Di cosa parliamo quando parliamo di Marche? Lucia Tancredi lo racconta in questo articolo. Che rimette il discorso sul terremoto dove deve stare: non è solo questione tecnica, ma culturale, nel senso più ampio possibile.
Se in questi giorni di tremore c’è una pena che mi prende è l’approssimazione con cui si parla delle Marche, sbadatura a cui i marchigiani non fanno quasi più caso.
Al tempo del “ Giovane favoloso” di Martone, i marchigiani avevano applaudito, e finanziato, un film in cui Giacomo Leopardi poteva essere tranquillamente romano, napoletano o toscoemiliano.
Il regista, volendo offrire l’immagine rivoluzionaria di un filosofo prepasoliniano (quello che nelle scuole viene spiegato da almeno vent’anni, secondo la lezione di Luperini), ha girato in grisaille eliminando il paesaggio – mentre quella meraviglia della Sala dell’Eneide di palazzo Buonaccorsi di Macerata diventava in una scena l’anticamera di un palazzo romano.
Le Marche, e il maceratese in particolare, sono il suo paesaggio. Lo dice bene Leopardi: sono l’idillio, la favola, l’innocenza del mondo. Questa partitura di colli dai Monti Azzurri al mare avvolge in ogni stagione con la sua pace vegetale. Nelle nostre vite imperfette e fragili muoiono anzitempo Silvia e Nerina, periscono le illusioni, scopriamo l’arido vero, ma in questo paesaggio siamo dentro una fulgida miniatura o sullo sfondo di un quieto rinascimento.
Ecco cosa significano i titoli dei giornali di questi giorni, quando dicono che è stato colpito “il cuore d’Italia”: il terremoto dentro l’idillio è la voragine in un’aiuola, la fine della favola, la perdita dell’innocenza. Quanto sia perfetto il paesaggio maceratese lo sapiamo andando a Belforte del Chienti, uno di quei paesi accolti a forma di quelli che i santi tengono in mano sopra un vassoio. Si va a Belforte per vedere una sola opera, uno dei dieci polittici più belli del mondo, una gloria di 30 tavole 5 tondi 2 riquadrii e predella, opera di Giovanni Boccati nel 1468. ma quello che ci interessa è uno studio fatto dai botanici dell’Università di Camerino durante il restauro: è stato rilevato che il prato su cui poggiano i sandali di san Giacomo, le pantofole dei santi Pietro e Venanzio, gli zoccoli del cavallo dagli occhi umani di sant’Eutizio riproduce in punta di pennello Taraxacum, Cichorium, Trifolium e Papaver. Insomma, un prato del Quattrocento non è diverso da quello di oggi, trifoglio e cicorietta.
Ma la lezione è un’altra. Siamo dentro un paesaggio culturale, alla ricerca del Quattrocento Umbratile marchigiano. Quello che alla fine dell’800 Bernard Berenson ricercava a piedi, zaino in spalla, scavallando colli, visitando pievi. Che Vittorio Sgarbi ha presidiato con le sue mostre, dimostrando che il Rinascimento non è un monolite e che i maestri marchigiani declinavano l’arte alla loro maniera, senza trucchi ottici o coloristici, più ripiegata e pensosa. Umbratile, appunto. Un’arte che si ammira non solo nelle pinacoteche preziose di Camerino, San Severino, Recanati, Sarnano, a Monte san Martino – 3 polittici dei Crivelli e un Gerolamo di Giovanni in una chiesa che pare una pievanìa, ad una navata col tetto a capanna, ma scavallando nel verde. Perché c’è sempre un buon vicino che apre le chiesette di Paterno o Parolito, dove quel meraviglioso pittore che è Lorenzo d’Alessandro ha steso le sue tenere tempere, i suoi giardini spizzettati di verdura.
In questo terremoto non ci sono morti, ma c’è un bollettino di guerra. Che fine hanno fatto Paterno e Parolito? Però resiste Macereto, il santuario bramantesco in mezzo alla montagna, coi suoi affreschi del de Magistris. Dal Museo Civico di san Domenico a Camerino hanno ricoverato al Muso Buonaccorsi di Macerata, tutto infagottato, quel capolavoro del Rinascimento che è l’Annunciazione di Spermento di Giovanni Angelo d’Antonio. Dove la città di Camerino è rappresentata come una novella Atene, tutta di marmo, porfido e serpentino, e Maria è sorpresa dall’angelo mentre legge, in un suo boudoir tutto pieno di libri, e potrebbe essere una dama di corte di nome Camilla o Primavera. Pare che queste siano inevitabilmente solo le terre del ciauscolo e del pecorino. E non si dice che un tempo erano signorie che hanno dettato un gusto e uno stile: i Varano a Camerino, gli Smeducci a san Severino, gli Ottoni a Matelica. E anche quando erano mercanti, non si trattava di gente terragna e alla buona. Il pittore Lorenzo Salimbeni da san Severino, che dipinge la sua santa Caterina come la dama più alla moda del Gotico Internazionale, è figlio di un mercante che, cita il documento, traffica in panno azzurro di sex – laddove sex non è la seta, ma la contea di Essex in Inghilterra. Andando verso la montagna, Visso non è un paese pastorale, ma un accrocco di romanico, gotico, rinascimento che trapassa l’uno dell’altro in un’armonia di forme troppo studiata per essere casuale. Intorno sono le terre della Sibilla con la quale viene da parlare, come facevano col paesaggio gli dei negli inni omerici. La Sibilla marchigiana non è la Natura sfingea di Leopardi, né una vecchia consumata per troppa esperienza. E’ giovane e morbida di carni negli affreschi di de Magistris a Serravalle, liberty e florida come una vergara, nell’etichetta dell’amaro Varnelli creata da de Carolis, a volte è scortecciata sopra un muro come una santa, o una vergine bizantina intagliata nel legno dolce. Nel mito la Sibilla ammaestra, insegna, racconta le storie che rimettono al mondo le cose, quando si perdono. Perchè il mondo povero di labbra non nasce mai, avverte la grande scrittrice marchigiana Dolores Prato, un poco sibilla pure lei.
E mai come in questo momento le Marche vanno raccontate.
Nel centro storico di Visso, transennato e inagibile, dentro la cattedrale è la Madonna Bruna veneratissima, giunta dal fondo dei secoli, la sposa della notte; protende braccia senza mani e pare alludere ad uno di quei riti d’iniziazione in cui la perdita dolorosa è l’ordalia per attraversare la selva sotterranea, dove sostare prima di vedere la luce.
Qualcuno deve raccontare che a Visso tutto parla di miti di perdita e resurrezione. I maestri pietraioli e intagliatori ovunque hanno riprodotto il patto della natura che rinasce con la curva serpentina della vite tenera, con la fioritura del cardo, la filigrana del pruno e del melo.
Passerà la nottata, passerà anche questo inverno.
Solo Lucia Tancredi Poteva dipingerci questo bellissimo quadro. Magnifica descrizione, come nel suo stile.