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Nel mondo culturale ed editoriale italiano riverberano le stesse questioni generali che riguardano tutte e tutti. Il classismo, certo: anche inconsapevole, ma non per questo meno forte.  La disuguaglianza, certissimo. La solitudine e la fragilità, ovvio.
Ma restiamo sul mondo culturale. Perché mi sembra interessante che si parli qua e là di casi singoli e non del sistema, che è avvelenato da un bel pezzo. Mi perdonerete se cito per l’ennesima volta Mark Fisher, che parlava di una cultura soffocata da finitezza e sfinimento, perché oppressa, da un bel po’ di lustri, dalla “creazione di valore” e dalla dimenticanza del passato, che ci costringe a vivere in un “presente permanente”.
La depressione, scriveva, è il sintomo.  Anzi, “la depressione è il lato oscuro della cultura dell’autopromozione”: “L’attuale ontologia dominante esclude categoricamente ogni possibile causa sociale della malattia mentale”. 
E viviamo in un mondo infestato dall’immobilità: nella sua idea di Hauntology, degli spettri dell’online che schiacciano il mondo reale, tutto peggiora. Se si deve produrre valore, e subito, non possiamo più ragionare di futuro, ma ci muoviamo fra competizione, narcisismo e individualismo. 
Non è una novità, ma certamente. Però ce lo dimentichiamo, ogni volta che dobbiamo denunciare o protestare: non è una singola realtà a essere preda dei fantasmi e dell’ansia di “valore”, qualunque sia il significato che affidiamo a questo termine. E’ tutto. Mondo culturale compreso, o forse per primo: e la caduta delle vendite, affiancata all’iperproduzione e alla rapida sparizione delle novità librarie, sta cominciando a mostrare il volto del fantasma che abbiamo ignorato.

Arriviamoci per gradi, partendo da molto lontano.
Il punto di arrivo è evidentemente la bassissima affluenza (fin qui) ai referendum, che darà il via a milioni di analisi politiche più o meno argute. Non essendo una politologa, ma una semplice osservatrice, riprendo il mio vecchio discorso sul disincanto e sullo scivolamento dei piani di realtà. Le mie amiche più giovani sono sconfortate (e pure io, naturalmente) perché ritenevano che un discorso sul lavoro e sulla cittadinanza riguardasse tutti: così sarebbe se moltissime persone non rimanessero chiuse nella propria bolla, convinte che sia meglio non muoversi da là per non farsi male.
Il punto è che se scambiamo i reel su Gesù che fa miracoli per diffusione della fede (mentre invece si devono a venditori di magliette) e i referendum come qualcosa che non ci riguarda, abbiamo un serio problema. “Molto semplice, non ci penso”, diceva Mark Fisher in Realismo capitalista.
Essendo una persona fiduciosa, credo che prima o poi ricominceremo a pensarci e che svilupperemo una consapevolezza tale da riuscire a distinguere cosa è importante e cosa no, e anche a non scambiare venditori di cappellini per diffusori della buona novella e politici che non sono in grado di formulare un progetto per politici veri. Ci vorrà un sacco di tempo, probabilmente, ma accadrà.
Nel frattempo, potete votare fino alle 15, sappiatelo.

E’ che sono stata abituata male.
Sono stata abituata a credere nell’intelligenza dei gruppi, nella diverse età della mia vita. E ho potuto far parte più volte di gruppi luminosi per intelligenza: nella mia giovinezza, al tempo del partito radicale, negli anni Novanta, quando ho conosciuto gli attuali Wu Ming, negli anni Zero, quando ho conosciuto scrittori e scrittrici che sono ancora fra le mie amicizie. Uno su tutti, morto esattamente tre anni fa, era Valerio Evangelisti, che è stato davvero un compagno di via indimenticabile, non solo come autore, ma per  lo sguardo ai deboli, ai non garantiti, ai contadini, a coloro cui abitualmente non si guarda.
Ho potuto farlo, ancora, negli anni Dieci, con l’avventura magnifica del Salone del Libro insieme a Nicola Lagioia e al gruppo editoriale, quando non si trattava solo di metter su un programma ma di immaginare qualcosa di diverso da quanto si era conosciuto fino a quel momento.
Ecco, con tutte queste storie alle spalle e peraltro ancora vive nel presente, proprio non riesco a capire come si possa mettere insieme pensiero politico, e letterario, e giornalistico usando l’arma  della delegittimazione. Davanti a questa sempre più ampia tendenza, mi viene in mente ancora una volta Mark Fisher, quando parlava di salute mentale e diceva che “la depressione è il lato oscuro della cultura dell’autopromozione”. Credo sinceramente che siamo tutte e tutti, se non depressi, nella terra che lambisce la depressione stessa. Perché “la nostra immaginazione”, ha scritto Fisher in The Only Certainties are Death and Capital, “è ancora dominata (o stordita) dal lavoro che emerge da questa mistione dopata di edonismo, cinismo e pietà che hanno governato l’arte e la politica negli anni Novanta e nei primi anni Zero”.
E come se ne esce? Lo diceva proprio Evangelisti: costruendo un immaginario attraverso le storie, che ci aiuti a “evadere dai sogni imposti ed eterodiretti”. Sognando un altro sogno, insomma.
Dovremmo, tutte e tutti, essere consapevoli di questa possibilità che è anche una responsabilità. Anche quando scriviamo un post. Anche quando commentiamo. Ogni volta che prendiamo parola pubblica e sprechiamo l’occasione, contribuiamo a quel cinismo che ci sta schiacciando da anni.
E Buona Pasqua.

Certo che conta la resistenza a votare per una donna (a meno che non sia “materna” come si è proposta da noi Giorgia Meloni). Certo che conta la paura e tutto quel che si sta dicendo.
Conta anche qualcos’altro: ovvero, combattere Sauron usando l’anello (e due).
Me lo ha ricordato ieri un caro amico, inviandomi questo reportage di Gary Younge di otto anni fa, quando Trump venne eletto per la prima volta: reportage usato da Mark Fisher nelle sue ultime lezioni. E che dovrebbe farci capire che abbiamo bisogno di reinventare (una politica diversa da questa) e reincantare (altre parole, altre narrazioni). E agire, ovvio.
“La gente ha maturato la convinzione di non avere voce in capitolo su ciò che sta accadendo alle loro vite. Ecco perché lo slogan “Take Back Control” ha avuto tanto successo durante il referendum sulla Brexit. Lo Stato nazionale è ancora la principale entità democratica, ma data la portata della globalizzazione non è più all’altezza del compito di soddisfare le esigenze dei suoi cittadini. Gli elettori vedono persone che attraversano confini che non possono chiudere, vedono perdere posti di lavoro che non difendere e si chiedono come possono farsi valere nel mondo.
Trump e i suoi omologhi sono spesso descritti in Europa come una minaccia alla democrazia. Ma in verità sarebbe meglio vederli come il prodotto di una democrazia già in crisi.”

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