205. STORIE DAI BORGHI. VEDERE, RICONOSCERE. I FANTASMI DI CAMERINO.

C’è qualcosa che temo, nei rapporti che si intessono dentro e fuori la rete: la perdita della capacità di vedere. Ne facevo cenno nel post di lunedì, a proposito delle donne, ma credo valga in assoluto e al di là della questione di genere. Vedere non significa essere empatici: lo ha spiegato molto bene la filosofa Laura Boella pochi giorni fa a Fahrenheit, e ancor meglio lo spiega nel suo libro, Empatie, e in tanti altri testi:”L’empatia ci permette di riconoscere il valore della presenza degli altri esseri umani che esistono nel mondo con noi. È un riconoscimento dell’altro che però non va inteso come il mio doppio. Con l’empatia si mette in primo piano la relazione tra esseri umani. Se si considera questo, si capisce che l’empatia è la presa d’atto di un fatto fondamentale della condizione umana: noi non esistiamo in quanto soli ma sempre in relazione con altri”. Questo, per me, significa “vedere”.
Quello che nel mio piccolo provo a chiedere da oltre un anno è che si “veda” qualcosa che sta accadendo, oggi, qui. E su questo lascio la parola ad Antonella Chiucchiuini, su Camerino. Buona lettura. Buona visione.
ANCORA ZONA ROSSA di Antonella Chiucchiuini
Esattamente un anno fa tornai dalle vacanze di Natale (per la prima volta trascorse a Civitanova da semi-terremotata iscritta all’AIRE) con in testa l’immagine di Camerino città sospesa dal futuro incerto. Non potevo immaginare che la “sospensione” fosse l’unico futuro sicuro per la mia cittadina. Durante queste vacanze natalizie ho visitato la zona rossa per la prima volta a piedi, a dieci mesi dal trasloco. Rivedere le strade di Camerino vuote non è né insolito né di per sé scioccante, ricorda le passeggiate di un pomeriggio di domenica troppo caldo o troppo freddo degli anni passati. Camerino vuota di vita è invece un’altra cosa: il freddo intenso non è il solito freddo se non ci sono negozi con le porte aperte in cui ripararsi e se non traspira il calore dalle case abitate. Gli occhi cercano inconsciamente una presenza umana: una cartaccia o una cicca spenta. Non c’è più nulla, neppure i piccioni e forse i topi. Il silenzio poi è sconcertante, le orecchie sono tese a cercare un qualunque scricchiolio indicante un segno di vita, ma deluse ci spingono a parlare ad alta voce.
Le abitazioni private del centro non sono ancora in sicurezza, i detriti indicano lo sgretolamento delle crepe, alcune facciate irrimediabilmente gonfie, con i portoni che non si chiudono più, ricordano la pancia gonfia di qualcuno che dopo un lauto convito è obbligato a rimanere fermo e ad allentarsi la cintura dei pantaloni. Guardo tutte le case con lo stesso affetto di casa mia, di alcune conosco gli interni e il calore delle persone che vi abitavano, di altre ricordo solo i soffitti dipinti che si vedevano attraverso le finestre aperte o le scale degli ingressi antichi dalla decadente bellezza. Di fronte alle pareti squarciate ai piani alti di vecchi edifici in pietra, osservando il tribunale scuoiato che mostra l’ossatura e i gabinetti in vista senza pudore o incontrando una macchina schiacciata da un masso, ringrazio di nuovo Dio per l’assenza di morti e feriti. Di fronte alla chiesa di San Filippo, ora ingabbiata da una impalcatura rossa pianificata per la ricostruzione che, quasi come un monumento ai caduti e alla speranza, si estende come a proteggere la parte che ormai non c’è più, la mia intelligenza, da sempre povera di capacità mnemoniche, ma ricca di fantasia, comincia a immaginare il futuro. Ammetto che devo fare uno sforzo per vincere la reticenza e la paura di inoltrarmi in un ambito che sa di fantascienza. Intuisco quali palazzi dovranno essere abbattuti (perché aspettiamo?), le aree dove verranno create piazze con alberi e panchine (per favore, niente parcheggi!) dove rifugiarsi in caso di ulteriori terremoti. Mi immagino una cittadina moderna, funzionale e bella (perché anche il moderno può essere bello ed può integrare l’antico esaltandolo), in cui potrò tornare a dormire sonni tranquilli nella mia casa, dove i negozi, rientrati nei luoghi originari, forse gestiti dai figli o dai nipoti degli attuali proprietari, approfitteranno della migliore viabilità del centro che permetterà una distribuzione più efficiente. Le chiese ed i grandi edifici pubblici antichi saranno ancora tutti in piedi grazie ad evidenti soluzioni architettoniche futuristiche. Noi della terza età gireremo orgogliosi della cittadina rinnovata grazie alla tenacia di chi è rimasto a combattere per la ricostruzione aiutando le istituzioni e le altre principali componenti sociali a collaborare tra loro. Passeggiando con i nipotini indicheremo dove erano le scuole e i palazzi abbattuti, osserveremo studenti di architettura girare per le vie del centro per studiare le soluzioni antisismiche innovative, guarderemo frotte di turisti che ammirano le bellezze antiche e nuove e che fanno la fila per visitare i nostri musei dove nulla è andato perduto. Alla rocca incontreremo mamme giovani che si sono trasferite a Camerino da poco, attratte dalle potenzialità lavorative in parte collegate alle attività dell’Università.
Verso la fine della visita sono richiamata alla gelida realtà: i fondi a disposizione forse non permetteranno la sostituzione di palazzine alte abbattute con edifici più bassi e sicuri perché l’estensione della superficie del tetto è troppo costosa. Mi rendo allora conto che neppure il secondo terremoto è sufficiente per insegnarci che è meglio investire nella prevenzione piuttosto che affrontare le emergenze e mi immagino di nuovo nella mia casa nei vicoli del centro, ricostruita esattamente come era prima, da cui io anziana una notte del futuro uscirò di corsa in ciabatte aiutata dai miei nipoti a scavalcare le pietre che ostruiscono entrambe le uscite del vicolo, per poi trasferirmi in un appartamento in affitto a Civitanova, confidando nel contributo per l’autonoma sistemazione fino alla mia morte. Vogliamo veramente che la storia si ripeta come per mia nonna che dopo il terremoto del ’97 non rientrò più a Muccia e come per mia madre che da Civitanova ormai non spera più di tornare a Camerino?

