UN'ALTRA STORIA SUL CANCRO AL SENO: IL TUNNEL

Forse pochi ne parlano, ma non pochi ne scrivono.  Non solo le donne come Grazia De Michele, ma uomini che dalla questione del cancro al seno vengono coinvolti, perché coinvolte sono le compagne o le amiche. Per farla breve, qui trovate una nuova storia. L’ha scritta Valter Binaghi ed è tratta da un romanzo a puntate che appare su Vibrisse.  Il capitolo si chiama Il tunnel.
La prima cosa che devi imparare è prendere il tuo numero e sederti tranquilla, in attesa. Fa niente se l’appuntamento era per le 18 e alle 19.05 ancora non hanno chiamato il numero precedente. Fa niente se la stessa cosa è capitata la volta scorsa e quella prima (quindi non è un caso, ma una regola non detta) e la tua visita al poliambulatorio non è mutuata ma a pagamento, al modico prezzo di ottanta euro per un quarto d’ora o poco più di consulto. Il sistema sanitario è innanzitutto una pedagogia dell’obbedienza, a paragone della quale le nostre cazziate d’insegnanti agli studenti discoli fanno sorridere. Qui nessuno fiata e tutti s’inchinano senza bisogno di note sul registro: chi osa protestare di fronte a Geova in persona col camice bianco, colui che si proclama capace di trasformare in adempimento tecnico i miti spaventevoli del dolore e della morte?
La sala d’aspetto è fatta di tre salette diverse che si affacciano una sull’altra, in fondo al corridoio tre porte, davanti la scrivania della reception con la segretaria che prende appuntamenti al telefono, chiama i numeri e smista i passaggi con un’espressione gentilmente distaccata sul volto.
C’è parecchia gente in attesa perché a ricevere qui ci sono tre medici diversi, un generico, un otorino e un senologo. I pazienti del senologo sono tutte donne, ovviamente, più me e un altro accompagnatore, un ometto sui settanta che lancia furtive occhiate cariche di apprensione alla moglie, una damina tanto ammodo, coi capelli raccolti in uno chignon, il soprabito verde e la borsetta intonata sulle ginocchia; lei invece ha un viso sereno, rischiarato da un lieve sorriso, guarda fisso davanti a sé, non credo la parete su cui è appesa una natura morta di maldestra imitazione morandiana, più facilmente il film della sua vita, che come si dice in questi casi ti scorre davanti, magari la scena di un aprile lontano in cui il suo cavaliere la contemplava nuda sul letto e prima di far l’amore le baciava golosamente i seni adesso avvizziti, forse devastati dal male.
Poi ci sono due donne sole, oltre a me e Valeria.
Una giovane, sulla trentina, capelli corti e occhiali dalla montatura aggressiva, rosso acceso, ha l’aria di una donna in carriera, digita febbrilmente sulla tastiera del telefonino da un quarto d’ora buono come se stesse mandando via SMS l’intero primo capitolo dei Promessi Sposi, ma probabilmente quello che scrive sono solo le solite cazzate che si mandano ad amici e parenti, giusto un movimento nervoso per ovviare alla carenza da computer o per affettare una disgustata estraneità all’ambiente e alla circostanza («non mi vedete? sono giovane e molto impegnata, io non ho e non posso avere quello per cui voi tutte siete qui, fra un attimo il dottore mi restituirà le analisi, chiarirà questo stupido equivoco e farò in tempo per l’aperitivo all’American Bar, dove mi aspettano gli amici e quel Gianmarco, che lavora alle Mediolanum ramo auto e che stasera si deciderà a chiedermi di uscire»)
L’altra è sui quaranta, faccia larga e simpatica, corporatura piuttosto pingue, siede compostamente ma suda parecchio, non si decide a levarsi il cappotto, gli parrebbe di concedere troppo alla situazione ma anche lei non ha tempo, giurerei che a casa ha due o tre figli che l’aspettano e un marito incapace di impanare una cotoletta, come faranno poveri se lei tarda tanto?
