SUL DOLORE, SULLA CONDIVISIONE, E IN PICCOLA PARTE SU "SCHIAVI"

Ancora un accenno su Schiavi di un dio minore (da domani il blog, poi, sospende gli aggiornamenti perché sarò a Mantova per la diretta di Fahrenheit dal Festival).
Ci arrivo da lontano.
Ci arrivo da una riflessione fatta ieri a proposito del terremoto del 23 agosto. Un terremoto, mi diceva un amico e mentore, incredibilmente raccontato, fin nei dettagli, dai primi minuti e ancora oggi. Storie e storie che ci accompagneranno, credo, molto a lungo.
Questa è già una mutazione, rispetto a quanto è avvenuto a L’Aquila e, più indietro, nel sisma del 1997, quello che conosco meglio, e che per anni ha cambiato l’identità non solo del paesello ma dei luoghi vicini. In quest’ultimo caso la narrazione fu forte nei primi giorni, poi andò a scemare. Un articolo per l’anniversario, magari. L’arrivo di signore benefiche con sacchi di pieni di palloni da calcio o di band che facevano cover dei Kiss, magari. Il Papa, certo, e il sacchetto di lenticchie ricevuto in dono dagli anziani sposi di Cesi. Ma non altro.
Allora, cosa non avverto, ancora, nella narrazione del terremoto del Centro Italia? Qualcosa che manca a ognuno di noi, temo, e che riguarda la capacità di trasmettere il dolore degli altri. Intendiamoci: il dolore è stato osservato, cercato e restituito in ogni sua forma. Dalle immagini del giocattolo coperto di polvere alle disperate parole di un nonno, o di un genitore. Eppure, e non per limiti di chi scrive, non arriva, quel senso di mancanza e di perdita.
E’ difficile che arrivi anche nella vita, peraltro.
Mi colpisce sempre molto quando qualcuno, su Facebook, parla delle perdite di chi ha amato. Una madre, o una compagna. C’è, per esempio, una bacheca che seguo sempre: non vi dirò il nome per pudore, e non so quando siamo diventati amici. So che quest’uomo, da quando ha perso la moglie, parla ogni giorno con lei, su Facebook. Inizialmente postandone le fotografie, condividendo ricordi della giovinezza. Poi, pian piano, raccontandole la propria giornata, le piccole vacanze, le passeggiate.
Ci faccio bei lacrimoni, su quei post, e li faccio anche leggendo gli status dell’addio, quelli che io non sono capace di scrivere, anche se il mio mondo è tuttora incrinato e sempre lo sarà dal 3 settembre 2014. E mi chiedo anche come mai non riusciamo, però, a dirci il dolore l’uno degli altri, a sentirlo fino in fondo. E magari ci affidiamo a un social, o a uno di quei memoir che riescono meravigliosamente a comunicare la perdita, fino a farla sentire nostra.
Cosa c’entra tutto questo con un libro di cosiddetta “narrative nonfiction” sul lavoro? C’entra tantissimo.
Perché le poche parole che volevo dirvi su Schiavi di un dio minore riguardano questo: ciò di cui non ci capacitavamo Giovanni Arduino e io mentre lo scrivevamo era proprio la difficoltà nel trasmettere empatia su questo cambio di paradigma, su questo capitombolo epocale che riguarda il lavoro, e dunque le vite di milioni di persone, e sull’ognun per sé che quel capitombolo, comunque lo si guardi, genera, invece di generare avvicinamento.
Liberi di chiamarlo buonismo, ovvio. Giovanni e io, credo, non siamo affatto “buoni” (o magari sì, vai a capire, e comunque non conta). Ma spaventati sì. Ma desiderosi di condividere paura, dolore e possibilmente speranza, mille volte sì.
A lunedì commentarium, e grazie.

7 pensieri su “SUL DOLORE, SULLA CONDIVISIONE, E IN PICCOLA PARTE SU "SCHIAVI"

  1. Grazie Loredana,
    sai dire parole che esprimono quello che sento e, come spesso capita con le persone significative, mi aiuti anche a capirlo meglio.

  2. Secondo me dovresti far pace con il fatto che sei buonista, tu rispetto a Labranca tendi alla tenerezza più che al sarcasmo, e va bene così. Ora, io non so bene cosa intendi con questa faccenda del dolore, mi pare che la gente abbia oggi grazie a facebook la possibilità di fare dei piccoli romanzi, che un tempo era possibilità solo per pochi. Questo diviene una schermatura? Chissà… Quanto allo spavento uno potrebbe pensare che il benessere ci abbia reso più stronzi, io non credo, penso che siamo stronzi quanto prima; e ammesso che il paradigma sia cambiato (aspettiamo di leggere le carte)

  3. Credo che , aldilà delle reazioni immediate , non si riesce a trasmettere e sentire dolore per poter sopravvivere ,perché fa male immedesimarsi , per paura che capiti anche a noi , per proteggerci dalla fragilità in cui ci troviamo e che non vogliamo vedere . Ma soprattutto per il senso di impotenza nel non poter porvi rimedio , oltre le parole . Ma continuerò a leggervi, a condividere . E ad incazzarmi per le ingiustizie e il dolore.

  4. Grazie per questa riflessione sul dolore, che per quanto pertiene il lavoro poi è un tema bruciante per me da qualche anno. E il dolore del lavoro è un ambito ancora più strano e allontanante, è vero.
    Hai toccato un punto importante che in qs eterni mesi ho messo sempre più a fuoco anche io, oltre a non sentirlo, il dolore non lo vuole tenere nessuno. Non c’è quasi mai la capacità di reggere e tenere uno stato del nostro prossimo come presente e compagno di strada.
    Sono pochissime le persone che riescono ad accettarti col tuo dolore (legittimo peraltro); per lo più il sociale tende a banalizzare, a sminuire, a fuorviare, a svagare, e lo posso anche accettare, ma più che mai mi urta l’ossessione di spingerlo da parte perchè “c’è sempre da lottare, c’è sempre da sperare”.
    Non è vero, a volte siamo impotenti e basta. Come ha detto Silvia nell’impotenza cosmica dobbiamo restare ed è oh cosi difficile.
    A me qs manda ai matti ma tengo, difendo il dolore perchè mi ricordi che con l’impotenza ogni minuto devo fare i conti, perchè mi ricordi che le ingiustizie che subisco non le devo sminuire. Ho dovuto allontanare tante persone che non reggevano nemmeno il discorso dell’impotenza; mi sono allontanata perchè mi faceva stare ancora peggio fingere di essere un Prometeo che non si è piegato. Illudersi che con noi “non ce la faranno”. Il sistema sa come fare a piegarti. Può farlo. Lo fa.
    Fare i conti con la fragilità e le ingiustizie…è diventato più difficile che combatterle. Il dolore è un mondo oscuro, però ha qualcosa da dire e insegnare, ha un suo senso, almeno per me. Quelle perle di persone che riescono a tenertelo non sanno che stanno già salvando il mondo, almeno nel mio vissuto. Quando qualcuno mi dice “ma io cosa posso fare di concreto” io dico solo “tienimi solo per non farmi sbriciolare, tieni e basta, è già tutto”.

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