà. Se qualcuno, mosso da compassione, voleva seppellire qualche parente, restava egli stesso insepolto; e se moriva mentre faceva i funerali, nessuno gli tributava il mesto rito. Si poteva osservare come la natura era stata riportata all’antico silenzio: nessuna voce in campagna, nessun fischio di pastore, nessun pericolo di animale contro il gregge, nessun danno ai volatili domestici. Il grano, passata la stagione, aspettava intatto la falce del mietitore; la vigna, senza foglie, rimaneva carica di uva nonostante l’avvicinarsi dell’inverno. La tromba dei belligeranti risuonava di notte e di giorno e si sentiva da molte persone come un mormorio di un esercito. Non restava alcuna traccia dei passanti, non si vedeva nessun assassino e tuttavia gli occhi erano stracolmi della visione di cadaveri. I pascoli venivano adattati a cimiteri e le abitazioni erano diventate tane di animali”.
(Paolo Diacono, Historia Longobardorum)
“Si deve però osservare che dal momento che i funerali erano divenuti così numerosi, non si riusciva più a suonare la campana a morto, fare le condoglianze, piangere e portare il lutto come prima; e nemmeno fare le casse da morto per tutti quelli che morivano; tanto che dopo un po’ il contagio crebbe in modo tale che, in breve, nessuna casa fu più sigillata. Era ormai evidente che tutti i rimedi si erano rivelati inutili e che non c’era modo di opporsi alla furia della peste; tanto che l’anno seguente, quando scoppiò il grande incendio, esso divampò e si diffuse con tale violenza che gli abitanti rinunciarono a qualunque sforzo per spegnerlo; allo stesso modo quando la Peste raggiunse l’apice della sua virulenza, se ne stettero immobili a guardarsi l’un l’altro ormai preda della disperazione.
Intere strade apparivano desolate, e non solo perché erano state chiuse, ma perché prive di abitanti, le porte erano spalancate e le finestre sbattevano al vento in case vuote dove non c’era nessuno a chiuderle. In poche parole, la gente cominciava ad abbandonarsi alle sue paure ed a pensare che regole ed ordinamenti erano tutti inutili e che ormai non c’era più speranza, ma tutto era desolazione; e fu proprio al culmine di questa disperazione generale che a Dio piacque allentare la morsa ed indebolire la furia del contagio, in modo addirittura sorprendente ( come lo era stato all’inizio ), dimostrando così che era proprio la Sua Mano al di sopra, se non addirittura senza, l’aiuto di altri mezzi, come spiegherò in altra sede”.
(Daniel Defoe, A Journal of The Plague Year)
Sto leggendo storie di peste. Lo sto facendo perché sto scrivendo una piccola cosa. Lo sto facendo, anche, perché ritrovo attorno a me qualcosa che somiglia alla peste. Non fisicamente, certo. Nessuno si accascia afflitto da un fuoco interiore inestinguibile, o divorato dalla febbre e dalla sete. Ma la peste non è solo quella che nei secoli ci è stata raccontata dalla storia e dalla letteratura. Non è solo un flagello, ma una mutazione degli spiriti, oltre che dei corpi. In questi giorni, preferisco leggere queste cronache che quelle, anche di nobili firme, che appaiono sui giornali, o in rete. Poi, certo, passa, come tutto.

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