Questo è un post molto lungo. Contiene un ampio stralcio dell’intervista realizzata da Claudia Durastanti e da me, per l’edizione online del Salone del libro, nel 2020, con Donna Haraway, autrice di Chthulucene- Sopravvivere su un pianeta infetto. Ho citato Haraway in un articolo uscito oggi perIa Stampa sulla famiglia queer di Michela Murgia. Forse confrontarsi con l’originale aiuta a capire e a non fraintenderci vicendevolmente.
Comincio dalla prima risposta di Haraway al nostro discorso introduttivo.
Loredana.In che modo il pensiero tentacolare dello Chtulhucene può, se non impedire, frenare il pensiero della catastrofe, che fotografa ma non risolve e rischia anzi di peggiorare le cose? Se posso, mi vengono in mente gli eptapodi di Ted Chiang in Storia della tua vita, Flapper e Raspberry, e la loro scrittura semasiografica, che si sviluppa come una ragnatela, non ha verso e direzione, non ha punteggiatura, dunque non ha inizio e non ha fine, e dunque ancora: “già prima di tracciarlo, l’eptapode sapeva come si sarebbe sviluppato il resto della frase”. Dovremmo imparare a sviluppare un pensiero che pone noi stessi ai margini e non al centro, dunque
Claudia: Come ha detto Loredana, ci stai ribaltando e scombinando i pensieri da un po’. Il pensiero va Manifesto Cyborg, ma anche al libro che ho tradotto lo scorso anno insieme a Clara Ciccioni: Chthulucene- Sopravvivere su un pianeta infetto. Innanzitutto vorrei dirti che molti lettori italiani hanno provato conforto a leggerlo durante il lockdown e ci hanno chiesto di condividere questo con te, dove per conforto non intendono una forza passiva ma una lettura positiva e reattiva.
Donna: È una riflessione molto ricca e stratificata come il compost, più che una singola domanda, il che fa assolutamente al caso nostro! Ci penserò insieme a un compagno familiare appollaiato sulla mia spalla, che ha a che fare con lo Chthulucene. È un polipo di pezza proveniente dal Monterey Bay Aquarium. A differenza di gran parte dei polipi giocattolo, il suo occhio è biologicamente corretto, non è un occhio umanoide, tipico e rotondo. È come dovrebbe essere l’occhio di un polipo. Quindi se comprate questo polipo, non state comprando una proiezione umana, ma vi state aprendo alla possibilità di incontrare qualcosa che non siete voi. Un essere che vive in mondi che non vi appartengono, ma che forse state imparando ad abitare insieme questo altro essere, in maniera meno distruttiva. Per me lo Chthulucene, il tempo dei terrestri, il tempospazio ctonico, non è qualcosa di antico e passato e ritrovabile solo nei classici, ma è il tempo dell’essere terrestri adesso insieme ad altri esseri terrestri, nello sforzo di vivere e morire bene l’uno con l’altro. In modo che l’eccezionalismo umano esca fuori dal quadro. Ma le specificità degli esseri umani, fatte di storie situate, di desideri e bisogni situati, non sono fuori dal quadro: sono in questa ricca “intra” e “inter-attività”, come direbbe Karen Barad, con altre macchine, altri organismi, con il mondo costruito, il mondo ereditato, sia in termini naturali sia culturali.
Non ragiono nei termini di una a-direzionalità, questo non è un pensiero oceanico, una semiotica di non significati, invece è un mondo fatto di pensieri situati, di significati mai semplici, e mai univoci.
