Le reazioni all’elezione di Elly Schlein fanno pensare. Reazioni avverse, intendo: nella mia bolla, quasi tutte da persone molto di sinistra che probabilmente contesterebbero chiunque, ma forse, più che contestare, difendono un’idea di purezza individuale e autoconsolante su cui bisognerebbe riflettere davvero.
Perché in questo caso non si tratta di memoria collettiva ma del singolo o della singola. E qui mi aggancio al tema più ampio su cui vorrei tornare.
Come promesso, sono tornata domenica sulla questione del lavoro culturale con un articolo su La Stampa (più avanti lo posterò). Qui faccio alcune considerazioni: in alcuni casi, i commentatori dei social che hanno letto solo il titolo hanno pensato (ed è accaduto anche con il primo articolo su questo blog) che si trattasse di una (giustissima) analisi sullo stato delle cose sui lavoratori della cultura. Che, ripeto, è argomento enorme, poco affrontato nonostante tutto, e che non ci allontana molto dai tempi di Bianciardi: o forse, addirittura, la situazione è peggiorata, perché sono aumentati i lavoratori e le retribuzioni sono crollate (qui trovate un articolo di Chiara Sgreccia, qui uno di Silvia Andreozzi, qui un’inchiesta del Venerdì sul dopo-Bianciardi).
Le mie intenzioni, però, sono un po’ diverse: perché quel che a mio parere va chiarito è il concetto stesso di lavoro culturale. Capire, cioé, cosa significhi, quanto incida e per quanto tempo quel lavoro culturale nel discorso pubblico. Per esempio, a metà marzo esce per Laterza un libro dello storico Giorgio Caravale, Senza Intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni. Dalle premesse, Caravale analizza proprio la marginalizzazione degli intellettuali, l’idea ormai affermata che la politica e la società possano fare a meno di loro, a differenza di quanto avvenuto in passato, affidandosi invece a quelli che sono chiamati “competenti” o agli influencer. E mi chiedo se basti. Perché, come scriveva Franco Fortini, “quella umana è una specie che si definisce dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé. In essa, identificarsi con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è un atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed è allegoria e figura di coloro che saranno.”
Sull’articolo uscito domenica mi sono occupata soprattutto di permanenza: ovvero, di quanto i discorsi che intraprendiamo sulla cultura, e intendendo per cultura le discussioni che riguardano non solo i libri, ma il vivere insieme, e il pensare e agire insieme, restino.
La risposta è: poco.
Sulle decine dei migranti morti a Steccato di Cutro, Annalisa Camilli scriveva ieri:
“Si tratta di una strage che era purtroppo ampiamente prevista perché da ieri il tempo era in peggioramento, mentre le partenze dalla Turchia, dalla Tunisia e dalla Libia non si sono fermate mai, neppure nel pieno dell’inverno, nonostante la militarizzazione del Mediterraneo, gli accordi con Tripoli e con Ankara e l’assenza di navi di soccorso.
“La funzione di ogni cultura è quella di produrre una crescita collettiva. Tale crescita però, pur nella piena libertà di espressione (altrimenti si parla di dittatura, non di vera cultura), si articola sempre come una critica continua della presa di parola altrui.È il modello ideale del dialogo socratico: uno si alza e dice la sua, poi l’altro, che sia il maestro o l’amico o chiunque altro, si alza e a sua volta manifesta il suo dissenso, e così via. Questo, beninteso, vale per la società come per gli individui: anche la cultura personale ha bisogno di critica. Ai giovani scrittori, ad esempio, sconsiglio sempre di sperare in una prima pubblicazione arrivata dal nulla: bisogna prima mettersi alla prova, farsi conoscere, intervenire nel dibattito locale, ascoltare le opinioni, cambiare pian piano il proprio modo di vedere, pensare e scrivere, finché un bel giorno sarà l’editore stesso a chiederti di pubblicare un libro.
La cultura, insomma, è un’alternanza continua tra la libera presa di parola e la critica di questa presa di parola. Quello che sta accadendo col web, invece, è che si sta idolatrando l’ideale della assoluta presa di parola, senza alcun controllo da parte degli altri”.
“Il problema è che assistiamo a un’enorme crisi della memoria collettiva. Basti pensare ai quattro giovanotti che qualche tempo fa, durante un quiz televisivo, interrogati su un episodio della vita di Mussolini, non sapevano in alcun modo in quale epoca collocarlo. Nessuno ricordava più che era morto nel 1945! Ora, non è che le generazioni precedenti sapessero la data esatta della morte di Napoleone, ma certo sapevano grosso modo collocarla rispetto alla spedizione di Garibaldi o all’inizio della seconda guerra mondiale.
La memoria collettiva, però, entra in crisi perché entra in crisi anche il gusto della memoria individuale. Chi non sa quando è morto Mussolini probabilmente non è interessato a ricordare neppure quello che ha fatto l’estate scorsa. Né a maggior ragione gli importa sapere quello che è accaduto ai suoi genitori o ai nonni”.
“Ecco: si sa benissimo come ridurre l’infelicità, ma non si sa affatto come produrre felicità. Basare tutto sull’offerta di felicità, quindi, è un estremo inganno, perché ci blocca nell’eterno presente, nella soddisfazione del momento, nel tepore egoistico della coperta di Linus, qualcosa che può dare felicità a me e solo a me, oggi e probabilmente solo per oggi.
Così anche per la comunicazione: meglio mostrare l’infelicità che promettere felicità. Chi fosse capace oggi di farmi toccare per mano una serie di infelicità che esistono farebbe un lavoro culturale. Chi invece mi promette per pochi euro una felicità estemporanea non fa che continuare ad appiattirmi sul presente come un rospo schiacciato sull’autostrada”.