Nessuna delle pazienti degna di uno sguardo le riviste impilate sul tavolino. Lo faccio io, dato che Valeria ha chiuso gli occhi e appoggiato la nuca alla parete, il suo modo per riposare e ricaricarsi. Tre numeri di «Chi» e altrettanti di «Visto». Fin dalle copertine è tutto un ammiccare di curve e smaglianti sorrisi o finto disappunto di celebrità colte in fallo o in posa con le poppe al vento su una spiaggia della Costa Smeralda. Ci vuole la sensibilità di un pitbull per affidare e roba del genere il momentaneo intrattenimento di donne che subiranno da qui a un paio di settimane una mastectomia. Ma si sa, il mondo va avanti, e l’Italia, poi, va avanti più che altro a colpi d’anca e tette in fuori. Il senologo, se interrogato, direbbe che la cura della sala d’aspetto non è di sua competenza, queste sono le riviste che legge la segretaria e caragrazia se trovi qualcosa per passare il tempo.
Le 19.15. Mi monta una rabbia pericolosa. In altre circostanze avrei già dato in escandescenze. Una furia calcolata, scolpita in gesti e parole di sicura efficacia, da sceneggiatore consumato di me stesso. Come quella volta che in Posta ho tuonato contro l’impiegato allo sportello che si era preso tre pause in mezz’ora lasciando allungarsi a dismisura la coda dei clienti imbufaliti. O quando in Collegio Docenti ho denunciato apertamente le false spese che la Preside di allora metteva a bilancio dell’Amministrazione, per indorarsi la pagnotta. Le invettive ciceroniane, le apostrofi cariche di adamantina fierezza dispensate un po’ dappertutto in assemblee, riunioni politiche, pubblici uffici, ovunque insomma ci fossero spettatori disponibili. Il censore dei costumi e della pubblica amministrazione, il cavaliere senza macchia, ogni volta ha strappato sguardi di ammirazione al popolino che manca della spregiudicatezza per redarguire chi è in posizioni di potere. Qui (m’immagino la scena per filo e per segno) ci sarebbe da rivoltare il poliambulatorio come un guanto, spaventare la segretaria e far uscire i medici per prendere a pesci in faccia questi burocrati dell’organismo che trattano i pazienti come auto di seconda mano parcheggiate nel garage di famiglia. Ma non lo farò.
Non è questo che Valeria vorrebbe, e nemmeno le altre donne presenti. La sento emettere respiri profondi, studiatamente uniformi. Mi volto e la vedo sempre nella stessa posizione: ginocchia unite, busto eretto, occhi chiusi, la testa appoggiata alla parete. Capisco che è una specie di training per domare un attacco di angoscia di cui non ha tentato nemmeno di farmi partecipe.
In questa nuova vita che voglio vivere accanto a lei, mi spetta al momento condividere in silenzio quello che prova, accettare che non posso fare niente, niente soluzioni geniali e niente esibizioni eroiche, solo bere con lei dallo stesso calice amaro, se siamo in due lo svuoteremo prima. È una sensazione inedita, per me, quella di subire semplicemente, come tutti, di accettare un destino senza manipolarlo. Cyrano ha il suo solito brutto naso e nessuna spacconata a disposizione per dimenticarselo: non è niente amico, stai solo sanguinando, sei rientrato nella tua carne dopotutto, sei vivo.
Finalmente chiamano Valeria. Si alza con un movimento rapido ma non affrettato, mi sussurra un ciao prima di avviarsi, la porta è quella di destra.
Passano dieci minuti, prima che esca. Sul volto un’espressione stanca ma sollevata. Il ricovero è fra tre giorni. L’intervento il mattino dopo.
(…)
«Perché non me lo racconti questo sogno orrendo?»
