UNA PAGINA CULTURALE DEL 1993

Spin-off. Ma certo che bisogna diffidare di ogni ideologia che si insinua nella letteratura, ma certo che applicare a freddo uno schieramento, un messaggio, un “ismo” raffredda e svilisce. Eppure, la letteratura si nutre del mondo che ha intorno, e quel mondo bisogna guardarlo, sempre.
Chiuso lo spin-off (su Harold Bloom, ovviamente), ecco il regalo. Che è per Andrea Angiolino, il prezioso giocologo (i giochi li inventa e di giochi scrive) che ha ripescato un vecchio articolo (in foto) della sottoscritta per Repubblica. Era sui giochi di ruolo. Ricordo perfettamente dove e come l’ho scritto: in una stanza d’albergo di Firenze, il primo Capodanno di mia figlia, tutti in trasferta perché mio marito recitava al Verdi nella compagnia di Massimini. Carlotta bambina nel lettino pieghevole, io davanti al capostipite di quelli che sarebbero diventati infiniti portatili consumati dal tempo. Era il 6 gennaio 1993. Lo riposto come piccolo dono per Andrea e per voi, lettori del blog, che sto trascurando perché sono sempre in giro: domani diretta Fahrenheit dalla Festa del cinema, venerdì a Rimini per Ad Alta Voce, domenica a Palestrina per il premio L’albatros Città di Palestrina. Poi mi farò perdonare, promesso.
Draghi, naturalmente, e in numero preponderante: vermigli o color oro, provvisti di ali e del tradizionale binomio vapori sulfurei-fuoco divoratore da emettere dalle fauci. E poi sfingi, zombi, vampiri, licantropi, scheletri, orchetti, folletti, babbuini, coboldi, arpie, nonché vermi-iena, pipistrelli giganti, cobra sputanti, vipere butterate e tafani predatori; e poi amebe paglierine, fanghiglia verde, fungoidi luridi, cubi gelatinosi (misura 3x3x3); e per finire metallari, skinheads, ex agenti del Kgb, burocrati e arrampicatori sociali.
S’ inganna chi pensa al grossolano catalogo del Male compilato da un bambino, perché questa è invece la miniatura in negativo della cultura di fine millennio: ovvero la parzialissima lista dei Mostri Virtuali, gli avversari contro cui, ogni settimana, centinaia di migliaia di italiani dai dodici ai trentasette anni misurano le proprie forze; credendo, o fingendo di credere, che queste creature orribili fino a sfiorare la comicità siano entità reali. Del resto, lo scopo ultimo dei sempre più diffusi giochi di ruolo è esattamente quello di simulare la vita, rappresentandola attraverso l’ immaginazione e la parola anziché astrarla con carte e scacchiere. Il corredo per un role-playing game è minimo: un set di dadi e un libro di istruzioni è di supporto alla creazione dello scenario della partita, per lo più medievalfantastico come nel, fin qui insuperato capostipite, Dungeons and Dragons (grossomodo, sotterranei e dragoni), diciannove anni di successi e di avventure in oscuri cunicoli che nascondono mostri e tesori. Si sogna in gruppo: i giocatori, riuniti attorno al tavolo, recitano la propria parte (non a caso la traduzione di role-playing game è “teatro della mente”) identificandosi in guerrieri, nani, elfi, maghi, e agendo sulla base delle indicazioni fornite dal conduttore del gioco, il Master, che applica le regole e interpreta la parte dei Mostri. Una vera e propria recita a soggetto (modificabile grazie alla continua pubblicazione di “espansioni”, arricchimenti del gioco-base), dove il caso è rappresentato dal lancio dei dadi, grazie ai quali si stabiliscono le caratteristiche dei personaggi (le “abilità”, ovvero le virtù di forza, intelligenza, magia, che consentono di affrontare con maggiore o minore successo una determinata azione) e si risolvono i combattimenti.  Tutto è consentito, purché i protagonisti restino fedeli all’Allineamento Morale deciso in partenza, e che li definisce come Legali, Caotici o Neutrali, ovvero buoni, cattivi e indifferenti: un pizzico di puritanesimo americano in un mondo curioso che si pone fra Tolkien e McLuhan, con un occhio al Walhalla e uno ai test attitudinali. “E che ha rivoluzionato radicalmente il gioco di società”, dice Luca Giuliano, sociologo, autore di giochi e di due libri sul role-playing game editi dalla Proxima, In principio era il drago e La maschera e il volto. “La grande novità, soprattutto in una società che tende all’eliminazione delle differenze, è quella di aver dato un’ identità al soggetto giocante, trasformandolo da anonima pedina sul tabellone in un personaggio complesso e destinato a evolversi sempre di più nel corso delle partite. Seconda innovazione, il recupero dell’ idea di festa in senso antropologico, con la creazione di gruppi di giocatori che agiscono senza competizione, con l’ unico obiettivo di partecipare ad avventure e conquistare tesori. Il gioco di ruolo è un sogno condiviso”.