Se penso ai ragni, non penso all’assenza di direzione, ma penso: di quali ragni specifici stiamo parlando? E dove vivono? In quali mondi io e i ragni diventiamo presenti a vicenda? Si tratta di una relazione distruttiva o tesa a una prosperità? I ragni sono predatori – c’è un solo un ragno vegetariano a essersi mai evoluto sul pianeta terra –, sono straordinariamente bravi a percepire, tracciare e mangiare la loro preda. I ragni non sono metafore semiotiche prive di una direzione, sono esseri che esistono e hanno un ruolo ecologico per sé stessi ma anche per noi. I ragni a casa mia sono bravissimi a catturare le mosche, e io non tiro mai giù le ragnatele negli angoli della stanza perché sono molto contenta dal fatto che intrappoleranno e cattureranno gli insetti. Lo Chthulucene mi interessa in quanto tempo di un vivere e morire insieme all’altro, un vivere e morire materiale, semiotico e situato che si snoda in tante scale spaziotemporali. Mi interessa per la capacità di risposta, per la nostra «responso-abilità». Lo Chthulucene non è una vaga metafora pseudo-deleuziana. Significa essere di e dentro la Terra nella sua complessità. Per noi essere umani implica anche complessità linguistiche ed etiche che non sono le stesse di quelle affrontate da un polipo. Lo Chthulucene va contro l’eccezionalismo umano e si oppone al pensiero apocalittico e a tutte le storie sacre e profane protese verso la tragedia umana o il trionfo umano. Non è un pensiero che va contro gli esseri umani, ma è un pensiero che va contro un intero apparato fatto di modi di raccontare e modi di vivere orientati all’eccezionalismo umano.
Claudia: Hai parlato del vivere e morire bene con le altre specie. Gran parte del tuo lavoro recente si focalizza sulla solidarietà inter-specie. Ci ho pensato molto anche per via della pandemia: come si fa ad avere questo tipo di conversazione quando si fa tanta fatica a concepire la solidarietà all’interno della nostra stessa specie? Nel libro riprendi un bellissimo passaggio di Flight ways di Von Dooren in cui si c’è un invito a riconoscere il fatto che anche alcune specie animali fanno esperienza del lutto e cercano di riparare la vita attraversando la sofferenza. Mi interessa sapere in che modo i tuoi pensieri stanno cambiando per via della pressione di quel che accade e come ti rapporti al tema della solidarietà tra specie quando si tratta di un momento così critico per la solidarietà nella nostra, di specie.
Donna: Se quel che ho detto prima pare interessare solo le altre specie allora mi sono espressa male. Mi riferisco a diverse solidarietà all’interno di una specie, ma sempre insieme agli altri. Con i virus per esempio. Che non sempre sono presenze amichevoli, e in questo caso non lo sono affatto. Come i vari modi di vivere e di morire, di nutrire e uccidere che fanno parte dell’essere una persona reale. La solidarietà con gli altri non è mai stata così intensamente necessaria come adesso, e non è mai stata così difficile da costruire, sostenere e diffondere. In quanto professoressa in pensione che ha una casa e un giardino, io vivo una situazione di agio, con un’entrata fissa e stabile durante gli stay-at-home-order e la possibilità di andare fuori. Il che è molto diverso dall’esperienza degli immigrati qui a Santa Cruz e dei lavoratori che spesso stanno a casa con i bambini, senza entrate. Magari al momento c’è una sospensione degli affitti, ma ciò non significa che tra tre o sei mesi quell’affitto non andrà pagato. Magari un membro della famiglia può lavorare ma questo contraddice l’ordine di restare in casa, o forse quella persona lavora all’aperto, e viene sgridata e mal tollerata dai vicini, convinti di essere messi in pericolo dalla sua presenza. Ma se quella persona non lavora la famiglia non mangia. Che tipo di solidarietà è necessaria? Innanzitutto una solidarietà intesa come lavoro concreto, fatto ora e adesso, con e per gli altri. Questa solidarietà è un dovere, non un’opzione. È un dovere esercitare pressione politica affinché lo Stato della California prenda misure per garantire il cibo, il reddito e l’affitto, che implementi politiche che non siano una sospensione delle spese per affitto e mutuo ma un condono, che prenda decisioni sull’agricoltura non solo nel breve ma nel lungo periodo, per esempio chiudendo per sempre gli stabilimenti industriali dove viene praticato il massacro degli animali per il mercato alimentare. Garantire il reddito e uno status legale per le persone che lavorano in questo settore. Gli stabilimenti dove si lavora la carne animale sono tra i centri di maggiore contaminazione e diffusione della pandemia, e nella maggior parte dei casi impiegano persone che non hanno il permesso di stare nel paese, non hanno documenti anche se sono lavoratori essenziali. La solidarietà verso gli immigrati è più importante, non meno importante, in tempi di pandemia. C’è poi il tema dell’educazione alla scienza. In tutto il mondo, e di sicuro dove vivo io, c’è un fortissimo anti-intellettualismo e piglio anti-scientifico. C’è sospetto verso gli esperti, e a volte questo sospetto ha ben ragione di essere. In generale c’è una profonda e sistematica ignoranza. La