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La ridicolizzazione degli intellettuali e la riduzione dei medesimi a “conventicola” è faccenda antica e insieme attualissima: rappresentarli come un gruppo di annoiati conservatori pronti a sollevare l’indice per ammonire funziona sempre, come le barzellette sui carabinieri, e “intellettuale” (come “femminista”) è ormai una parolaccia, almeno in Italia. Un gran peccato (per chi racconta le barzellette e parla di conventicole).
E però. Siamo sicurissimi che le colpe stiano solo dalla parte dei ridicolizzatori?
Un paio di esempi di lavoro culturale: gli articoli di Annamaria Testa su ChatGPT e AI, (su Nuovo e Utile) e lo strepitoso Festival di letteratura working class, organizzato da Edizioni Alegre e dal Collettivo di fabbrica Gkn in collaborazione con Arci Firenze e diretto da Alberto Prunetti. Operai e letteratura, lotta di classe e intellettuali: come ai vecchi tempi? Eh no, esattamente in questi tempi, nei modi e nelle forme da scoprire insieme. E con migliaia di persone che partecipano, peraltro.
In poche parole: i ridicolizzanti di cui sopra hanno ragione nel momento in cui chi fa lavoro culturale o dice di farlo non si guarda intorno. Ma, grazie al cielo, non funziona (sempre) così. E poi, come diceva Leonardo Sciascia: “L’intellettuale non ha più nessun potere, comunque io continuo a scrivere come se ci credessi”. Ecco. Eccetera.

L’iniquità del mancato omaggio alle bare di Cutro, la lotta di Gkn, le truffe agli studenti: tre tappe diverse e un’unica necessità. Che c’entrano, queste cose, col lavoro culturale? Ne sono la base, invece. Giustamente Avvenire riportava qualche giorno fa le parole di Ernesto De Martino, nel 1952, quando diceva che gli abitanti più poveri di Eboli volevano soprattutto una cosa, questa: che”le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo”.
Raccontare, raccontare, raccontare. Accidenti, lo so, è poco, non ripara i viventi e non resuscita i morti. Ma intanto, e per cominciare, è questo che va fatto.

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