2 pensieri su “205. STORIE DAI BORGHI. VEDERE, RICONOSCERE. I FANTASMI DI CAMERINO.

  1. Sai la cosa che mi ha piu’ colpito nel tornare a leggere il tuo blog? Che avevo completamente dimenticato il terremoto nelle Marche di due anni fa. E mia madre e’ di Castelraimondo, vicino Camerino! Non ci vive piu’ da tanto, ma abbiamo parenti ancora li’, e ricordo vagamente conversazioni telefoniche con la mia famiglia per capire come stessero. Ma poi e’ finita li’. Una normalizzazione della tragedia. Mi ricordo meglio il terremoto della fine del 1997, ma perche’ lo associo a vicende personali (accadde poche settimane dopo che me andai all’estero, dove sono rimasto da allora).
    Perche’ dico tutto questo? Perche’ una parte di me vorrebbe minimizzare il tutto e dire che il motivo per cui avevo scordato, il motivo per cui ho smesso di essere disgustato e’ colpa dei media: “non ci fanno vedere la verita’ della tragedia!”, e’ stato il mio riflesso mentale. Ma la realta’ credo sia piu’ complessa: i media credo c’entrino poco. C’e’ un’assuefazione, un processo quasi di calma indotta con ipnosi di fronte a queste cose. Ma anche questa credo sia una spiegazione che mira solo ad un’autoassoluzione (non e’ colpa mia, e’ l’ipnosi!!!)
    Ne parlavo recentemente con una conoscente portoricana che ha famiglia a Portorico, devastata dai tornadi pochi mesi fa, e dove ancora manca tutto, dall’acqua corrente all’elettricita’, senza che nessuno ne parli. E mi diceva che anche lei si trovava ad essere disgustata dalla mancanza di notizie sui media. Ma anche lei suggeriva che c’era dell’altro. Un’assuefazione. Un’inabilita’ di mettere a fuoco certe cose.
    Commento inutile, me ne rendo conto. Forse solo per dirti che i tuoi articoli sul terremoto sono belli.

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