solidarietà implica anche un costante e continuo incoraggiamento verso l’educazione scientifica, magari tramite giochi, perfomance online, paper seri, pubblicazioni popolari e diffuse che si occupano di domande fondamentali, come: cos’è un virus? Tutti i virus sono cattivi? E i microbi? Abbiamo delle socio-ecologie con i microbi? Bisogna pensare a questo: quale tipo di convivenza con i virus proteggerà qualcuno di più rispetto a un altro, chi viene protetto e chi è in pericolo? Queste domande sulla solidarietà non sono antitetiche alla solidarietà multispecie, non sono contrarie a una coscienza Chthulucene, tanto per tirare in ballo i miei giochi di parole. Essere una creatura terrestre significa vivere di queste solidarietà necessarie, situate, e insieme agli altri. E questo “insieme agli altri” non è mai solo umano. Si colloca sempre dentro a ecologie socio-naturali. Farò un breve esempio. Il virus attuale probabilmente si lega in maniera abbastanza diretta a un processo di costante distruzione e semplificazione dei sistemi degli altri esseri viventi, tra cui i pipistrelli. Gli stili di vita degli esseri umani, le pratiche agricole, la fitta urbanizzazione, la penetrazione negli ambienti di vita delle altre specie hanno creato un mondo vulnerabile alle pandemie. Un mondo vulnerabile alle pandemie che i ricchi riescono a tenere a bada – non questa volta, questa volta li abbiamo beccati anche se non in maniera uniforme!
Pensare seriamente ai virus, richiede un pensiero serio sulle pratiche dell’agricoltura favorevoli alle pandemie, in modo che diventino meno favorevoli, creando così un vivere e morire con gli altri che non sia solo orientato al disastro, per noi come per le altre specie. Questo è il pensiero che ci serve adesso, un pensiero che non è apocalittico ma prende molto sul serio la morte di massa.
Loredana. Il tuo sguardo è sempre stato concentrato sui confini e contemporaneamente sui punti di vista. Penso a Manifesto cyborg, che si poneva in modo originalissimo rispetto sia alle posizioni del femminismo delle differenze sia alle filosofie che esploravano il rapporto uomo-macchina. Non siamo mai stati “naturali” ma “culturali”, siamo già inevitabilmente ibridi. Lei scriveva questo negli anni Ottanta: lo abbiamo finalmente compreso?
Donna: Questo non vale solo per i femminismi. Apparteniamo a culture che per centinaia di anni si sono rette sulla premessa dell’eccezionalismo umano, sia in senso sacro che profano, orientato a una separazione tra natura e cultura. Il sé si è costituito in questa cornice qui. Stiamo combattendo – vedete cosa ho fatto? sono andata a prendere subito una parola guerresca, aiuto, aiuto! –, siamo irretiti dentro a mondi che cerchiamo continuamente di riparare, recuperare, ripensare e rivivere. Non vale solo per i femminismi. Innanzitutto il Manifesto Cyborg risale ai primi anni Ottanta a essere precisi. Per tanti motivi per me le origini del Manifesto coincidono con gli Stati Uniti di Ronald Reagan e una nuova riflessione a sinistra in Jugoslavia, nello sforzo di ripensare il marxismo. Il Manifesto aveva decisamente a che fare con la tendenza dei femminismi occidentali, non solo occidentali ma soprattutto questi, di accettare il determinismo tecnologico in chiave anti-tecnologica, di criticare l’apparato scientifico e medico a ragion veduta, rendendolo il nemico invece di riappropriarsi di scienza e medicina per vivere meglio. Io volevo riappropriarmi dei cyborg per permettere al femminismo di prosperare, e questo implicava una seria riflessione sul genere e i suoi apparati. Il genere come qualcosa che non è mai solo naturale o solo culturale, ma qualcosa di diverso, per cui non abbiamo parole. Per questo ho fatto implodere le parole arrivando «naturalculturale», qualcosa che nessuno sa pronunciare in maniera davvero spedita; sono concetti che implodono a vicenda. Non userei la parola «ibrido», il prendere due cose distinte tra loro e mischiarle. È più un’implosione, una specie di «emersione» di qualcosa di diverso, ancora possibile in altri mondi, che a dire il vero sono già qui e sono sempre stati qui. Viviamo già in mondi profondi e complessi fatti di solidarietà, di cura, e con una fame di giustizia e di cura, di capacità concrete per farlo, di modi seri di vivere bene con altre specie. Queste cose sono ovunque se iniziamo a guardarci bene attorno. E non è detto che quella dello sguardo sia sempre la metafora giusta. La mia amica Katie King, quando si parlava di tutto ciò di cui abbiamo bisogno, diceva: «C’è già più di quel che pensiamo, e meno di quel che ci serve». Più di quel che pensiamo e meno di quel che ci dovrebbe essere. Se pensiamo alle pratiche di giustizia e di cura e di solidarietà vitale di cui c’è davvero bisogno adesso, ne abbiamo di più, qui e adesso, di quel che pensavamo. È compito nostro prendere i mondi ricchi di queste cose e renderli abbondanti, e rendere i mondi fascisti, punitivi e militaristi che sono così popolari tra di noi, più piccoli, silenziarli, ridurli a cose piccolissime. Ecco cosa rappresentavano i cyborg per me, mentre cercavo di ri-significarli. Era assolutamente un progetto femminista ma non solo femminista.
