VIRGOLETTE

Non so voi: ma la sottoscritta muore di sonno (avendo
festeggiato il festeggiabile) e si trova con un articolo complicato da scrivere
in poche ore. Non rinuncio però a segnalarvi questo pezzo di Gian Paolo
Serino su Nazione Indiana a proposito del noir. E magari ad aggiungere
qualche virgolettato di altri scrittori (l’articolo integrale della vostra
eccetera sull’argomento è uscito venerdì scorso su La Repubblica) che
commentavano il già commentatissimo saggio di Valerio Evangelisti.

  Giancarlo De Cataldo, appena
premiato a Nizza per Romanzo Criminale
con il Prix du polar
européen
: “Il noir italiano – dice – è già oltre i confini del genere. E la
letteratura che prima vi si contrapponeva mostra nei suoi confronti una inedita
disponibilità: penso ai segnali di apertura che vengono, per esempio,
dall’Alessandro Baricco de I barbari.
Io credo che lo scrittore del futuro sarà multimediale, privo di
qualsiasi scrupolo, forse addirittura collettivo e anonimo: e soprattutto ostile
alle etichette”.
 Infatti, Carlo Lucarelli non sta scrivendo
un noir:” Non perché abbia deciso di ritirarmi, ma perché mi sono sentito
stretto nell’ambito del genere: il che significa che grazie all’esperienza
fatta posso scrivere altro”. E riflette: “E’ vero che il noir ha vinto la sua
battaglia, che non era solo di legittimazione: contro i problemi della nostra
letteratura, infatti, abbiamo  recuperato la realtà alla narrazione. D’altro canto, è vero che il
genere cova dentro di sé un istinto di conservazione: come è avvenuto, per
esempio, al minimalismo. E oggi la tentazione – degli editori, più che degli
scrittori – è quella di pensare che siano sufficienti un commissario, un morto
e un’investigazione per raccontare la realtà, fare politica di denuncia e
critica sociale. Non è vero. E noi che abbiamo la responsabilità del lavoro
fatto fin qui dobbiamo ragionarne anche con gli scrittori che, proprio grazie
al giallo, hanno potuto trasportare la stessa ricerca sul reale in altri campi”. 
 “Ben venga il dissolvimento, ben
venga la sperimentazione”, dice Massimo Carlotto. “Io credo che un autore debba
sempre chiedersi cosa è importante raccontare di questo paese, oggi, attraverso
il genere. E dal momento che questa domanda non è così frequente, diventa
verissimo che il noir stia attraversando una crisi epocale, con continue
sovrapposizioni non di qualità, con editori che aprono collane destinate a vivacchiare,
con libri che ripropongono la solita struttura crimine-indagine-soluzione. Ancora:
non molto tempo fa  ci si chiedeva se il
poliziesco italiano fosse socialdemocratico. Io credo di sì: per molto tempo,
cioè,  è stata percorsa una strada
camilleriana, pensando che affermare la legalità dello Stato nei romanzi fosse comunque
qualcosa di eversivo nell’Italia di Berlusconi. Un concetto che ha avuto un
senso  e che ha portato al successo molti
autori, ma che non è più percorribile. Tanto che ho deciso di abbandonare il
mio personaggio dell’Alligatore, se non per una storia a fumetti con Igort.
Bisogna individuare e narrare altri delitti: come il rapporto fra grande
criminalità e potere ”.
 

Ps. Per i
curiosi, ho aggiunto al Flickr le foto della notte dello Strega.

33 pensieri su “VIRGOLETTE

  1. un cumulo di cazzate
    lucarelli de cataldo carlotto raccontano le fantasie che si annidano nella loro testa; in pratica è solo una evoluzione dei temi di stevenson al giorno d’oggi, dunque niente di nuovo. anche evangelisti e dazieri non fanno altro che inventare al pari di tanti altri, da deaver a conelly a harris, eccetera eccetera. il noir è un genere disposto per il popolo che lo consuma, sopravvalutato da chi lo produce ma che vende in certuni casi ma sempre nei limiti. solo con “the dark side” gli italiani sono in classifica ma perché accompagnati da grossi nomi americani mica per altro, non per la bravura che non hanno.
    signora lipperini, invece delle foto, ci dica cosa ne pensa di “caos calmo” se l’ha letto: insomma, ci parli di letteratura e non di patatine fritte in olio mcdonald’s.

