HAIR! UNA DIGRESSIONE SULLA VECCHIAIA FEMMINILE

Ben ritrovati.  Dovrei scrivere del Festivaletteratura di Mantova, o magari dei dickensiani Due Saloni, o di libri belli e meritevoli che ho letto e sto leggendo. Lo farò, nei prossimi giorni. Perché oggi vorrei tornare, a rischio di apparire frivola, sulla questione dei capelli delle donne. Anzi, delle donne di cinquant’anni e oltre. Sembra, appunto, faccenda trascurabile, una lieve polemica di fine estate che distrae dalle cose serie. E’ una cosa seria, invece, sempre che si ritenga serio, e importante, e anzi determinante, il valore del simbolico nella costruzione dell’immaginario.
Ci torno fra poche righe.
Il riassunto di quanto avvenuto ieri sera su Facebook (che in effetti non è la sede più adatta per affrontare argomenti di questo tipo) è presto fatto. Donna Moderna ospita in rete un articolo di Anna Da Re. L’articolo è dell’inizio di luglio, ma in quella straordinaria spirale del tempo che è il web – quella che porta a dire “oddio, come mi dispiace”, per morti avvenute dieci anni fa – è riapparso, appunto, ieri. In poche parole, nell’articolo medesimo si sostiene:
“Perché sì, quando si arriva ai cinquanta è ora di smetterla di fare le ragazze.
Anche se si resta ragazze dentro.
Ci si taglia i capelli, si smette di tingersi del colore che si aveva da giovani, si va verso il grigio e le sue varianti.
Ci si trucca appena, si cura la pelle con molta attenzione, si mette una spolverata di fard e un po’ di mascara. Al limite dell’invisibile.
Ci si veste. Anche con forme decise e colori forti. Che se si accompagnassero ad una chioma fintamente giovane e ad un trucco marcato ci renderebbero ridicole”.
La discussione è stata lunga e accesa. Con una pessima deriva: dal momento che il post di Da Re faceva riferimento a un taglio di capelli da parte di Daria Bignardi (che a mio parere le sta benissimo, ma questo non è il punto), molti commenti femminili, alquanto feroci, si sono concentrati sullo sport tuttora preferito da molte donne: come sta male, avrebbe dovuto fare così e cosà. Tristissimo. Altri commenti, inoltre, sono stati quelli tipici del “dove c’è un personaggio visibile accorro e insulto, così mi sento meglio”. Tristissimo pure questo.
Interviene, infine, la direttora di Donna Moderna, Annalisa Monfreda, con una reprimenda verso la sottoscritta, in quanto ho usato le parole “vergognoso” e “indecente” nei confronti dell’articolo. Proverò a spiegare qui sotto perché ritengo che le due parole sono legittime, e anche il personale dispiacere per la scelta di una testata che ho sempre ritenuta la migliore tra i femminili, perché da sempre attentissima a non veicolare stereotipi.
Fine della premessa. Passo indietro.
Siamo alla fine degli anni Settanta, aula universitaria, corso di antropologia culturale. Ida Magli parla per due ore dei capelli delle donne, folgorandoci, e determinando, almeno per quanto mi riguarda, un cambio di sguardo che non mi avrebbe più lasciato. Tagliare i capelli, spiegava – vado a memoria e gli anni trascorsi sono molti, dunque perdonate l’imprecisione – è sempre un gesto simbolico, nella storia delle donne. I capelli corti significavano la rinuncia alla seduttività: erano le monache a tagliarli, infatti. Oppure, significavano ribellione, come nel caso delle “maschiette” degli anni Venti, a un ruolo che sulla seduttività puntava. Quando decidete di tagliare i capelli – diceva – sappiate che, qualunque sia il motivo della vostra scelta, c’è un preciso universo di simboli che, agli occhi degli altri, farà ricadere quella scelta in una precisa casella. Ignorateli, diceva anche, questi occhi altrui: ma abbiate la consapevolezza culturale del significato. Senza quella consapevolezza, sarete disarmate.