Io e Valeria siamo seduti in salotto, l’alogena schermata in azzurro diffonde una luce appena sufficiente per distinguere i suoi occhi brillanti nell’ovale del volto in ombra. Le ho portato un cd di Brian Eno, Apollo, la colonna sonora dell’allunaggio che il geniaccio aveva composto qualche anno dopo l’impresa americana. C’è un walzer elettronico, che ti fa pensare ai passi rallentati degli astronauti, alle prime orme lasciate da un piede umano sulla polvere del satellite vergine. La valigia già pronta, posata accanto alla porta, mi ricorda che questa notte è l’ultima che ho a disposizione per trasformare le mie fantasie poetiche in un amore che l’attraversi, e da cui non voglia separarsi mai più. Sono raccolto in questo istante come sul ponte sospeso che separa la mia vita e la sua, vorrei gettare di là qualcosa di definitivo, che ci unisca per sempre e già fin d’ora l’accompagni come un talismano nel silenzio in cui dovrà scendere sola. Ma l’indifferente e l’importuno mi sembrano in agguato al fondo di ogni gesto, di ogni parola, e so che basterebbe un niente perché la sua anima ne fosse disgustata, e mi voltasse le spalle per incamminarsi nell’oblio, come Euridice per l’impazienza di Orfeo.
«Ho paura che se lo racconto accada davvero» dice lei, da una distanza siderale.
«Al contrario. Se gli dai voce smetterà di pesarti sul cuore»
«I sette nani tornano dal bosco, con gli attrezzi da lavoro in spalla e i loro berrettini di tutti i colori. Camminano in fila indiana, e cantano la canzone del film di Walt Disney, ti ricordi? Però non somigliano ai nani del cartone animato che praticamente erano bambini con la barba, questi sono più bruttini e rincagnati, hanno le facce vizze e rugose, da vecchi. Arrivano al prato che c’è davanti alla casetta, e lì c’è la bara di vetro, con dentro Biancaneve addormentata. È completamente nuda, e ha la mia faccia. A questo punto i nani dovrebbero cominciare a piangere e disperarsi. Invece si guardano l’un l’altro con gli occhietti brillanti, e fanno una specie di sorriso, che gli scopre i denti aguzzi. Sollevano il coperchio della bara, tirano fuori Biancaneve e cominciano a divorarla»
«Non è orribile?»
«Dipende»
«È un sogno di morte», protesta.
«Si, ma dice solo quello che tu immagini, non quello che accadrà»
«Immagino di morire?»
«In qualche modo si. Non sei mai stata in ospedale, non hai mai subito un intervento chirurgico. Questa cosa di domani suscita in te fantasie di morte. D’altro canto me l’hai detto tu stessa che vorresti ricominciare tutto daccapo. E bisogna morire per rinascere»
«Cioè?»
«È un sogno iniziatico. Tu speri che i nani facciano fuori il tuo corpo di prima, per poterne avere uno nuovo. Ma questa è la tua speranza: morire è morire, e nessuno è sicuro di poter rinascere. Perciò quello che il sogno ti trasmette più di tutto è il senso di distruzione, annichilimento»
«Perché Biancaneve?»
«Non so. È una che sente di non aver mai veramente vissuto? Di essere rimasta in una specie di infanzia prolungata?»
«Ma io ho vissuto e come. Quasi mezzo secolo. E sono stata anche sposata»
«Certo. Tutti abbiamo vissuto. Ma non siamo finiti. Il tessitore sta ancora lavorando al tappeto, del disegno si vede solo un pezzo»
«E il tessitore chi sarebbe, Dio?»
«Non lo so. Dare i nomi alle cose non mi appassiona più come una volta. Ma quello che sento da un po’ di tempo a questa parte, è che ho passato la vita a costruirmi dei pupazzi in cui specchiarmi e poi a liberarmene con fatica. Ecco, io sono quello che costruisce i pupazzi, e il tessitore è quello che me ne libera. Ogni volta mi dice: tu non sei questo, il disegno è più grande. E io dico: bene, ma ogni volta tocca morire alla vita di prima»
Valeria sospira: «È il cancro? Sempre il tessitore?»
