Tag: lavoro culturale

Ieri pomeriggio ho partecipato a una discussione molto interessante organizzata da Pandora Rivista presso la sede di Treccani, coordinata da Giacomo Bottos, compagni di chiacchierata Paolo Di Paolo e Giorgio Zanchini. Interlocutore prezioso, Giuseppe Laterza in platea.
Occasione rara, quella di potersi confrontare allargando il campo in un momento complesso e, sì, frammentato da ogni punto di vista, dove è difficile progettare a lungo termine e dove è difficile anche trovare i luoghi dove prendersi il tempo per discutere. Il web e i social, certo. Ma servono anche i luoghi fisici. E, come scrivevo qualche giorno fa, i grandi festival si stanno orientando più verso l’enfasi del numero che verso l’occasione dell’incontro. Come, forse, era fatale.

PUGNI DI FERRO

Codice della strada. “Per quanto riguarda gli stupefacenti non ci sarà bisogno di mostrarsi in uno stato di alterazione psico-fisica, ma è sufficiente il sospetto che siano stati assunti per far scattare il test immediato: la positività comporterà la revoca della patente e la sospensione fino a tre anni”. Sarà interessante capire cosa suscita il sospetto.
Decreto Caivano. Carcere più facile per i minorenni, possibilità di vietare l’uso del cellulare con «avviso orale», in caso di alcuni reati, carcere fino a due anni per i genitori se i figli non rispettano l’obbligo scolastico, con revoca dell’assegno di inclusione.
Scuola: riportare la “cultura del lavoro” (Valditara dixit). E soprattutto voto in condotta, o meglio “dobbiamo riportare nella società valori, buon senso e serietà per evitare che il nostro Paese vada allo sfascio”.
Undici mesi fa la Presidente del Consiglio rispondeva alle non poche polemiche relative al decreto anti-rave e anti-tutto con queste parole: “è una norma che rivendico e di cui vado fiera perché l’Italia – dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte all’illegalità – non sarà più maglia nera in tema di sicurezza”.
E’ un ouroboros: parte della società è divenuta più giustizialista, la politica (e non solo le destre) cerca il consenso. Possiamo mettere anche le mani nei capelli, volendo: sarà più importante sporcarsele, e darsi da fare.

Undici anni dopo “No Logo”, Naomi Klein accetta di scrivere un articolo per The Guardian: è il 20 luglio 2011 e molte cose sono cambiate dagli anni della “bibbia del movimento no-global”. Intanto, lo slogan di L’Oreal è passato da “perché io valgo” a “perché voi valete”. In poche parole, non è il più il marchio a cercarti e a convincerti ad entrare nel suo mondo, ma ti chiede, molto democraticamente, di costruirlo.
E’ da stupidi possedere cose, diceva Tom Peters, ma le cose possiedono noi, nel profondo, proprio perchè ci appaiono “immateriali” pur potendo essere toccate e usate. Nei lunghi discorsi di questi giorni sul lavoro culturale, si torna sempre qui: cosa abbiamo capito dell’immateriale, nonostante siano passati lustri?

“Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi; oppure vuol dire che le classi dirigenti lo hanno polarizzato, senza che lui lo sospettasse, verso un’attività di lusso”.
Così Sartre, nel 1945. Certo, parole di un altro secolo. Eppure in questi tempi di solitudini e di ripiegamenti, dovrebbero chiamarci ancora a riflettere su letteratura e lavoro culturale (ancora).

A proposito di lavoro culturale. C’è un aspetto che si associa immediatamente a queste due parole ed è quello della sopravvivenza dei lavoratori della cultura. Dal momento che si avvicina il primo Festival italiano di letteratura working class (che si deve ad Alberto Prunetti e ad Alegre), e sollecitata da un articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto, vado a leggere un articolo sul Guardian di Ben Quinn, che a sua volta riporta i dati del  rapporto intitolato Structurally F*cked . Vi si legge fra l’altro che la proporzione di lavoratori culturali che provengono da un contesto operaio si è ridotta della metà.
Mi torna in mente la lectio sul giornalismo culturale che Nicola Lagioia tenne quasi un anno dopo la morte di Alessandro Leogrande: “Se era così bravo, così competente, così coraggioso, così in gamba come tutti quanti non smettono di dire, perché i grandi giornali non hanno fatto a cazzotti per accaparrarselo, salvo parlarne in termini di superlativo assoluto e lodarlo solo dopo che era morto?”
Ai mille lavori di Leogrande penso spesso, e penso anche a chi ha oggi la sua età e fa appunto quei mille lavori per tirar fuori uno stipendio, e penso ai dati del Guardian e al fatto che alle parole “ascensore sociale” parecchi farebbero spallucce, qualcuno ti guarderebbe storto e altri non saprebbero neanche cosa è.

Ho visto l’ultima puntata di The Last of Us, che prima di essere una serie televisiva è stato ed è uno dei videogiochi più belli, narrativamente parlando (mi verrebbe da usare il termine “letterariamente”, in effetti), che siano stati pensati.
Ne scrivo anche per tornare sul lavoro culturale. Perché se ormai può ritenersi assodato e raccontato il legame fra letteratura e cinema, letteratura e serie televisive, letteratura e fumetto, mi pare che si faccia ancora fatica a riconoscere non una dignità (non serve dignità, serve curiosità) ma una potenza narrativa ai videogiochi. Il lavoro culturale è questo. Capire. Aprire. Immaginare.

L’iniquità del mancato omaggio alle bare di Cutro, la lotta di Gkn, le truffe agli studenti: tre tappe diverse e un’unica necessità. Che c’entrano, queste cose, col lavoro culturale? Ne sono la base, invece. Giustamente Avvenire riportava qualche giorno fa le parole di Ernesto De Martino, nel 1952, quando diceva che gli abitanti più poveri di Eboli volevano soprattutto una cosa, questa: che”le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo”.
Raccontare, raccontare, raccontare. Accidenti, lo so, è poco, non ripara i viventi e non resuscita i morti. Ma intanto, e per cominciare, è questo che va fatto.

“Meglio mostrare l’infelicità che promettere felicità. Chi fosse capace oggi di farmi toccare per mano una serie di infelicità che esistono farebbe un lavoro culturale. Chi invece mi promette per pochi euro una felicità estemporanea non fa che continuare ad appiattirmi sul presente come un rospo schiacciato sull’autostrada”.
Così Umberto Eco nel 2014. Ieri Annalisa Camilli, a proposito della strage di Steccato di Cutro, scriveva: “Non dovremmo dormirci e invece ci siamo anestetizzati, esauriti dal lutto e questo ci spinge probabilmente a pensare che la vita di alcuni sia sacrificabile”.
Lavoro culturale è, anche, risvegliarci. E magari riflettere sulle reazioni (avverse, da sinistra) all’elezione di Schlein.

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