Claudia: Mentre parlavi pensavo anche a questo interscambio tra il dentro e il fuori. Penso alla riscoperta del lavoro di Silvia Federici dopo che è stato un po’ in ombra in Italia – anche perché ha operato in gran parte negli Stati Uniti –, il suo lavoro sul lavoro domestico salariato è stato spesso marginalizzato qui. Ci sono state conversazioni ma anche distanze. Un passaggio del libro che mi ha molto colpita, e so che è una domanda delicata, è legato a uno dei motti del libro «Generate parentele, non bambini!» Qual è il tuo punto di vista sul rapporto tra femminismo e giustizia ambientale?. Dici che alcune femministi hanno negato la realtà della Grande Accelerazione, il fatto che siamo troppi sulla Terra, Come si traduce questo punto di vista nella pratica, senza scivolare nel controllo biopolitico del corpo, nell’imperialismo? È giusto evirarlo, ma è anche giusto prendere sul serio la giustizia ambientale, davvero dovremmo formare parentele più che fare bambini.
Donna: Prendo questo tipo di domanda molto sul serio. Forse è la domanda più difficile con cui abbia mai dovuto confrontarmi, e non credo ci sia una risposta semplice. Prenderò un libro, Making Kin and Not Population. È un libro a cui ho lavorato con altre femministe sodali come Kim TallBear, Michelle Murphy, Ruha Benjamin, Yu-Ling Huang, per cercare di confrontarci con una domanda difficilissima. Non siamo tutte d’accordo qui dentro, ma si tratta di un gruppo di femministe situate devote al tema della cura e della giustizia nell’ambito dei diritti riproduttivi, che riconoscono la priorità delle femministe di colore come SisterSong, che ha sviluppato gran parte del pensiero attorno alla giustizia riproduttiva, compresa la sua terminologia. C’è un impegno verso la giustizia riproduttiva dal punto di vista femminista, verso i diritti delle donne quando si tratta di autonomia riproduttiva e autonomia sessuale. Con questo vogliamo dire che solo una donna può prendere una decisione se avere un bambino o meno, rifiutando tutte le forme di coercizione sociale nel controllo della popolazione. Noi riconosciamo lo scandalo procurato da tanti fenomeni di ingiustizia riproduttiva, come la l’esistenza di abitazioni non adeguate, un’istruzione non adeguata, l’assistenza sanitaria fallimentare, il razzismo, il disprezzo verso bambine e bambini, l’uccisione dei ragazzini neri, la separazione forzata dei bambini al confine con il Messico: sono tutte forme di ingiustizia riproduttiva. E restano un tema di interesse primario per le femministe. Senza dimenticarci di tutto questo neanche per un secondo, come possiamo prendere in considerazione i numeri della popolazione allo stesso tempo, e non in senso malthusiano? Se non usiamo parametri malthusiani, una femminista come noi si accorge subito del fardello imposto sulla Terra da parte della popolazione che vive nelle regioni ricche del mondo. Gli assalti più gravi alla giustizia riproduttiva avvengono in contesti benestanti e consumisti. Parlo di contesti iper-capitalisti, iper-consumatori in cui magari nascono meno bambini, ma che hanno un impatto molto gravoso sul pianeta e sui bambini dei meno abbienti, oltre che sulla biodiversità in generale. Penso alle attività di estrazione mineraria volta a produrre le sostanze rare necessarie per produrre un mondo interconnesso tecnologicamente, le catene di produzione e distribuzione che hanno date conseguenze sugli esseri umani, le implicazioni per la biodiversità quando si tratta dalla produzione dell’olio di palma per ottenere vari prodotti, l’industria della carne, la soddisfazione degli appetiti del mondo benestante, la costruzione di apparati