I segni sono ciò che abbiamo per capire il mondo. Sarebbe bello che prima di addentrarsi nel facile giudizio si rileggesse “Miti d’oggi” di Roland Barthes. Perché nella nostra mente gli antichi romani hanno la frangia? Perché sono i film ad avercelo detto. Soprattutto i film (per Barthes, soprattutto il Giulio Cesare diretto nel 1953 da  Joseph L. Mankiewicz). Perché nei film il particolare indica il tutto. La frangia dei romani indica che quelli che stiamo vedendo sullo schermo sono proprio romani. I capelli lunghi dei giovani degli anni Sessanta e Settanta erano il segno di una ribellione: e Pasolini non fu tenero quando rilevò la trasformazione della ribellione medesima in adesione alla moda.
Il problema dei segni, però, è che quando riguardano le donne, possono diventare gabbie. Specie per le donne che hanno e soprattutto superano i cinquant’anni, e che sono osservate, studiate e, in modi diversi, istigate con frequenza all’invisibilità. Le polemiche di queste ore sul malore di Hillary Clinton dovrebbero rendere evidente quanto il corpo delle donne, e soprattutto delle donne vecchie, sia percepito come disturbante. Gli Stati Uniti hanno avuto presidenti malati, nella loro storia, e che quella malattia nascosero. Ma se è una donna a farlo, la donna va condannata. Accadde, peraltro, anche nel 2007. Ricordate?  Primo piano di Hillary Clinton nel pieno della campagna per le primarie americane. La foto mostra, come è normale che sia, i segni del tempo. Il commento dell’ultraconservatore Rush Limbaugh sottolinea però che esibirli in un corpo di donna non è decente, e non è soprattutto conveniente: “la politica è apparenza, sei quello che appari e Hillary come donna invecchierà peggio di un uomo, in quel lavoro alla Casa Bianca che logora chiunque, e noi americani passeremo quattro anni davanti allo spettacolo deprimente di una vecchia signora che perde ogni giorno la propria battaglia con il proprio aspetto. Un uomo anziano appare decisivo, autorevole, serio, una donna anziana è soltanto una vecchia”. Prevedibile. Prevedibile anche la rimonta di Hillary dopo una crisi di stanchezza che la fece scoppiare in lacrime (boys don’t cry, le vecchie signore sì). Prevedibile, e indicativo, il tam tam mediatico che ha moltiplicato in centinaia di prime pagine e in migliaia di fotografie in rete il primo piano di quelle rughe.
Così come la coscia esibita da Susan Sarandon a Cannes ha provocato un diluvio di interventi. A settant’anni la coscia non si mostra. Ah, davvero?
E i capelli si tagliano. Sei anni fa un opinionista di cui ho dimenticato il nome affermava che a cinquant’anni bisogna eliminare la frangetta, indizio di una patetica giovinezza interiore. Nel 2006 il re degli stilisti, Valentino, sibilò parole di fuoco su anagrafe e minigonna:  “La minigonna? Dopo i 16 anni bisogna dimenticarla. Offende le donne. Oggi, purtroppo, si vedono in giro cinquantenni che vogliono sembrare delle ventenni. Hanno la faccia color terracotta, portano tonnellate d’ oro, borse ricamate e abiti di chiffon. Un vero disastro. Bisogna saper invecchiare, ribellatevi alla moda che vi fa brutte”.
Ora, io sono l’ultima persona al mondo che può dare lezioni di stile: dalla mia adolescenza all’altro ieri mi sono vestita male. Ricordo l’unico invito mai ricevuto a una serata ultramondana a casa di un ultramondano con vista su piazza di Spagna. Parliamo di vent’anni fa. Arrivai con una gonna lunga a pieghe e un maglione da uomo con un ricamo che mostrava Mozart al pianoforte. Aggirandomi in una marea di perfetti tubini neri, venni avvicinata dal padrone di casa che mi sussurrò: “sei tanto cara, ma vesti da schifo”. Era vero. Ho fatto poca attenzione al mio cosiddetto stile finché non ho capito che ne avevo uno, ed è faccenda di un paio di anni fa. E che quel buffo “stile” fatto di capelli lunghi al naturale, scarpe basse (con rare puntate nel tacco), vestiti verdi e viola che sfiorano i piedi e collane finte che sfidano le gazze ladre, era quello in cui stavo e sto bene. E ce ne sono tanti, di “stili” altrui che mi incantano, ognuno diverso dall’altro. A Mantova ero circondata da donne che trovavo e trovo bellissime, e che non hanno sedici anni: dalla chioma fulva di Susanna alla frangetta di Milvia, dal caschetto di Sarah Waters fino al taglio corto della meravigliosa Charlotte Rampling. E allora?