A crederci sono, in Italia, circa quattrocentomila giocatori, secondo la stima di Paolo Spetia di “Strategia e Tattica”, il negozio romano che fa da punto d’ incontro per appassionati e partecipanti ai tornei nazionali di Dungeons and Dragons (le iscrizioni per il 1993 si aprono in questi giorni). In maggioranza giovanissimi (secondo una recente ricerca di Luca Giuliano e Alessandra Areni, il 52 per cento ha meno di diciannove anni) e maschi (il 92,6), i giocatori sono muniti di un proprio linguaggio, di una propria cognizione del tempo (il tempo “vissuto” in un’ avventura è diverso da quello reale), di proprie riviste (Excalibur, Kaos, Rune, Orcs do it better) da cui trarre nuove espansioni e cui porre quesiti (mangiare bava di mostro ucciderà i giocatori?). Insomma, un universo a sé. “Ma sarebbe un errore pensare alla solita moda da teen-agers – avverte Roberto Maragliano, docente di metodologia e didattica alla Terza Università di Roma – Dungeons and Dragons ha quasi vent’ anni, e in quest’ arco di tempo ha coinvolto più di una generazione. Venendo meno i confini fra soggetti distinti, miscelandosi i mercati, il gioco di ruolo si rivela perfetto per l’ adolescente che vuole diventare adulto e per l’ adulto che vuole restare adolescente. Sempre che si condivida una tesi alla Piaget che vede nel gioco uno stadio della crescita. Ma Dungeons and Dragons è qualcosa di più: è una versione ludica del pensiero debole”. Esagerato? No, se si accetta il principio secondo cui la maggior parte dei giochi rispecchia, rimpicciolita, la cultura del momento: e secondo cui non è audace l’ accostamento fra la filosofia del postmoderno di Lyotard e la moda dell’ autoblob con le videocassette, fra il Karaoke e Walter Benjamin, fra la Bella e la Bestia e la realtà virtuale. “Il gioco è, al tempo stesso, fuga dal reale e chiave per penetrarlo”, spiega Maragliano. “Al contrario, ad esempio, degli scacchi, che simboleggiano una filosofia della combinatoria sempre controllabile e dove, sia pure con fatica, si arriva ad ultimare la partita, nei giochi di ruolo l’ avventura può non terminare mai. Questo presuppone l’ accettazione dell’ impossibilità di una conoscenza profonda. Una crisi dei fondamenti, insomma, come nelle scienze del nostro secolo, le matematiche non finite, i frattali, la geometria non euclidea. E allo stesso modo in cui il bambino dell’ Ottocento usava il gioco dell’ Oca per un approccio lineare con la realtà, allo stesso modo in cui il piccolo borghese prendeva contatto con le dure regole dell’ economia grazie al Monopoli, così il soggetto postmoderno prende coscienza del caos del reale grazie a Dungeons and Dragons”. Valenze di cui, probabilmente, poco sapevano i creatori del gioco, gli americani Dave Arneson e Gary Gigax, che nel 1974 raccolsero l’ eredità del gioco di simulazione settencentesco, il wargame, destinato a riprodurre un conflitto bellico, poi trasformatosi nei primi anni Cinquanta in boardgame, il gioco da tavolo, passando per le regole stilate nel 1913 da Herbert George Wells per giocare con i soldatini di stagno sul pavimento di casa. Ma il gioco di ruolo assorbe ben altro: la disinvoltura nel morire e nell’uccidere che è dei videogames, la creazione