«Forse. Quando non gli dai spazio, quando qualcosa gli impedisce di rigenerarti»
Valeria si alza dal suo posto, siede sul divano accanto a me. Poi si piega dalla mia parte e mette la testa sulle mie ginocchia, rannicchiandosi in posizione fetale.
«Non lo dici solo per rassicurarmi, è vero? Tu ci credi»
«Io non ci credo, lo so. E sai da quando? Da quando ti ho trovata. Perché ci vuole qualcosa di più di una spinta per rinnovarsi, ci vuole un motivo. Il tessitore è la spinta, è la vita che preme. Il motivo è quello che ami. Tu sei quello che amo»
Le passo una mano tra i capelli corti, strofino piano la tempia, la nuca, come si fa con un gattino, continuo, sento che le piace.
«Sei comodo seduto così?»
«Si. Perché me lo chiedi?»
«Perché improvvisamente ho un gran sonno. Mi lasceresti dormire così, con la testa sulle tue ginocchia? Mi piace tantissimo»
«Puoi anche succhiarti il pollice se vuoi. Non lo dico a nessuno»
Ride: «È vero. Ti sto trattando come una mamma. Non ti dispiace?»
«Sono tua mamma, tuo papà, e anche tuo cugino se vuoi»
«Mio cugino era stronzo. Da piccoli mi metteva le rane nel grambiule. Tu invece sei buono»
«Come il pane»
«Come il pane e burro»
«Pane, burro e marmellata di ciliegie»
Non risponde. Si è addormentata.
(…)
È inutile che ti precipiti, mi dice la Porrini. Le hanno fatto l’anestesia totale, ci vorranno almeno un paio d’ore dopo l’intervento prima che possa riconoscerti.
Ho raccontato alla Porrini di Valeria, perché so che anche lei ha subito un intervento simile, due anni fa (in effetti il cancro al seno è un epidemia non dichiarata: solo qui da noi, a scuola, tre donne su trenta negli ultimi anni). Lei è rimasta piacevolmente stupita dalla mia confidenza (l’ho sempre trattata da collega, mai da amica), ma ancor più dalla mia dichiarata passione.
«Vado adesso. Voglio essere il primo essere umano che vede quando si sveglia»
«Bravo» annuisce compiaciuta.
Ci crede la Porrini, o almeno è una che vuol crederci all’amore, è una (ex) ragazza romantica, lei. Ma tu – comincia a tormentarmi la solita vocina – che romantico non sei mai stato, quanto ci credi e quanto vuoi crederci?
E così, mentre metto in moto l’auto in questa mattinata di sole e m’inserisco nel traffico del Sempione, comincio a dibattere col Mefistofele laureato in psicologia di cui nessun anima del terzo millennio sembra poter più fare a meno.
«Credere e voler credere. C’è differenza?»
«Come no. Credere è roba da umanità primitiva, da cuori integri. Un trasporto irrefrenabile, una visione che è una certezza. Lei è l’unica da adesso e per sempre: anzi, lei è sempre stata l’unica. Tutto il resto, tutte le altre, servivano per portarti a lei. Lei è il tuo assoluto, il tuo Destino, il vostro amore è scritto in Cielo. Ti senti così, per caso?»
«E se non fosse?»