  2. Ti ho risposto nei commenti al post precedente. Ma evidentemente, come supponevo, non è ottenere risposte che ti interessa, quanto svolgere il ruolo che ti sei dato. Se mi permetti, alquanto noioso.

  3. anche l’acqua tonica ci è piaciuta ma non ci dice niente su quell’acqua.
    poco importa se mi reputa noioso.
    se mi permette, anche lei è piuttosto noiosa a rimarcare sempre le stesse idee di cui davvero non se ne può più; ne consegue che le sue risposte sono vuote

  4. Sì PinOcchio: resta da capire il motivo della tua presenza qui, dove le idee sono monotone e le risposte vuote. Esistono posti sicuramente molto più interessanti di questo dove esercitare proficua opera di trollaggio, grazie.
    Ah: detesto l’acqua tonica.

  5. un troll è una creatura fantastica, di invenzione, lo sa!
    l’accademia della crusca non ha in vocabolario “trollaggio”
    in verità preferisco la coca-cola: ottima anche per sturare i lavandini più ostinati
    continua però a non dare risposte: peccato che a lei non piaccia il dialogo
    grazie in ogni caso

  6. Lippa, ma che fai, rispondi ai troll? I commenti di PinOcchio andrebbero sistematicamente cancellati non appena li mette, anzi, andrebbe bloccato l’IP.

  7. Cara Lipperini,
    noi non ci conosciamo e la mia attività giornalistica è distante da questi temi.
    Tuttavia nel non lontanissimo 1989, con la complicità di Antonio Franchini e
    Ferruccio Parazzoli, curai la serie Mondadori “Nero Italiano” (8 romanzi e
    un’antologia di 27 racconti: numerosi gli autori affermati o che si affermarono).
    Dopo, ma soltanto dopo, Marco Tropea si occupò di noir (dapprima con “interno giallo”)
    e in seguito con il suo marchio. Quindi giunsero tutti gli altri.
    “Nero italiano” nasceva secondo la logica americana che prevedeva un rapporto
    “forte” fra editor e autore (un po’ come accade nel settore del cinema): Del Buono
    ci elogiò sul Corriere (impropriamente paragonandomi al capitano Shaw di “Black Mask”),
    mentre Augias ci stroncò. Nel mezzo, in Mondadori Gian Arturo Ferrari ci osteggiava.
    In breve, per quanto quattro titoli fossero stati opzionati per il cinema e/o tv e le vendite fossero comunque in linea con l’abituale “tenuta” dei romanzi italiani, la serie venne chiusa.
    Personalmente, decisi di allontanarmi da qualunque cosa avesse a che fare con romanzieri
    italiani (e relativi critici). Non ho più parlato di questa esperienza. Solo in questi giorni mi
    è capitato di leggere su “Noir” che Lucarelli mi cita come il suo primo editor (grazie, troppo
    generoso) e ora questo intervento sulla narrativa noir: allora si parlava nello stesso modo,
    solo che era più difficile farsi pubblicare (e noi – credo – abbiamo contribuito ad aprire
    una breccia) e la stampa era meno ricettiva.
    Non so com’è, ma avevo voglia di scrivere queste poche righe. Un saluto.

  8. Mi scusi Moscati, secondo lei è campato per aria dire che la stampa è diventata ricettiva quando si è capito che il noir poteva vendere molto bene?

  9. Credo che si debba parlare di una serie di fattori concomitanti. All’epoca di “Nero italiano” eravamo dei pionieri stregati da un genere letterario vituperato in Italia. Poi si è scoperto che la “griglia del nero” poteva servire come alibi per scrivere letteratura “alta” (ci vuole sempre un alibi! quando manca la vera creatività), si sono formati vari clan (di scrittori e critici) e il gioco è stato fatto!
    E, come per ogni situazione, sono apparsi scrittori validi e scribacchini, senza necessariamente che i primi venissero premiati più dei secondi.
    Ciò che manca sempre e comunque nella nostra narrativa è la storia, il plot: magari siamo bravi nelle descrizioni, nelle psicologie, nelle sensazioni… ma la storia, la storia facciamo proprio fatica a chiuderla.