Allora non sono certo i miei capelli a farmi definire “indecente” e “vergognoso” quell’articolo. E’, invece, lo sconforto di leggere ancora una volta cosa è bene e cosa non è bene per una donna che ha superato i cinquanta, o che addirittura, come me, ne compirà fra non molto sessanta. Non c’è una strada unica, e indicarne una,  sia pure in un articolo di tono bonario – ma che a un pubblico molto vasto si rivolge – significa comunque legittimare quello sguardo crudele che spesso, ancora, le donne rivolgono alle altre donne.
Le donne sono crudeli con le donne, e ci sta, mai sostenuto che le donne siano buone a prescindere. Ma sono crudeli soprattutto con chi invecchia, e sono prontissime a prendere le misure di quanto invecchia “male”, sia quel “male” da attribuire all’eccesso di botulino, sia da attribuire alla sciatteria. Il “più si diventa vecchi, più si diventa liberi” di Saramago sembra non valere per le donne.
Certo,  abbiamo un problema di “jeunisme”, e viviamo come dovere l’ essere giovani o apparire giovani a ogni costo. E, certo , questi discorsi sono rischiosi, come quando si tenta di riparlare del corpo e interrogarci su quanto sia davvero libero l’uso del medesimo come lasciapassare per il nostro essere nel mondo, perché quel che viene rinfacciato  è di avere una visione della vita bigotta, infelice, costrittiva, dove il corpo viene punito e mortificato. In realtà, si tratterebbe semplicemente di dargli la giusta importanza: di poterlo accudire e curare e migliorare sapendo però che non è l’unica carta in proprio possesso ma una parte della propria storia. La più visibile. E se è bello, piacevole, importante avere a disposizione le tecniche giuste per poter almeno in parte attenuare le offese che il tempo arreca al corpo, dovrebbe essere anche importante e, forse, bello, ricordare che quel corpo ha comunque una storia che non può essere azzerata.
Quando si invecchia, è più dura. Lo sottolineava già Simone de Beauvoir, ricordando come l’aver parlato di vecchiaia ne La forza delle cose aveva suscitato un putiferio: “Ammettere che mi trovavo alle soglie della vecchiaia voleva dire che questa aspettava al varco tutte le donne, e che già molte ne aveva afferrate… Gentilmente, o con risentimento, molta gente, e soprattutto persone d’età, mi hanno abbondantemente ripetuto che la vecchiaia non esiste. Vi sono persone meno giovani di altre, semplicemente questo”.
Non è un invito alla sorellanza purché sia, il mio. E’ un invito a sognarsi libere, anche se nessuna – e io per prima – avrebbe il coraggio di posare nuda come Alda Merini. E’, anche, un’ammissione di fragilità.
Non è per niente facile compiere sessant’anni. Non essere più figlie. Temere per il futuro dei figli. Sapere, come disse Imre Kertész a proposito del Novecento – e perdonate quella che sembra un’irriverenza – che sei esposto, e chiunque può prenderti a fucilate. La vecchiaia è questa. Ce lo ricorda Cathleen Schine nel suo ultimo libro, “Le cose cambiano”. Ed è, certo, molto altro: fatica, povertà, paura. Solitudine. Se il nostro segno esteriore è libero da modelli dati, non che la fatica, la povertà, la paura, la solitudine spariscano. Ma, almeno, non ci sarà una gabbia ulteriore a gravare sulla nostra strada. Ma, almeno, potremo amarci, che è quel che conta per poter amare davvero gli altri.

