Sul New York Times si racconta di un progetto svedese interessante ma insidioso. L’idea è quella di creare un Canone Culturale del paese per capire cosa lo caratterizzi. Il governo l’ha intrapreso nel 2023 (su ispirazione della destra) con due diramazioni: il canone “degli esperti” e il canone “del popolo”. Il primo coinvolge accademici, giornalisti, storici e altri intellettuali che “selezioneranno 100 opere o altri elementi di importanza culturale che hanno avuto un ruolo chiave nel formare la cultura svedese”. Le possibilità sono ampie, possono entrarci Ingmar Bergman e Pippi Calzelunghe, l’Ikea e gli Abba. Fin qui, a quanto pare, sono stati suggeriti la sauna, August Strindberg, la battaglia di Visby del 1361, le cinque vittorie di Björn Borg a Wimbledon.
“La maggior parte del mondo della cultura è contraria all’idea di un canone”, dice Ida Ölmedal, redattrice culturale del quotidiano svedese Svenska Dagbladet: “Viene utilizzato come strumento populista per indicare cosa è svedese e cosa non lo è, ed escludere alcune persone dal concetto di svedesità”. E ha aggiunto: “”Ma anche se non fosse nazionalista, sarebbe comunque sbagliato per i politici sottolineare cosa sia importante per la cultura”.
Non siamo del tutto esenti da questo discorso: certo, non siamo ancora al canone culturale (e non vorrei aver dato un’idea al ministro Giuli), ma cosa sono le Nuove indicazioni nazionali di Valditara se non il tentativo di delineare un canone? Nazionalista e identitario, ovviamente, come è stato più volte detto e ripetuto.
Il canone, a parer mio, è faccenda pericolosa da ogni punto di vista: e non solo per una questione politica e di identità.
Perché la cultura dovrebbe essere un’indicazione di libertà, non una gabbia.