  10. “Ciò che manca sempre e comunque nella nostra narrativa è la storia, il plot: magari siamo bravi nelle descrizioni, nelle psicologie, nelle sensazioni… ma la storia, la storia facciamo proprio fatica a chiuderla.”
    Forse era vero per gli scrittori affermatisi negli anni Ottanta. Mi sembra che questa situazione si sia completamente rovesciata, negli ultimi quindici anni. Anzi, oggi c’è chi si lamenta della “dittatura del plot” che in Italia starebbe soffocando l’autentica letteratura! 🙁

  11. Sul fatto che il noir italiano manchi di “storia”, non mi sembra. Si dice giustamente che sono emersi scrittori e scribacchini e alla prima categoria penso si possano ascrivere autori come Macchiavelli, Baldini, Bernardi, De Cataldo, Di Fulvio, Matrone, Dazieri, Nerozzi che invece hanno storie a tutto tondo, che si aprono e si chiudono, sono circolari e complete anche laddove non vengono fornite al lettore (tutte) le risposte. Rispetto ai “colleghi” d’oltreoceano si può tranquillamente affermare che hanno un altro ritmo, l’azione non è il fulcro della vicenda. Forse sono più introspettive, mai gotiche né mi sembra che siano autoreferenziali (come può accadere invece con la letteratura bianca). Il discorso se il noir sia poi letteratura sociale o se usi la griglia del mistero per parlare d’altro è un discorso ulteriore e piuttosto dibattuto da un po’ di tempo a questa parte.

  12. Io non ho mai capito di quale realtà si occupino alcuni scrittori. La realtà non è una e sola. E chi l’ha detto che una scrittura autoreferenziale non possa, in fondo, essere più realistica di una scrittura dichiaratamente realistica? E poi, per dirla tutta, chi l’ha detto che uno scrittore debba fare per forza i conti con l realtà?

  13. …io ho sempre pensato che ci sono altre arti che ci possono soccorrere prima che certe discussioni sui ‘generi’ (termine scivolosissimo..) scadano in polemiche da bordello. Pensiamo al cinema: vi risulta che si sia perso tanto tempo a discutere sul western (genere cinematografico per eccellenza) rispetto al cinema eventualmente più sperimentale..?.. a me non risulta. Ci sono fior di registi che non hanno praticamente fatto altro (John Ford, Peckinpah, Mann) eppure hanno dato un contributo creativo al cinema in ogni senso e che più passa il tempo e più si fa evidente (ci sono western che parlano degli Usa e del contemporaneo molto meglio dei film ‘impegnati’ dell’epoca); oppure ci sono registi (da Hawks a Kurosawa!) che hanno affrontato tutti i generi e li hanno anche superati, talvolta svuotati all’interno fino a non renderli nemmeno riconoscibili (penso a Lang, che in un certo senso girò anche degli western metropolitani) esercitando quindi sul genere western la loro personalità, il loro tocco. Contribuendo al contempo alla sua critica (che è ‘messa in crisi’) e al suo perpetuarsi…
    Coi generi in letteratura si fanno (possono fare) tutte queste cose e altro ancora. Quando leggo di uno scrittore che avrebbe scritto un ‘noir’ e mi sembra di capire che il commentatore e recensore pensa di aver detto abbastanza (soprattutto quando ne pensa male..), se non altro già qualcosa… rimango allibito. Dire che uno scrittore è un giallista è come dire niente.

