Scena – assai celebre – da Caterina va in città (Paolo Virzì, 2003). Lo scrittore frustrato Sergio Castellitto indaga sulla madre della compagna di scuola di Caterina. La madre è famosa, dunque va schernita, ma anche corteggiata perché non si sa mai. Salta fuori la parola “conventicola” che giustamente la giovane Caterina non conosce. “Vocabolario!” ingiunge Castellitto. Caterina legge: “Conventicola. Riunione segreta di persone per fini disonesti. Ristretto gruppo di persone aventi fini comuni, es. conventicole letterarie”. Castellitto esulta: “E’ un concetto chiave per capire come vanno le cose in questo paese”. Eccetera.
Discorso – famoso – di Benito Mussolini, pronunciato il 23 ottobre 1933: “Nostra è la dottrina dello Stato, nostro è il concetto di popolo, che diventa arbitro del suo destino e soggetto della sua storia. Non dunque rivoluzione di piccole classi, o di piccoli circoli, non rivoluzione di conventicole intellettualoidi senza carattere, ma rivoluzione di popolo perché siete popolo”. Eccetera.
Rubrica – molto famosa – di giornalista, dieci anni fa giusti giusti: “…il senso di legalità e giustizia sociale che anima il popolo della sinistra può identificarsi in una conventicola di intellettuali che da decenni dice di no a qualsiasi tentativo di cambiare questo sistema sclerotico e oggi si stringe come una vecchia cintura di castità intorno al povero Tsipras? “. Eccetera.
La ridicolizzazione degli intellettuali e la riduzione dei medesimi a “conventicola” è faccenda antica e insieme attualissima: rappresentarli come un gruppo di annoiati conservatori pronti a sollevare l’indice per ammonire funziona sempre, come le barzellette sui carabinieri, e “intellettuale” (come “femminista”) è ormai una parolaccia, almeno in Italia. Un gran peccato (per chi racconta le barzellette e parla di conventicole).
E però. Siamo sicurissimi che le colpe stiano solo dalla parte dei ridicolizzatori?
Faccio un paio di esempi: qualche giorno fa sono stata velatamente rimproverata in quanto postatrice di foto di gatti che disdegna ChatGPT. Ecco, non la disdegno affatto: semplicemente notavo che, almeno tra le bacheche a me visibili, nella quasi totalità dei casi la si usava per interrogarla su se stessi. Ovvero, chiedendo all’AI la propria biografia. Che è esattamente la versione rinnovata di quell’io-io-io a cui i social ci stanno abituando.
Certo che è divertente, certo che vale la pena giocare (ci ho giocato anche io, all’inizio, tenendo per me e per qualche amico i risultati delle mie domande, fra cui uno strepitoso horror ambientato in una importante manifestazione letteraria). Però a chi fa lavoro culturale chiedo, magari, altro.
Questo altro, oltre ad alcuni contatti che stimo e seguo, lo ha perseguito, per esempio, Annamaria Testa su Nuovo e Utile, in due articoli: nel primo ricapitola e spiega con chiarezza assoluta come si è arrivati fin qui. Nel secondo si interroga sulla definizione di intelligenza. Sono preziosi, vanno letti e diffusi, sono l’esempio perfetto di cosa significhi lavoro culturale oggi: confrontarsi con quel che è nuovo, storicizzarlo, capirlo (poi anche giocarci, magari, e chi lo vieta?).
Un altro esempio di lavoro culturale è quello fatto negli ultimi tre giorni a Campi Bisenzio nel primo Festival di letteratura working class, organizzato da Edizioni Alegre e dal Collettivo di fabbrica Gkn in collaborazione con Arci Firenze e diretto da Alberto Prunetti. Operai e letteratura, lotta di classe e intellettuali: come ai vecchi tempi? Eh no, esattamente in questi tempi, nei modi e nelle forme da scoprire insieme. E con migliaia di persone che partecipano, peraltro.