di una realtà parallela che sfocerà nel virtuale, il recupero della parola che da una parte si apparenta con lo psicodramma (è del suo creatore, Jacob Levi Moreno, il termine role-playing) e dalla’ altra un linguaggio filtrato attraverso la visione, e che cita, in una sorta di grande Blob, letteratura, televisione, cinema, fumetto (esiste un gioco di ruolo basato sul Prince Valiant creato negli anni Trenta da Hal Foster), in una perfetta esemplificazione della seconda oralità teorizzata da Walter Ong. E se in alcuni casi il gioco torna alla fonte letteraria da cui è partito (come nel ciclo fantasy di “Dragonlance”, che raccoglie una serie di partite di Dungeons and Dragons,) l’ ambizione più diffusa resta quella dell’ aderenza con la vita reale. A volte, con l’ organizzazione di partite dal vivo ambientate in boschi e sotteranei (in Italia sono attivi due gruppi che se ne occupano, a Roma la “Gilda degli Anacronisti”, “Durendal” a Torino), Oppure, ed è il caso più frequente, affinando gli scenari. Avviene, ad esempio, nel più diffuso dei giochi di ruolo che hanno seguito il successo del capostipite, “The Call of Chtulhu” (Il richiamo di Chtulhu), dove la Musa è nientemeno che un raffinato e delirante cantore dell’ horror anni Venti come Howard Phillips Lovecraft. Per combattere Chtulhu, dio alieno in sembianze di polipo, e i suoi osceni seguaci, i giocatori (non più elfi, nani e guerrieri, ma giornalisti, investigatori e antropologi) hanno a disposizione informazioni dettagliatissime e reali sulle biblioteche specializzate in materiale occulto e sul costo della vita nel 1926, possono apprendere qual era la velocità dei treni e quanto denaro occorreva per corrompere un poliziotto, e documentarsi sulle biografie di Al Capone, Gershwin e Churchill. “Un modo di prepararsi al mondo virtuale facendo a meno del mezzo tecnologico”, spiega Giuliano “perché, nonostante siano stati immessi sul mercato i i video-role-playing, nessun computer al mondo è in grado di sostituire la creatività del Master”. “E poi il videogioco non può che essere un gioco solitario” aggiunge Paolo Spetia, “il tentativo di Strategia e Tattica che partirà fra qualche settimana è quello della via telematica: stiamo playtestando un gioco di ruolo ambientato in un modo barbarico, che potrà essere giocato in gruppo”. La vera strada, però, sembra essere ancora un’ altra: quella della simulazione purissima, che elimina persino la griglia di regole e di casualità fornita dai dadi. L’ ultimo esperimento in questo senso si chiama “Amber”, è ispirato alla saga fantasy “Cronache di Ambra” di Roger Zelazny e propone al giocatore di improvvisare avventure sullo sfondo di mondi paralleli e terre d’ ombra. Qui, per la prima volta, i giocatori potranno fare a meno della celebrata rinuncia alla competizione per creare alleanze. E per tradirsi. E cosa, allora, separerà il gioco dalla vita?

3 pensieri su “UNA PAGINA CULTURALE DEL 1993

  1. Bravissima e sul pezzo come sempre.
    Allora già giocavo a D&D ed avevo 11 anni.
    I miei genitori “spaventati” dalle turbe dei pedagogisti\psicologi che semplicemente parlavano del nulla, nessuno di loro essendo un rolegamer.

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