C’è qualcosa che non ho mai dimenticato, e che appartiene a un tempo lontanissimo. Entrare nella platea di un teatro mentre si stanno facendo le prove. Dunque, entrare in punta di piedi, col rispetto che si deve, temendo lo scricchiolio delle scarpe. Scivolare su una poltrona, trattenendo il fiato perché anche le poltrone scricchiolano, e il silenzio non va rotto. Osservare. Ferma, ricomincia, ancora.
Ci ripensavo lunedì sera nel retropalco del Teatro Quirino, ci ho ripensato ieri, guardando fotografie che non avrei mai voluto vedere: l’esercito schierato davanti al Teatro di Roma per proteggerlo da un gruppo di artisti che manifestavano contro la scelleratezza dello spettacolo (non teatrale, ma politico) in corso.
I teatri. A vent’anni e poco più seguivo come spettatrice silenziosa le prove di Lorenzo Salveti per il saggio finale dell’Accademia d’Arte Drammatica (era il Teatrino delle Meraviglie di Cervantes, gli allievi sono oggi famosi: Nicoletta Braschi l’ho vista in scena per la prima volta così). Più avanti, seguivo le prove di Sandro Massimini, con cui mio marito ha lavorato da quando eravamo due ragazzi, fino a quasi trent’anni fa. E Sandro è uno degli amici perduti, quello che mi diceva “non sono queste le cose importanti”, quando soffrivo per delle sciocchezze. Ferma, prova, ricomincia. Le parole leggere dell’operetta, tutte quelle grisette, tutti quei ticche-tacche, quelle Salomé, quei cin-ci-là, quelle vedove Cliquot, quelle rificolone, quei campanelli, quei tace il labbro.
Per decenni sono andata a teatro tutte le sere: prima quando scrivevo per Sipario, poi per amore. Entravo in teatri che oggi, in molti casi, sono chiusi e spenti, e mi capita a volte di ricordare la bellezza vellutata del Teatro Valle o la piccola grazia del Teatro La Cometa, , o l’ammiccamento familiare del Teatro Centrale, che oggi è un disco-bar, e ancora c’erano piccolissime sale come il Teatro Goldoni, che era anche un pub e che oggi, restaurato, ospita iniziative e incontri a Palazzo Altemps, e c’erano i bugigattoli che però ospitavano attori e storie diverse dagli altri, e ogni tanto mi chiedo come sia possibile non andare tutte le sere a teatro come facevo da ragazza, e mi ricordo quanto mi faceva sentire viva, e quanto in effetti era più viva Roma, coi suoi teatri che oggi, spesso, sonnecchiano nell’oscurità, senza neanche poter ricordare le porte dei camerini che sbattono, le risate mentre ci si trucca, il direttore di scena che esclama “signori, la mezza”, le luci che si abbassano, il pubblico che scarta le caramelle per non tossire.
Per questo sono sconcertata e anche disgustata. Ha ragione Christian Raimo quando scrive che “il Comune di Roma in questi ultimi ha tradito le promesse su tutti gli spazi. Dal Valle all’Angelo Mai, dal Nuovo cinema palazzo al Brancaleone, dall’Esc a Communia, dall’Ex Dogana al Collatino Undreground, e ora persino al Teatro di Roma”.
Hanno ragione le artiste e gli artisti che hanno partecipato all’assemblea cittadina di cui trovate qui la cronaca. E abbiamo ragione noi che abbiamo amato e per quanto potevamo servito il teatro, nel dire che non è con la moltiplicazione delle poltrone che si restituisce uno degli spazi amati alla propria città.