Questa mattina, sul New York Times, ho letto un articolo di Maura Kelly che racconta prima le ansie e poi la gioia del suo trasloco. Non avrai solo una casa, ma un quartiere, le aveva detto l’agente immobiliare. Da quarant’anni, nella sua strada, i vicini organizzavano un pizza party al mese, con l’unica raccomandazione di contribuire con cibi semplici, per dare la possibilità di partecipare a chi aveva meno disponibilità economiche. La scrittrice era terrorizzata dall’idea di dover necessariamente far parte di una comunità. Anche se, racconta, aveva letto Bowling Alone di Robert Putnam ed era consapevole della disgregazione delle medesime e dell’isolamento dei singoli, almeno negli Stati Uniti, e non solo. I vicini sono invadenti, i vicini sono un incubo, voglio starmene in pace, sbotta.
Cambierà idea, ma tutti abbiamo bisogno di un quartiere. Me ne sono resa conto per l’ennesima volta ieri mattina alla Libreria Ubik Prenestina.
E, librerie a parte, abbiamo bisogno di un quartiere.
Ne abbiamo bisogno noi che scriviamo e leggiamo, per incontrarci, conoscerci, parlare, capire cosa ci accade intorno anche attraverso i libri, e questo è qualcosa che nessuna grande manifestazione culturale potrà darci, perché in ognuna di queste occasioni, pur belle e importanti, ci si limita a sfiorarsi e a salutarci da lontano, quasi sempre.
Ne abbiamo bisogno noi che siamo sconcertati e angosciati da quanto accade in questo tempo, e non è vero che i social vecchi e nuovi suppliscono: lo fanno per un po’, e in parte, ma alla fine dobbiamo ritrovarci, parlarci, abbracciarci anche (e perché la rievocazione del trauma di cinque anni fa non parla di questo? Non ci siamo potuti abbracciare, per mesi e mesi).
Se ci sarà una rivolta culturale partirà da qui. Altri, come i Wu Ming, lo fanno da anni. Stare insieme. Avere un quartiere in dono. Creare quartieri. Esserci.