In poche parole: i ridicolizzanti di cui sopra hanno ragione nel momento in cui chi fa lavoro culturale o dice di farlo non si guarda intorno. Ma, grazie al cielo, non funziona (sempre) così. E poi, come diceva
Faccio un paio di esempi: qualche giorno fa sono stata velatamente rimproverata in quanto postatrice di foto di gatti che disdegna ChatGPT. Ecco, non la disdegno affatto: semplicemente notavo che, almeno tra le bacheche a me visibili, nella quasi totalità dei casi la si usava per interrogarla su se stessi. Ovvero, chiedendo all’AI la propria biografia. Che è esattamente la versione rinnovata di quell’io-io-io a cui i social ci stanno abituando.
Certo che è divertente, certo che vale la pena giocare (ci ho giocato anche io, all’inizio, tenendo per me e per qualche amico i risultati delle mie domande, fra cui uno strepitoso horror ambientato in una importante manifestazione letteraria). Però a chi fa lavoro culturale chiedo, magari, altro.
Questo altro, oltre ad alcuni contatti che stimo e seguo, lo ha perseguito, per esempio, Annamaria Testa su Nuovo e Utile, in due articoli: nel primo ricapitola e spiega con chiarezza assoluta come si è arrivati fin qui. Nel secondo si interroga sulla definizione di intelligenza. Sono preziosi, vanno letti e diffusi, sono l’esempio perfetto di cosa significhi lavoro culturale oggi: confrontarsi con quel che è nuovo, storicizzarlo, capirlo (poi anche giocarci, magari, e chi lo vieta?).
Un altro esempio di lavoro culturale è quello fatto negli ultimi tre giorni a Campi Bisenzio nel primo Festival di letteratura working class, organizzato da Edizioni Alegre e dal Collettivo di fabbrica Gkn in collaborazione con Arci Firenze e diretto da Alberto Prunetti. Operai e letteratura, lotta di classe e intellettuali: come ai vecchi tempi? Eh no, esattamente in questi tempi, nei modi e nelle forme da scoprire insieme. E con migliaia di persone che partecipano, peraltro.
In poche parole: i ridicolizzanti di cui sopra hanno ragione nel momento in cui chi fa lavoro culturale o dice di farlo non si guarda intorno. Ma, grazie al cielo, non funziona (sempre) così. E poi, come diceva
Leonardo Sciascia: “L’intellettuale non ha più nessun potere, comunque io continuo a scrivere come se ci credessi”. Ecco. Eccetera.
Fors è bene cosi vist in che clima culturale dopo tanto fiorire di intellettuali
Partire dal basso ossia insistere coll’istruire.
I narcisismi degli intellettuali cedano il passo a docenti istruiti e preparati nell’arte dell’humanitas
Sono stata al Festival della Letteratura Working Class e mi permetto di fare alcune precisazioni, per rendere l’idea di cosa è stato:
1) Il Festival non era solo organizzato dal Collettivo, ma era proprio DENTRO la fabbrica occupata. Non è un dettaglio trascurabile, sia per l’impegno organizzativo sia per la potenza evocativa del luogo.
2) Non era un festival di intellettuali che facevano da avanguardia alla classe operaia. Era un festival in cui la working class, nel senso più ampio del termine che le si può attribuire oggi, si è raccontata, e gli intellettuali di professione non working class ascoltavano, o al massimo raccontavano ciò che avevano ascoltato da altri lavoratori in altri contesti (vedi il bellissimo intervento di Portelli).
3) Dietro il Festival c’erano Edizioni Alegre e l’ARCI, ma gli operai se lo sono pagati da soli (essendo da 7 mesi senza stipendio né cassa integrazione), con un crowdfunding di 10000€ e soprattutto con il lavoro di decine di volontari che hanno dato forma a un’organizzazione impeccabile.
4) Organizzare un festival letterario non è una passeggiata e ci vuole tempo, come lei ben sa. Infatti hanno cominciato a pensarci un anno fa. Il fatto che sia stato organizzato dentro una fabbrica occupata, che ha un’orizzonte temporale di giorni, massimo settimane, è pazzesco, e dimostra che chi ci crede è in grado di fare incredibili anche dal basso e senza risorse, solo che abbiamo smesso di crederci
Nota a margine:
5) di quelli che, della mia cerchia, abitualmente frequentano i Festival letterari non ce n’era nemmeno uno.
Ti ringrazio