TWIST AND SHOUT AND GABER

“No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo”.
Certo, sono le frasi conclusive di “Qualcuno era comunista” di Giorgio Gaber, celebrato ieri sera da Rai Tre con colpaccio a effetto (Veltroni e Bertinotti cantano, o meglio declamano,  insieme a Paolo Rossi). Niente rimpianti, diceva Gaber: e invece l’idea generale era proprio quella del rimpianto, con una vena epica (eravamo forti e tanti e volevamo cambiare il mondo, shake it up baby) che all’ascoltatrice distratta  quale io sono sembrava fuori luogo. Mio figlio ha diciotto anni ed è un grande appassionato di Gaber, e di questa canzone: la trova piena di dolore, e pur non avendo vissuto gli anni in cui alcuni erano comunisti, ma avendo percezione di quante miserie in un corpo solo ci siano in giro, ha perfettamente ragione.
Comunque, non ci si poteva attendere molto di diverso da un tipo di celebrazione che, come diceva un geniale commentatore su Facebook, avrebbe reso innocui anche i Sex Pistols.  Non è questo il punto. Semmai, quell’interpretazione ha suscitato altre domande, altre considerazioni:  una su tutte, sulla facilità con cui i movimenti e le utopie e i qualcuno era dei giorni nostri si formano, si impennano e spariscono, senza che l’onda di riflusso abbia cambiato molto. Insomma, mi sono detta, è stupido prendersela tanto con i filoni editoriali che cannibalizzano un genere di momentaneo successo moltiplicandone i cloni e  rendendo lo stesso filone sterile e inutilizzabile neanche ci fosse sparso sopra il sale, e poi non accorgersi che avviene la stessa cosa per i movimenti politici.  Incluso quello delle donne, per dirne una.
Quanto alto e quanto a lungo devono volare, i benedetti gabbiani, per evitare di diventare inefficaci o tristemente celebrativi?
Come on and work it all out, baby.

9 pensieri su “TWIST AND SHOUT AND GABER

  1. forse perché abbiamo questo mito delle utopie e delle rivoluzioni e dei movimenti. Io magari la vedo in maniera troppo ottimistica e non ho abbastanza conoscenza storica, però parlando di donne la situazione mi pare nettamente migliore rispetto alle mancanze di prima. Penso al volumetto “le italiane si confessano” oppure al fatto che mia madre da ragazza avrebbe voluto fare l’università, ma aveva paura e non poteva essere incoraggiata dai suoi, in fondo ignoranti.
    Ne “Il grigio” Gaber ha due visioni dell’uomo: Bisognerebbe essere capaci di tirar fuori l’intolleranza e il disprezzo che dovrebbe avere un Dio che guarda”; e quella finale: “Sì, quell’uomo è tutto. Bisognerebbe essere capaci di trovare la consapevolezza e l’amore che dovrebbe avere un Dio che guarda”.

  2. Leggendo il post ho pensato ad uno scritto di Marx: Tesi su Feuerbach.
    Io credo che in passato ci sia stata l’ illusione idealista di poter cambiare il mondo con la “forza” del pensiero. Si sono create delle “isole” più o meno grandi in cui si discuteva e si cercava di applicare ciò in cui si credeva, illudendosi di trovare sostentamento, anche economico, da più o meno “benevoli” borghesi o da capitalismi di stato travestiti da comunismo. Ma questo non può funzionare in una società interamente basata sul profitto. Allora credo sia il momento di domandarsi come debba cambiare il modo in cui si lotta. Io sono convinto che il pensare debba sempre più essere legato al fare e debba sempre essere rivolto ad una diimensione sovranazionale, prescindendo dallo stato e dalla sua politica parlamentare. Io credo che i partiti parlamentari non servano ai rivoluzionari, e nemmeno ai sindacati e ai movimenti femminili.