19 pensieri su “HAIR! UNA DIGRESSIONE SULLA VECCHIAIA FEMMINILE

  1. Buongiorno Loredana,
    articolo molto interessante, grazie davvero.
    Riguardo poi alla questione del tagliarsi i capelli corti, mi ricordo che rimasi molto colpita quando, all’Università, studiando usi e costumi dei Greci antichi, lessi che le donne greche si tagliavano i capelli quando subivano un lutto. Altrettanto corti erano i capelli delle schiave. Ecco, questa cosa del tagliarsi i capelli dopo un lutto mi è rimasta dentro.
    Un piccolo aneddoto invece mi è tornato in mente leggendo il resto dell’articolo: quando mia madre stava per compiere 50 anni ci trovammo nella necessità di rottamare la vecchia Citroen e comprarne una nuova. Una sua amica coetanea le fece presente che, qualunque macchina avesse scelto, non avrebbe potuto prenderla rossa. Perché il rosso, dopo i 50 anni, era un colore sconveniente, anche per una macchina…

  2. Quando ho letto il risibile articolo della da Re ho pensato che se la signora Bignardi viveva fondotinta e tintura come un fastidio e una imposizione, ha fatto benissimo a darci un taglio (notare il raffinato giuoco di parole).
    Il risultato può piacere o meno ma restano affari suoi. Una scelta sua.
    Quello che non mi va giù è il tentativo di presentarla come una “lezione di stile” alle altre donne perché “Un ruolo istituzionale di quella rilevanza richiede che la propria autorevolezza arrivi anche da come ci si presenta e ci si veste.”
    E no. Neanche per idea. No.
    L’autorevolezza sul lavoro e la tinta per capelli non hanno niente a che vedere. Non devono proprio stare nella stessa frase, a meno che non si parli del mondo dei parrucchieri.
    Una donna può essere autorevole anche se si veste da far sembrare sobria Priscilla la regina del deserto.
    Dovremmo poter essere prese sul serio anche se non ci travestiamo da suore laiche.
    Dispiace ancora di più notare come questo concetto minimo non sia compreso da tante donne. Aspettarsi che lo capiscano anche gli uomini diventa allora miraggio tanto tanto lontano.
    Grazie per questo bel post.

  3. se ha ragione Ida Magli quello che sogni non è semplicemente possibile, il segno esteriore non potrà mai essere libero da modelli dati, e la società sarà sempre una gabbia, e così la vecchiaia. In più, le persone giudicano, e anche con questo bisogna mettersi l’anima in pace. Potremmo essere più buoni? Sì, certo. Però non si può neanche pretendere che non si facciano questi discorsi, come quello dell’articolo. A una certa età si diviene ridicioli perché la vecchiaia è ridicola, e le persone che cercano di non sembrare vecchi sono ridicole, donne e uomini.

  4. io ignoro cosa simboleggi il riporto negli uomini, ma temo niente di buono (temo perché sono tentato dal ricorrervi).
    e a proposito di donna moderna, volevo chiederti un parere su un caso di sessismo: secondo te è giusto che la direttrice di una rivista femminile, alla proposta di un giornalista (e sottolineo un) di curarvi una rubrica culturale, risponda che lei accetta solo firme femminili per il suo periodico?

  5. L’articolo è bellissimo e grazie per il ricordo di Aida Magli, per la citazione di Barthes e Pasolini. Concordo su tutto e soprattutto sulla necessità ( ma speravo tanto che fosse materia superata) di ribadire che l’auto determinazione delle donne se vale dal ginecologo ( l’utero è mio etc..) vale a maggior ragione dal parrucchiere, dal sarto e dall’estetista. Tuttavia mi sembra una vicenda patetica e démodé quella che propone la Da Re. Più calzante sarebbe una osservazione su come le donne che hanno potere riescano, meglio di quelle che non ne hanno, a ridurre l’investimento su elementi seduttivi (capelli, forme esibite, tacchi, make-up). Le chiome bianche come status symbol: IO ORA ME LO POSSO PERMETTERE.

