Certo che le parole sono importanti: ma non sempre nel senso in cui si intende questa frase.
Prendiamo quelle di Tom Joad in Furore di John Steinbeck. Un romanzo. Che tanto ha fatto e tanto fa esattamente nel costruire un immaginario di rivolta. Con le parole si costruisce un controimmaginario rispetto a quello dominante. Non lo dico io, lo diceva Valerio Evangelisti, quando scriveva che con le storie ci si riappropriava delle parole che ci vengono tolte.
Fin qui, suppongo, tutte e tutti d’accordo.
Ma c’è un’occasione in cui le parole diventano feticcio: ed è quando una frase considerata scorretta, magari perché inserisce il temutissimo schwa o, in caso di discorso orale, eccede in avverbi (“assolutamente”) o prende tempo per collegare le parti del discorso (“in qualche modo”, “come dire”), oscura il contenuto.
E’ capitato stamattina, sotto un post con le immagini della polizia che blinda il Teatro India, come aveva già fatto con il Teatro Argentina. Invece di preoccuparsi per quel che avviene, una signora ha strillato che all’assassinio dell’italiano.
Desolante.
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So di averlo già riproposto. Ma vale sempre, quando leggo critiche che riguardano l’estetica della parola più del contenuto. Che è, mi pare, il rumore bianco dei nostri tempi.
Esiste una via terza tra i sentieri selvaggi dell’oltraggio alla grammatica e la ronda sull’oralità. Perché se oggi Umberto Terracini parlasse, a cosa andrebbe incontro? E cosa perderemmo, se ci si concentrasse sui suoi “nevero” e non su quel che aveva da dire?