L’iniquità del mancato omaggio alle bare di Cutro, la lotta di Gkn, le truffe agli studenti: tre tappe diverse e un’unica necessità. Che c’entrano, queste cose, col lavoro culturale? Ne sono la base, invece. Giustamente Avvenire riportava qualche giorno fa le parole di Ernesto De Martino, nel 1952, quando diceva che gli abitanti più poveri di Eboli volevano soprattutto una cosa, questa: che”le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo”.
Raccontare, raccontare, raccontare. Accidenti, lo so, è poco, non ripara i viventi e non resuscita i morti. Ma intanto, e per cominciare, è questo che va fatto.
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“Meglio mostrare l’infelicità che promettere felicità. Chi fosse capace oggi di farmi toccare per mano una serie di infelicità che esistono farebbe un lavoro culturale. Chi invece mi promette per pochi euro una felicità estemporanea non fa che continuare ad appiattirmi sul presente come un rospo schiacciato sull’autostrada”.
Così Umberto Eco nel 2014. Ieri Annalisa Camilli, a proposito della strage di Steccato di Cutro, scriveva: “Non dovremmo dormirci e invece ci siamo anestetizzati, esauriti dal lutto e questo ci spinge probabilmente a pensare che la vita di alcuni sia sacrificabile”.
Lavoro culturale è, anche, risvegliarci. E magari riflettere sulle reazioni (avverse, da sinistra) all’elezione di Schlein.