  3. Certo, mentre mi estasiavo di Veltroni e Bertinotti sentendomi dentro esattamente come quando andavo alle manifestazioni con tutto il peso della simbologia (ebbene sì, Loredana, lo sai che non me ne potrò/vorrò mai liberare…) del pugno chiuso, l’altra me comunicatrice sapeva perfettamente che era qualcosa di patetico, fatto apposta perchè quello era il momento per mandare qualcosa di patetico.
    I movimenti, i filoni editoriali, le mode e finanche i tentativi di elaborare un pensiero “si formano, si impennano e spariscono”. E non è neanche più postmoderno tutto questo.
    Allora mi domando se invece (per quanto con tutti i limiti del dover piacere ai più e dell’essere forzatamente effimeri) non siano proprio le celebrazioni a poter fermare questi pensieri sempre più volatili. Celebrazioni fatte, magari, con minore superficialità, più documentazioni che celebrazioni. Del resto viviamo di immagini, seminiamo e raccogliamo immagini, dunque lasciare l’immagine di qualcosa altrimenti già cancellato, non è rimpianto, ma potrebbero essere gabbiani efficaci.

  4. Il problema delle utopie e dei pensieri è che raramente li trovi espressi altrimenti che con il linguaggio. E quello fa brutti scherzi: c’è gente che s’è fatta massacrare in parecchie rivoluzioni per darci quel sistema politico che adesso ci fa tanto schifo. Di questi tempi le parole “partito”, “politico” e derivati le pronunciamo come pronunciamo “merda” (e derivati), ma ci sono stati anni nei quali facevano brillare gli occhi a parecchi rivoluzionari. Allora?
    Non so con quali parole provocare una Bastiglia, né con quali parole invitare a continuare a resistere e cambiare le cose ‘da dentro’, senza stragi o distruzioni. A volte le trovo nei romanzi o nelle poesie – gli unici luoghi liberi nei quali quelle parole possono nascere e diffondersi – e capisco subito che fuori sarebbero fraintese, raggirate, contorte per chissà quali scopi. Ma dire di fare la rivoluzione con un romanzo o una poesia è un’utopia.
    Eppure mi pare che, sia per fare che per raccontare le rivoluzioni, romanzi e poesie funzionino meglio dei libri di storia e della cronaca politica. Mi tengo questa utopia, ne parlo con più persone possibile, agisco come m’ispirano quelle parole – la mia piccola quotidiana rivoluzione.

  5. Ho notato che pure i ragazzini snocciolano tranquillamente frasi da vecchi carampani tipo: “era meglio una volta, non è più come una volta, era meglio prima”, puo’ far ridere ma è piuttosto inquietante. C’è voglia di conservatorismo, magari spacciato come progresso e novità.
    Riguardo l’anticelebrazione, trovo interessante la terza età punk che si sta inventando Vasco Rossi, il nuovo singolo è un inno divertito all’essenzialità e al non prendersi sul serio, con un video che sembra fatto in powerpoint (un tempo se li faceva girare da Polanski).

  6. Mi aspettavo uno speciale, è stata una serata di cover, peccato. La peggiore proprio quella di cui si parla qui, che io vidi (forse in prima assoluta) nel 1992 all’Eliseo a Roma, da brividi. Già Paolo Rossi era una scelta disastrosa, Veltroni e Bertinotti un vero scempio. Uno o due anni fa ho visto invece lo spettacolo di Neri Marcorè, mooolto bello. Ma poi Luporini l’ha fatto parlare?

  7. in tempi dove l’autocritica non è un genere molto praticato forse la presenza di due campioni del mondo tra quelli bravissimi a farci perdere tempo accompagnati da un gran comico forse finalmente consapevole che si può essere sempre i più bravi a far scompisciare dalle risate un pubblico senza riuscire a influenzare minimamente la realtà è da considerarsi un’esperienza catartica.Un’installazione umana da esporre a qualche biennale
    http://multimedia.quotidiano.net/?tipo=media&media=32321

  8. “da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana”: quando riusciremo ad affrancarci da cotanto squallore?

  9. constato che ho visto unicamente i cinque minuti più disgustosi della trasmissione.
    peccato che di comunisti, fra quei tre, non ce ne era neanche uno a impersonare un pensiero minimamente critico che coerentemente che non si presta a opere di santificazione

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