  14. La questione dei “generi” è diventata ormai fastidiosa; tutti ne parlano come se fosse quella più importante, quando invece non è che un nulla rispetto a questioni ben più pregnanti, ad esempio sul rapporto degli scrittori qui citati, da De Cataldo a Lucarelli, con la lingua. Un rapporto che è, per me, assolutamente NON CONFLITTUALE, dunque distante, ad esempio, dal sommo rovesciamento del genere “giallo” operato da Gadda nel suo famoso (ma quanto veramente letto?) pasticciaccio … Se poi la questione viene infarcita di neo-contenutismo (meglio se di “sinistra”), allora siamo alla frutta … Davvero il Novecento è passato invano? Non è che l’affermazione del noir “(ha vinto la sua battaglia”) sia in realtà una affermazione contro la letteratura in quanto tale, ovvero contro ciò che dovrebbe essere la sua essenza: il lavoro dentro il linguaggio? Se poi il metro di giudizio è la capacità di vendita, allora Camilleri vale più di Gianni Toti, De Cataldo più di D’Arrigo … Senza eccedenza, direbbe Nancy, non c’è alterità, senza alterità (e qui lo direbbe Lévinas) non c’è che l’omologazione … Qui mi pare che l’unica alterità sia la solita della merce fatta bella: ci si distingue per meglio apparire negli scaffali, aspettando l’acquirente; il quale, è risaputo, alla profondità di una costruzione del mondo complicata, e magari complicata proprio dall’andamento della lingua, preferisce una procedura serena, senza troppi strappi: la normalità galleggia sulla rappresentazione: e l’ordine del discorso (Foucault) si afferma. La migliore letteratura è sempre stata anti-narrativa, o no? Contro i problemi della nostra letteratura – scrive Lucarelli – abbiamo recuperato la realtà della narrazione”. Ma questo è il vero conservatorismo. Si recupera una tradizione che in realtà non è nemmeno mai esistita. La letteratura (la meglio letteratura) è sempre stata l’esibizione del gioco equivoco del rinvio da significante a significante, che fuoriesce dal rapporto biunivoco significante-significato (con in più la certezza che il significante è subito il significato). O no? Excursus, digressioni, enumeramenti, deformazioni sintattiche, ritmi fuori tempo, grottesco, crudeltà, straniamento, afasia: solo lo “spreco di significanti” ha segnato la storia della letteratura di opere indelebili.
    PS: non ho festeggiato, dunque non muoio di sonno; anzi: non ho neppure tifato Italia, perche ho in odio tutto ciò che alimenta l’amor di patria. E la festa di ieri, col suo milione di persone intruppate, mi ha confermato la sua potenziale pericolosità, in particolare quando Buffon, noto scommettitore, ha esposto lo striscione “Fieri di essere italiani”, sotto al quale appariva, ben riconoscibile, una croce celtica, segno inequivocabile della vera natura politico-ideologica di questa festa nazionale …
    Marco P.

  15. gli italiani non sanno scrivere; si rifanno a salgari, per quegli ottanta stereotipi che ha utilizzato e questi sono i plot di noiristi giallisti scrittori d’avventure thrilleristi. hanno solo imparato a scrivere in maniera seriale un po’ più bene rispetto a vent’anni fa; non mi sembra un progresso, soltanto un regresso che funziona però per vendere e farsi inserire in antologie studiate per il mercato meno accorto
    solo eraldo baldini riesce a essere originale, perlomeno più di altri suoi colleghi che vengono pompati dai giornali
    si parla poco in rete di eraldo baldini ed è un peccato

  16. Gentile Loredana, Ti ringrazio per aver segnalato il pezzo (scritto per il mensile KULT in edicola in questi giorni).
    Non per fare pubblicità al mio blog – http://satisfiction.blog.kataweb.it/ – ma nei commenti all’articolo “NOIR: VIVO, MORTO O X?” ma nei commenti si stanno sviluppando tematiche interessanti rilanciate da Montanari, Krauspenhauer, Luca Di Fulvio e soprattutto da Piero Colaprico che ha messo un commento molto duro sul mondo dei blog e della critica letteraria.
    Gian Paolo Serino

  17. “La migliore letteratura è sempre stata anti-narrativa, o no?”
    No.
    Senofonte non era anti-narrativo, Luciano di Samosata non era anti-narrativo, Apuleio non era anti-narrativo, DeFoe non era anti-narrativo, Swift non era anti-narrativo,
    Balzac non era anti-narrativo, Hugo non era anti-narrativo, Maupassant non era anti-narrativo, Poe non era anti-narrativo, Mark Twain non era anti-narrativo, Hemingway non era anti-narrativo, Fitzgerald non era anti-narrativo, Dos Passos non era anti-narrativo, Faulkner non era anti-narrativo, Steinbeck non era anti-narrativo, Fenoglio non era anti-narrativo, Pavese non era anti-narrativo, Orwell non era anti-narrativo ecc.