  6. I capelli sono il segno di essere rieducabile o meno; nei miei capelli si vede che non sono molto riducibile. E le poche volte che mi sono presentata al lavoro dopo il parrucchiere tutti mi hanno fatto capire che mi preferiscono a quando mi presento con i capelli ricci alla sanfason.
    Solo poche ragazzine con i capelli ricci accettano di portarli come tali, molte li lisciano per uniformarsi, ma per una ragazza giovane essere omogenea nell’aspetto lo trovo abbastanza normale, anche se è una dittatura.
    Soprattutto sull’immagine della donna si esercita un’imposizione che la normalizzi, che la renda meno selvatica, più rassicurante; per l’uomo cadere nel ridicolo è meno frequente.
    Durante una conferenza di un uomo non studiamo nel dettaglio com’è vestito, come porta i capelli, quanto è grasso, ma decenni di sottomissione
    culturale hanno automatizzato lo sguardo critico verso le donne: che oltre che intelligenti devono essere di aspetto gradevole, non possono permettersi di essere brutte, specie se persone pubbliche. Vecchie poi, disturbano il senso estetico che è lo sguardo dei maschi e con quello guardiamo il mondo. Per fortuna non proprio tutti.

  7. ma se partissimo dal presupposto che ognuno, ragazzo, ragazza o non più tale, coi capelli lisci per natura o no, ricci o non ricci, lunghi o corti eccetera non si sta “omologando” ma è come vuole essere e ci piaccia o no, non possiamo nè dobbiamo giudicare la sua libertà e consapevolezza? Per me Daria Bignardi era libera (e autorevole) coi capelli lunghi e lo è adesso che ha cambiato look, e così le sue colleghe e colleghi.

  8. Avevi ragione ieri e hai ragione adesso e anche molte donne su fb avevano ragione quando definivano orribile l’articolo e anche pacchiano per me. Anch’io avrei gradito le scuse della direttora ma se dici che invece ti ha scritto piccata allora si tenga il suo giornale che non ho mai comprato. I cosiddetti giornali femminili … mai capito a chi si rivolgono! Brava Loredana (e grazie).

  9. Il valore simbolico dei capelli è immenso ed è il motivo per cui, pur senza esserne pienamente consapevole, ho sempre vissuto il taglio come una mutilazione. Salvo l’ultima volta, quando presentendo una svolta, ho dato un taglio. Felice di farlo. Ora, a 53 anni, ho deciso di riappropriarmi delle lunghezze. Grazie per questo articolo. Ci voleva proprio.

  10. L’hanno già scritto qui. Ma mi associo , come non farlo visto che a novembre arrivo a 60. Commovente .Bellissimo. Forse ogni figlia e ogni ragazza dovrebbe leggere da “Il secondo sesso” il capitolo ” Dalla maturità alla vecchiaia” . E da lì cominciare.

  11. Grande articolo! Prendiamola con leggerezza: chi è a suo agio in tailleur, tacchi e filo di perle, chi con gonne gipsy e chiome fluenti, chi è rock da sempre, come Annie Lennox con i suoi capelli cortissimi…Ogni donna può esprimere se’ stessa (anche) attraverso il suo look, purché non sia mai imposto e la faccia stare bene.
    P.s. Purtroppo non ho mai portato i capelli lunghi perché non sono il mio punto forte, ma adoro le chiome lunghe e argentate!

  12. Bell`articolo, pieno di citazioni che in qualche modo appartengono al mio percorso di formazione. Forse sono vecchia anch’io. Anche se nel cuore mi sento come quella giovane ragazza seduta sui banchi dell`aula 1 a Lettere, ad ascoltare quella strana ex-suora che diceva cose mai sentite che rovesciavano la mia visione del mondo e lasciavano intravedere l`abbozzo di un`altra prospettiva. Completamente e sorprendentemente nuova.

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