«Quando hai smesso di credere in Dio» continuò Will, «hai smesso di credere al bene e al male?»
«No. Ma ho smesso di credere che ci fossero una forza del bene e una forza del male fuori di noi. E sono giunta alla convinzione che bene e male sono nomi per ciò che fanno le persone, non per quello che sono. La sola cosa che possiamo dire è che questa è una buona azione perché aiuta qualcuno, o che quest’altra è cattiva perché fa male a qualcuno. Le persone sono troppo complesse perché le si possa etichettare».
E’ un passo da “Il cannocchiale d’ambra” di Philip Pullman, tra i più grandi scrittori contemporanei: la trilogia “Queste oscure materie” andrebbe diffusa ovunque. Ma, sì dirà, è per ragazzi. Eppure, la letteratura non funziona per anagrafe. In questo caso, pone le stesse grandi questioni che dovrebbe porsi sempre.
Un po’ di corsa, ma domani ci torno.
In effetti anche la legge giudica le azioni concrete (reati), non l’animo umano.
Sono d’accordo con Pullman. Le etichette non mi sono mai piaciute, neanche quelle di buono e cattivo. E questo da quando vidi il film di Leone.
Ma a tante persone piacciono le etichette, perché fanno prima.
Sono una scorciatoia del pensiero, e oggi anche delle relazioni. Sei così, sei colà. Che poi spesso l’etichetta fondamentale è “Come me”, “Non come me”.
E la cosa peggiore di tutto questo, è l’algoritmo delle etichette.
Ossia, “Se sei così, allora devi anche essere così, e quindi io e te saremo contro” (oppure assieme).
Sono d’accordo su Pullman! Aspetto che torni sull’argomento.