multinazionali commerciali per aumentare il consumo di carne, sia come pratica sia come status del benessere, lo sviluppo della classe media come classe che consuma sempre di più. Quindi anche se gli indici di natalità si abbassano, e si stanno abbassando ovunque, le pratiche di distruzione si intensificano. Come ho scritto in questo libro che vedete qui, quando sono nata nel 1944, la popolazione globale era di circa 2.4 miliardi di persone, e quando morirò da donna ricca privilegiata, a meno che il Covid non mi prenda prima, la popolazione sarà sugli 8.5 miliardi, forse un po’ di più. E così nel giro della vita di una ricca donna bianca il numero di persone è aumentato così tanto. Non va bene. Cosa ha scatenato questi numeri? Per me sono state le stesse forze che hanno scatenato l’iper-sfruttamento chiamato Grande Accelerazione, un termine che uso con cautela perché porta con sé tutta una serie di ideologie problematiche. Ma le grandi esplosioni dell’industria agricola, dell’estrazione mineraria, dell’esaurimento genetico e dei grandi numeri, l’esplosione di tutto questo e degli ordini-socioeconomici del secondo dopoguerra, hanno preso una svolta netta negli anni Ottanta con il neoliberismo. Si tratta du apparati riproduttivi basati sulla crescita illimitata. Il prodotto di questa crescita va a vantaggio di alcuni a discapito di altri. Parliamo di apparati di crescita, non solo di ideologie. Gli esseri umani sono stati nella morsa di questi apparati sia in termini di numeri che di altro. Le persone sono state private delle proprie terre, dei metodi interni alla comunità per tenere sotto controllo e auto-regolare i propri numeri; le persone sono state private dell’autonomia in tantissimi modi. Gli esseri umani venuti al mondo nel dopoguerra, questi che sono “nati”allora, sono quasi un gruppo uscito dalla fantascienza per me, nati in apparati basati sullo sfruttamento e la crescita intensificata. Sì, io credo che dovremmo essere in meno, e credo che in un centinaio di anni lo saremo. Ci sono voluti una centinaia di anni per arrivare qui, e riusciremo a diminuire grazie alla giustizia riproduttiva multispecie di cui fanno parte anche gli esseri umani. La giustizia e cura riproduttiva dev’essere anche un mezzo e non solo un fine, e questo significa prendersi cura della dimensione abitativa, dei diritti sessuali. Io voglio vivere in un mondo a favore dei bambini. Adesso vivo in un mondo a favore della natalità e non a favore dei bambini. Voglio vivere in un mondo a favore dei bambini che sia davvero tale. Quindi voglio che le persone, me compresa, generino parentele in modo che i neonati siano sempre meno e preziosi. Gli indici di natalità sono crollati in tutto il mondo e stanno crollando ovunque tranne nelle aree più sfruttate, dove la sofferenza riproduttiva delle donne è ancora intensa. «Generate parentele, non popolazione!» è uno slogan più corretto, ma suona peggio! «Generate parentele, non bambini!» può essere facilmente strumentalizzato dagli apparati razzisti e classisti che promuovono il controllo della popolazione. Ma d’altro canto, non parlare del fardello dei numeri umani, evitare anche solo una semplice discussione su cosa significano questi numeri non è possibile. Se siamo fortunati, e gli indici di natalità restano bassi, se e soltanto se queste condizioni vengono soddisfatte, i numeri si assesteranno sugli 11 miliardi. Le femministe come me fanno fatica a parlarne con le altre. Se lo fai possono dire che sei razzista, ecco a cosa mi oppongo. Dobbiamo combinare le politiche a favore della generazione di parentele con la giustizia riproduttiva come mezzo e non solo come fine.