  18. Ah, caro Canzian, che dice? È evidente che quel “non-narrativo” significa non la scomparsa della narrazione in sé (della possibilità di narrare storie), ma di un certo modo di disporre le parole. Ecco, mi permetta, qui voglio proprio approvare il fondo del discorso di Marco P., indicibile discorso, fuori moda e troooooppo in odor di ‘vanguardia. Ma io approvo quel suo intendere – e credo di intendere bene Marco P. – l’apprezzamento di quelle esperienze che, nel Novecento trascorso malamente, hanno proposto un’arte come lavoro sul linguaggio, più che sulla “rappresentazione” (e questo è un altro senso possibile del “non-narrativo”). Esperienze, certo (e la diatriba in corso sui generi lo dimostra), che sono state miseramente sconfitte, anche a livello di ricezione, del pubblico e degli addetti ai lavori (che purtroppo non sono mai forzati). La fiction domina, la fiction noir, quella naturalista, la lirica ideologica, da realismo televisivo-cinematografico, la fiction da intrattenimento, magari “intellettualizzato” e di “sinistra”, ma intrattenimento … Mi scusi, caro Canzian, la spavalderia con cui le dico queste cose vaghe, ma le migliori istante che maestosamente hanno attraversato il secolo defunto, anche se sconfitte, restano le più adatte a metaforizzare la liberazione possibile: dal capitale, innnanzitutto, e dalle sue narrazioni consolanti. Per sfuggire all’agguato della linearità, dove tutto appare certo, preferisco una letteratura che si cancella mentre si fa. Si legga, se le parrà, “Itto-itto” di Edoardo Cacciatore, poi ne riparleremo (se lo vorrà, ovviamente). Dirò di più: Marco P. ha fatto un nome che mi ha colpito: Gianni Toti. Essendo costui prima di tutto un partigiano, e avendo fatto il militante nella vita, e al di là di ogni parolaismo, nella scrittura ha evitato santamente ogni cedimento al contenutismo spinto (sinistro-sinistro, più che “di sinistra”), facendo diventare sovrano unico il linguaggio: i suoi testi sono “una carica briosa e provocatoria”, fonte di una rigenerante lettura. Ecco, gli “insolenti irromanzi” del Toti non avevano bisogno di mostrare morali d’accatto (ahi-ahi-de-cataldo-evangelisti-wumig incapaci di tragedia fantasmano senza the death!), e proprio perché la morale (meglio: l’etica) lui la agiva nei comportamenti quotidiani, dentro l’historia. Ma anche qui, se le parrà il caso, s’arristudi il Guglielmi Guido e del D’Arrigo si legga il disordine linguistico. Rimettiamo le parole al loro posto: nel caos inventivo, se possibile; o nello spiazzamento della percezione. Vede, a lei davvero non infastidisce che oggi Gadda e Manganelli, o Villa e Cacciatore (o Leonetti e Volponi), siano dei nomi da esorcizzare, pratiche non comunicative da tenere dietro una teca senza protezione: a loro è riservato l’oblio, mentre a un testo ristretto, a uno qualsiasi di quelli che “aderiscono al codice prevalente”, è garantito il successo … Qui ho perso il punto interrogativo, chiedo venia … L’eccedenza lascia spazio alla consolazione. Si rilegga l’ex narratio di Beckett, per favore, ci provi; se lo vorrà, ovviamente (e se le parrà, il conto lo pagherò io): prosit.
    Cûk-Utitz, del Club delle Scintille Nere

