TERRITORI: SULLA PROTEZIONE, SULLA LIBERTA'

Protezione. Proteggere. Difendere.
Da qualche giorno queste parole, e il concetto che vanno a indicare, non mi lasciano. Va bene, negli ultimi diciotto mesi le abbiamo sentite spesso. Non dimenticate le protezioni. Proteggetevi da. State a casa. Io resto a casa. Difendetevi. Ma l’idea stessa di protezione va al di là della pandemia, era nell’aria da prima. Qualche giorno fa l’ho accennata in un post, questa differenza suggerita da un vecchio amico, Claudio Maria Mori, quando ricordava che i movimenti (delle donne, degli omosessuali), sono nati da un’esigenza di liberazione e non di protezione. Ricordarlo non significa svalutare le rivendicazioni e le lotte di oggi, anzi. Ma cercare di capire quale insidia si nasconde dietro questa idea.
Quando viene uccisa una donna, quell’idea torna sempre.
Protezione. Proteggere. Difendere.
E’ qualcosa spesso di inconsapevole, che spinge, specie da parte maschile, a usare quella parola. Ti proteggo io. Dal male che gli altri possono farti. Dalle tempeste del mondo. Dalle parole cattive. Dalle avversità.
Proteggere, nelle intenzioni di chi scrisse il decreto legge sul femminicidio diversi anni fa, significava immaginare lo Stato pronto a reprimere la malvagità che colpiva le donne. E non, invece, a porre le condizioni affinché non si ripetesse più quello che si è ripetuto e si ripete.
Non c’è bisogno di protezione.
C’è bisogno di consapevolezza.
Riguardate, per favore, Comizi d’amore. La parte in cui, in quel 1963, Pasolini intervista un uomo calabrese che gli spiega, pazientemente, che il divorzio non va bene in caso di corna, perché le corna, una volta che le hai, non te le toglie nessuno. L’omicidio, invece, “lava il disonore”, quindi è preferibile. Si usa così, gli vien detto. Le donne han da essere vergini. E’ gelosia. “Lei pensa che sarà sempre così?”, chiede Pasolini. Sì, sempre così, è la risposta.
Io non voglio essere protetta. Non voglio che mia figlia sia protetta. Voglio che abbia, che abbiamo, e che i giovani uomini e anche quelli meno giovani abbiano, gli strumenti per capire. Voglio che i giovani uomini e anche quelli meno giovani si rendano conto che non devono ergersi a cavalieri difensori per obbligo, perché già questo significa allontanare da sé il problema, dire che è faccenda che non riguarda tutti, e invece riguarda tutti.
Vorrei anche che quegli strumenti non cedessero alla facilità, al trend, alla battuta, alla tentazione di vendibilità, come sto in effetti ripetendo da troppo tempo. So che le epoche sono diverse, non paragonabili. Eppure, se devo esprimere un desiderio, è ancora un desiderio di libertà, e non una possibile gabbia.
E vorrei che chi è adulto imparasse, una volta per tutte, proprio a liberare e non a proteggere, o almeno non sempre.
C’è un vecchio racconto di David Leavitt, contenuto nella raccolta che gli diede il successo (Ballo di famiglia), che si chiama Territorio, e che è pieno di amore e sgomento verso la madre del protagonista, che somiglia molto alla madre reale di Leavitt, quasi onnipresente nella prima parte della sua produzione letteraria. In Territorio abbiamo dunque la madre delle madri: quella che cucina torte e biscotti e che, quando il figlio le confessa di essere omosessuale, si iscrive immediatamente all’associazione genitori di figli gay, e diviene attivista instancabile. Una madre onnipresente e dunque, anche, terribile, che non può che suscitare, insieme all’amore e al rimpianto, il desiderio di fuga. Perché questa “quintessenza di una madre” non può che schiacciarti.
Mi piacerebbe che i territori venissero rispettati. Anzi, che non esistessero più. Buon week end (e buon compleanno, figlia).

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