GUARDARE CASE, RACCONTARE LUOGHI PICCOLI

Ho scoperto stamattina che anche io sono vittima del “property porn”, che altro non significa se non visualizzare gli annunci immobiliari e guardare fotografie delle case in vendita. Pare che sia una caratteristica molto comune,  simile al “food porn” di cui siamo stati e siamo tuttora cultori quando ci soffermiamo sulla foto di un piatto di spaghetti con le vongole o di una torta o di una frittatona con le erbe. Secondo quanto riportano i giornali, esiste anche uno studio secondo il quale un italiano su tre si dedica al vizietto: non necessariamente perché sta cercando casa, anzi, ma per fantasticare su abitazioni bellissime, o dimore affacciate sul mare. Per quanto mi riguarda, mi soffermo sulle case di campagna: quando ho qualche minuto di pausa, lo confesso, passo in rassegna casali e ruderi, villotte e villone, con camino o con riscaldamento a pellet, con uliveto o senza. Ma non ho nessuna intenzione di cambiare casa o di acquistarne una: guardo, immagino, cammino per un po’ tra quei giardini – tutti curatissimi, nelle fotografie – ammiro le piastrelle della cucina, sbircio dalle finestre.
Scoprire che non sono sola a sbirciare, mi dà da pensare. E’ cambiato il significato che diamo alle case in questi diciotto mesi? Naturalmente sì, dal momento che ci abbiamo trascorso quasi tutto il nostro tempo di vita, mentre prima, almeno in molti casi, la casa era la cuccia, la tana, il posto dove arrivare la sera, un po’ pesti per la stanchezza e il traffico e le metropolitane, o da cui uscire il più presto possibile per esplorare la notte con gli amici e gli amati.
Naturalmente passerà, e passerà anche a me. I comportamenti, nel momento in cui vengono trasformati in indagine e in articolo, cominciano ad affievolirsi. Quella che secondo me non passerà è la tendenza, e questa volta parlo di narrativa, a esplorare i luoghi piccoli, i borghi e i villaggi e i paesi, paesini, paesotti. Non parlo tanto dell’Italia, dove la narrativa mi sembra ancora molto metropolitana (per lo più).  Penso agli autori che lo fanno da sempre. Penso ad Alice Munro, a King, che raccontano luoghi piccoli. Circoscritti, insignificanti, dove però si può cogliere la geometria dei legami, e naturalmente gli amori e le invidie e i rancori e le rabbie e gli orrori e le meraviglie di una famiglia, di una scuola, di un piccolo quartiere. In fondo, e ce ne siamo resi conto in questi mesi, siamo ancora fatti di questo: una famiglia, orribile o amatissima che sia, una scuola, un quartiere, una piazza. In un luogo piccolo è più facile non solo vederlo, ma riconoscerlo. E non tanto perché le città da ultimo tendono a somigliarsi tutte, gli stessi marchi di abbigliamento, gli stessi anfratti che offrono cibo (sempre uguale peraltro: quelle patatine, quegli hamburger, quel kebab, ma anche quell’insalata di farro o quel gelato presunto artigianale), qualcosa al cui confronto i vecchi non luoghi di Augé impallidiscono. Gli scrittori e le scrittrici, incluso Stephen Markley di Ohio, o Tiffany McDaniel, tornano o continuano a raccontare il piccolo, il minimo, i campi di soia o di mais o di radicchio o di lenticchie, le fattorie e le botteghe e i negozietti sfigati, proprio perché le modalità delle relazioni umane sono identiche, nonostante tutto. Però quando si racconta di quei luoghi piccoli si può provare a scardinarne i confini, e vedere quello che abitualmente non si vede, perché il contrasto è proprio qui, fra il consueto e l’inenarrabile, o così amo pensare che sia.

Un pensiero su “GUARDARE CASE, RACCONTARE LUOGHI PICCOLI

  1. …e se ti citassi un certo Sir Alfred Hitchcock e quel suo certo film da noi intitolato “La finestra sul cortile”!? Siamo umani, ci piace osservare gli altri credendo di non essere osservati a nostra volta… è il meccanismo del “Grande Fratello” televisivo, in fondo.
    Mi dirai che in questi casi ci si riferiva alle vite o ai gesti delle persone. Beh, credo sia trasferibile mutatis mutandi anche agli oggetti sui quali si immaginano delle vite e tanti gesti di altrettante persone.

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