«Niente di male. Anzi, personalmente preferirei. Sei un essere umano, non un clone del giovane Werther. Hai una certa età, e dopo aver cazzeggiato in solitario pensi che sia meglio cercarsi una compagnia stabile per invecchiare. Non sono certo io a biasimarti per questo. Non c’è comfort più sicuro di un compagno di vita. Stamattina le sistemerai il catetere, fra una ventina d’anni sarà lei a farlo a te»
«Complimenti, vedo che il tuo stile poetico è in netta evoluzione. Qualche anno fa mi avresti dissuaso con immagini di fica giovane e culetti a mandolino»
«Ma io non voglio dissuaderti. Solo costringerti a essere sincero con te stesso. E nemmeno sono convinto che tu stai solo preparandoti alla pensione. Tu vuoi credere all’amore, davvero. Vuoi risarcire te stesso e le persone che hai usato finora per campare, riversando su una sola tutto ciò che non hai saputo dare alle altre. C’è qualcosa di nobile in questa consegna totale della propria libertà, non lo nego. Ma non dirmi che questo è tutto il tuo cuore, che non coltivi la minima riserva su come andrà a finire. Per esempio, l’hai detto a Marta, a Maura e perfino alla collega Porrini. Perché non l’hai ancora detto a tua figlia Lisa? Perché il suo giudizio è l’unico di cui t’importa sul serio, l’unico che t’impegnerebbe al non ritorno»
«Niente affatto. Non l’ho detto a Lisa perché non voglio darle un motivo in più per andarsene a Londra. Padre sentimentalmemte sistemato, figlia di troppo. Così, se anche nel frattempo le fosse passata la voglia (e io spero sempre che le passi), quella a Londra ci andrebbe lo stesso»
«Resta il fatto. Credere e voler credere non è la stessa cosa»
«Si, è vero. Come non è la stessa cosa credere a Babbo Natale e impacchettare regali per tua figlia la notte della vigilia, perché lei resti a bocca aperta al mattino. Ma qual è la gioia più grande? Quella che ti arrivava addosso da bambino o quella che costruisci, pezzo per pezzo, per lei?»
«Vuol dire che ti arrendi? L’amore è una malattia infantile e quello che provi a fare adesso è un’altra cosa?»
«No. Voglio dire che amo con quello che sono. Una volta i ragazzi andavano in guerra e tornavano con un braccio, o una gamba sola. E provavano a campare con quello. E le mogli li amavano anche per quello. Anche noi siamo stati in guerra. È una guerra diversa, quella che ha combattuto la mia generazione: la guerra tra mente e corpo, tra l’utopia e la natura, e Hollywood ci ha fatto un film. Ognuno è se stesso e la cinepresa di se stesso. Nessuno sarà più quello di prima, la cicatrice è permanente. Ce l’ho io, ce l’ha Valeria. Vivremo e ci ameremo con quella».
«Sai cosa significa, vero? Che io sarò sempre lì, tra voi»
«Certo che lo so. Tu sei la mia cicatrice. E adesso basta rompere i coglioni, che siamo arrivati al parcheggio dell’ospedale»
Quando arrivo il suo posto (quello in mezzo di tre) è ancora vuoto. Le altre due donne sembra che dormano, ma mi sbirciano sotto gli occhi semichiusi, in quell’ebetudine autoprocurata che è un meccanismo di difesa dalla promiscuità e dall’esposizione indecente del dolore cui il ricovero ti costringe. Quella a sinistra, piuttosto anziana, ha un colorito cereo, adesso spalanca gli occhi e mi guarda apertamente con implorazione. Vuole che me ne vada, lo capisco, prima di stendere le gambette rinsecchite fuori dal letto, e provare a fare due passi.
Esco in corridoio e proprio in quel momento arriva l’infermiere con il lettino a rotelle, dal telo verde spunta il viso di Valeria. Quando si ferma davanti alla stanza, Valeria apre gli occhi. In quel biancore, sono come due fiori avventuratisi nel gelo della terra invernale, che fanno capolino in una giornata di sole. Non muove la testa, non mi vede anche se sono lì a un metro da lei. Li richiude. Ma mentre l’infermiere manovra per entrare, li riapre di nuovo, e stavolta incontrano i miei. Non so se mi riconosce, non c’è dolore nè tenerezza nello sguardo, solo pura vitalità trattenuta e finalmente ridesta, immemore e stuporosa. Coperti dalla notte, i nani hanno spolpato Biancaneve, e oggi è una giornata tutta nuova.

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