  19. E’ proprio l’opposizione manichea tra narrazione e lingua il tranello in cui si cade, e che rende impossibile la discussione. Se a ciascuno degli scrittori che ho elencato qualcuno avesse chiesto: “Nel Suo lavoro è più importante il lavoro sulla lingua o quello sulla storia da raccontare?”, bene, chiunque avrebbe risposto: “Scusi, non ho afferrato la domanda”, oppure: “ma chi se ne frega!?. Perché uno scrittore non si pone questo genere di problemi, non inizia un libro dicendosi: voglio che la lingua sia più importante del racconto. Se se lo dice, allora è un critico di modesta caratura che aspira a fare lo scrittore, non uno scrittore. Grazie ad alcuni parrucconi, questo pseudo-dilemma (100% lana caprina) è diventato LA questione intorno a cui gira il dibattito, è pazzesco. Ci viene propinata addirittura una contrapposizione tra “letteratura” e semplice “narrativa”, cosa che non sta in piedi (ha ragione Giulio Mozzi: è scorretto dire “letteratura” per intendere “buona letteratura”. Letteratura è quel che si scrive).

  20. Io non ho capito bene e di certo non so se tale Cuk sia narrativo o non, nè chissia,
    certo che il suo scritto mi piace assaissimo e mi fa imbizzarrir di sollucchero!
    MarioB.

  21. Ha ragione Canzian: uno scrittore che si pone questi problemi è solo un critico di modesta caratura che aspira a fare lo scrittore. E ce ne sono tanti in libreria, più pericolosi dei vari best seller su cui è facile spararare. Ma nessuno ne parla male. Un’altra categoria è quella degli scrittori per i quali complicare la lingua, i rimandi e la struttura significhi automaticamente fare “vera letteratura”. Sono i nazisti della penna.

  22. Nicolò, vai piano coi nazisti,
    è un termine che fa male e ormai suona fesso!
    Ti prego, fai un esempio, ché semplificare ed essere oscuri così non va, non mi va giù.
    E’ meglio dire: nel tal suo libro, Ciccio Ciccini complica la lingua e ci vuol dar da bere che fa ricerca sul linguaggio.
    MarioB.

  23. Gli ho detto: “E fammi un esempio”. Gli ho detto: “E Fammi un esempio!” Gli ho detto: “E fammi un esempio!”. Mi ha fatto un esempio, e mia moglie è rimasta incinta.
    (Cochi e Renato, “El Porompompero”)

  24. Gli ho detto: “E fammi un esempio”. Gli ho detto: “E Fammi un esempio!” Gli ho detto: “E fammi un esempio!”. Mi ha fatto un esempio, e mia moglie è rimasta incinta.
    (Cochi e Renato, “El Porompompero”)

  25. Caro La Rocca, suvvia, si calmi. Tirare in ballo il nazismo in questo modo, mi permetta, è sintono di non conoscere cosa fu quell’esperienza. A lei la pazienza di appurarlo, se vorrà scartabellare tra le carte scritte col sangue. Eppoi: ebbene sì, la vera letteratura è quella che lavora, prima di tutto, proprio sulla struttura. Guardi però che questo non lo dico io; lo dice tutto (o quasi) il Novecento letterario, italiano e non. A meno che, come fa Canzian nel suo elenco, non si voglia omettere l’esistenza del Finnegans Wake o de L’innominabile o del Pasticciaccio o di Corporale o del Viaggio al centro e di mille altri esempi grandiosi esempi di scrittura materica e antinarrativa (qui tralascio il rutto di gioia che m’è uscito dal cor nel rammentar tutta ‘sta tigre di carta). Inoltre, tanto per dirla tutta, non è che uno complica la lingua per il solo gusto di farlo; è che semplicemente la coglie nella sua essenza: è la lingua – e il suo relazionarsi con le cose (con la merda del mondo) – ad essere complicata; al miglior scrittore riesce di mostrarlo, non disdegnando di porsi di fronte a lei umilmente, per aggredirla e per amarla insieme (ma se il mondo è “complesso”, dico io totòniando, perché mai ‘sta robaccia che chiamiamo letteratura dovrebbe porsi così come suole secondum la syndrome del vacuum?). Se lei preferisce i giochetti finto-comunicativi e tutti uguali alla nientificazione, buon per lei; poi, però, mi permetta ancora, s’arristudi anche lei la storia delle lettere e forse potrà addivenire alla sorprendente e palpitante scoperta della lingua come primum movere dell’opera e della quasi – dico quasi, dunque non del tutto – inattenzione alle storielle; o meglio: è la lingua che porta alla storia. Punto e a capo (e qui ho sbattuto lo capo cadendo dal seggiolone).
    Non me ne voglia, suo Cûk-Utitz

