FINIRE IN UN INCUBO CONSULTANDO IL VOCABOLARIO

Certo che le parole sono importanti: ma non sempre nel senso in cui si intende questa frase.
Prendiamo Tom Joad in  Furore di John Steinbeck. Un romanzo. Che tanto ha fatto e tanto fa esattamente nel costruire un immaginario di rivolta.  Con le parole.

“Casy diceva che una volta era partito nel deserto, era andato per cercarvi la sua anima, e aveva scoperto che non aveva un’anima che fosse sua, ma che era solo un pezzo di un’altra anima immensa. E aveva capito che non bisogna andare a vivere nel deserto, perché il il nostro pezzo d’anima non può servire da sola, serve soltanto quando sta con gli altri pezzi dell’anima grande, e cioè quando si vive in mezzo agli altri uomini. Quando mi diceva queste cose, non mi pareva neanche di stare ad ascoltare; eppure adesso me le ricordo per filo e per segno. È perché anch’io ora ho capito che non bisogna starsene soli. Alle volte raccontava parabole della Scrittura. Me ne ricordo una, perché me l’ha ripetuta due volte. Diceva: Due è meglio che uno, perché ricavano maggior profitto dalle loro fatiche. Se uno cade, l’altro lo aiuta a rialzarsi, ma guai a chi è solo e cade, perché non c’è nessuno che lo aiuta”.

Con le parole si costruisce un controimmaginario rispetto a quello dominante. Non lo dico io, lo diceva Valerio Evangelisti, quando scriveva che con le storie ci si riappropriava delle parole che ci vengono tolte. Specie nella narrativa popolare:

“Il fatto è che la narrativa popolare, data la stretta simbiosi con i suoi consumatori, è per forza di cose narrativa di opposizione. Se poi ne diventa consapevole, si trasforma in una bomba. […]  Il “genere” ha una sua logica distruttiva incoercibile. Distruttiva verso il sistema”. Inoltre, la narrativa fantastica “con la sua natura di sogno consapevole, da cui si entra e si esce a volontà, costituisce un buon addestramento a evadere dai sogni imposti ed eterodiretti”.

Fin qui, suppongo, tutte e tutti d’accordo.
Ma c’è un’occasione in cui le parole diventano feticcio: ed è quando una frase considerata scorretta, magari perché inserisce il temutissimo schwa o, in caso di discorso orale, eccede in avverbi (“assolutamente”) o prende tempo per collegare le parti del discorso (“in qualche modo”), oscura il contenuto.
E’ capitato stamattina, sotto un post con le immagini della polizia che blinda il Teatro India, come aveva già fatto con il Teatro Argentina. Invece di preoccuparsi per quel che avviene, una signora ha strillato che all’assassinio dell’italiano.
Desolante.
Ho citato più volte un aneddoto e lo ripropongo:

“Molti anni fa, quand’ero poco più che ventenne e lavoravo a Radio Radicale, ebbi l’onore di intervistare Umberto Terracini. Esatto, proprio uno dei padri costituenti. Quella meravigliosa persona, di cui bevevo ogni sillaba, aveva un intercalare molto fitto: “nevero”, che stava per “nevvero”. Più o meno due “nevero” a frase. In quegli anni, frequentavo anche un altro resistente, tra i fondatori del Partito radicale, Sergio Stanzani. Altra mente eccelsa, con un altro intercalare, “mo bene”. Un “mo bene” ogni due frasi. Ridacchiando, poiché ero ventenne e ridacchiosa, immaginavo un dialogo fra i due fitto di “nevero” e “mo bene”.

Ma mai, in nessun momento, ho pensato che quel tic diminuisse di un sospiro l’importanza di quel che dicevano.
I tempi, pare, sono cambiati. Una persona che stimo mi ha scritto che il “come dire” di Valentino Parlato la infastidiva. E io ho fatto un salto sulla sedia: miliardi di “come dire” valgono bene il pensiero e le parole di un Parlato.
Pare, ancora, che non sia più così: che il tic, l’intercalare, l’accento esitante o sbagliato adombrino la complessità del pensiero che, vorrei sottolineare, è quello di un parlante, non di un annunciatore o di un fine dicitore o di un attore. Un parlante. Che nel momento in cui si pone a colloquio per esprimersi, incappa nelle esitazioni e negli inceppamenti che ogni parlante, fosse pure lo spettro del Gadda radiofonico, non può non avere, se si concentra su quanto deve dire e non sul numero delle B contenute in “libro”.
Qualcosa non va. Perché esiste una via terza tra i sentieri selvaggi dell’oltraggio alla grammatica e la ronda sull’oralità. Perché se oggi Umberto Terracini parlasse, a cosa andrebbe incontro? E cosa perderemmo, se ci si concentrasse sui suoi “nevero” e non su quel che aveva da dire?
Compadres, questo è un appello. Rivediamole, quelle Norme. Ripensiamole, e non permettiamo a noi per primi di rimanere impigliati nella sorveglianza dell’oralità. Perché, se posso, non scambierei quei “nevero” con alcuna perfezione oratoria. Alcuna”.

Si chiama distrazione, eh. Contare gli errori mentre si finisce lentamente in un incubo. Spero che prima poi si diventi consapevoli di tutto questo.

 

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