  26. Cuk, la domanda era:
    “La migliore letteratura è sempre stata anti-narrativa, o no?”
    E la risposta, mi spiace per te, era e rimane: NO.
    Alcune opere della migliore letterature sono state anti-narrative. Moltissime altre invece no.
    Certamente la lingua è complicata, ma non è detto che lo scrittore migliore sia quello che sceglie l’opzione “mimetica” (che spesso è una scorciatoia) e mostra la complessità così com’è. Grazie mille, che la lingua sia complicata lo sa qualunque cittadino semi-alfabetizzato, o meglio ancora analfabeta. Che la lingua sia complicata lo sa chiunque rida ascoltando i versi di: “Siamo una squadra fortissimi”. Che mi importa di sentire qualcuno ribadire per l’ennesima volta che la lingua è complicata? Ma la complessità della lingua può essere usata, “dominata” e piegata a scopi espressivi o narrativi. La lingua di Beppe Fenoglio, per esempio. Non quella del “Partigiano Johnny”, di cui abbiamo solo parti di una stesura provvisoria rimontate dopo la morte dell’autore, ma quella compiuta della “Malora” o dei racconti di “Un giorno di fuoco”. E’ una lingua che ci lascia sbalorditi per la quantità di rimandi e riferimenti che la plasmano, eppure è una lingua che non fa sfoggio, non si pavoneggia, non mette in mostra la propria complessità. Non bisogna per forza essere D’Arrigo e scrivere “Horcynus Orca” per essere grandi scrittori.

  27. sono in vena di cineserie e in vena di uscire da queste sterili discussioni su cosa sia la letteratura e su cosa debba essere. Basta pensare che tutto questo fiorire di criticume avvinghiato alla parola, al fatto, al ghribizzo, al sociale, ecc.. (rigorosamente da soli o al massimo in coppia o in forma di quadriglia, ma mai tutti assieme, perdinci) nasce a posteriori rispetto al raccontare e quindi alla letteratura e alla poesia e a qualsiasi altra attività creativa. Anche quando si parte da ‘razionalizzazioni a priori’ difficilmente i risultati possono essere contenuti dentro i limiti fissati. Semplicemente non si riesce a circoscrivere tutto nel solo ambito della razionalità programmatrice e a volte questo procedere comporta vincoli tali da inaridire chi si occupa di attività creative. Una certa dose di razionale programma non fa male ma a dosi forti è più uno sfiancamento che altro. Personale opinione, ovvio.
    Visto che, come dicevo, sono in vena di cineserie eccovi un assaggino/stimolo di altra natura, da una riflessione sul pensiero di Mao comparsa su Carmilla ieri:
    L’indispensabile contatto tra lavoro intellettuale e pratica sociale. Dico pratica sociale e non praxis, termine ambiguo perchè troppo sovente usato come alibi da intellettuali rinchiusi nel loro sapere libresco e nella loro microsocietà elitista. Il legame con la pratica sociale è la capacità di situare la propria attività intellettuale nella realtà sociale circostante nel movimento generale della società. La pratica sociale è un rapporto attivo tra il lavoro intellettuale e le opzioni politiche e sociali di ognuno. (…) Il legame con la pratica sociale si esprime in una particella grammaticale molto semplice, quella che definisce la relazione tra l’intellettuale e l’oggetto della sua attività. Ci sono coloro che «lavorano su» il movimento operaio, la politica internazionale, le pratiche culturali. E ci sono quelli che «lavorano con» i sindacati, i movimenti antinucleari, l’ambiente in generale. (…)
    Mi piaceva molto quel ‘lavorano con’ (che per me non è certo imperativo, ma di invito) e lo posto.
    besos, bacioni et bacetti
    vado, devo uscire e ….con dei cinesofili per giunta

  28. No, Canzian, rasserenati, sono altre persone con cui mi dilettavo a studiare quel complicato idioma. Ho mollato (non sono mica un genio 🙂 ma riproverò.
    besos

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