Antonella Lattanzi è una scrittrice brava e seria (quando dico seria penso – anche – a quando mi ha raccontato di averci messo anni per scrivere Devozione: e il particolare, oggi come oggi, non è secondario). Su La lettura del 2 settembre è intervenuta con un articolo titolato “Basta con la deriva delle quote rose anche in letteratura”. Nel testo, Lattanzi implora di finirla con le sezioni femminili nei festival, con i medesimi interamente dedicati alla scrittura femminile, con i premi al femminile. Genderizzare un libro, scrive, significa sminuirne il valore. “Derive moraliste – scrive ancora – reclamano quote rose dappertutto, altrimenti l’accusa è di sessismo”.
L’11 settembre, Antonella Lattanzi firma un post per la 27esima ora. Il titolo è Donna e femminismo sono due cose distinte. Sottolineo due affermazioni. La prima:
“Mi piacerebbe che nessuno reclamasse per forza una quota femminile per esempio in un’antologia, ma che la scelta fosse solo e sempre il valore assoluto, il merito: altrimenti agli occhi di chi la fruisce (non di chi la fa) qualunque cosa solo perché è fatta da una donna è una sorta di concessione al sesso debole“.
Antonella Lattanzi ha ragione su molti punti. Che “genderizzare” significhi, più o meno esplicitamente, togliere merito, specie quando si parla di letteratura, è vero. Pensate soltanto a Jane Austen e alla sua utilizzazione in chiave “romance” fatta negli ultimi anni da parte di lettrici ed editori. Sì, Austen, che Virginia Woolf definiva come un “attizzatoio di cui tutti hanno paura” per l’intelligenza e lucidità dei suoi romanzi, viene minimizzata e disinnescata in quanto creatrice di storie matrimoniali a lieto fine. Fra le infine riscritture, esiste anche un manuale di Lauren Henderson, che si chiama Come trovare l’uomo giusto secondo Jane Austen, (Jane Austen’ s guide to dating ) ed è basato su una semplice equivalenza, perché, secondo Henderson, i romanzi di Austen suggeriscono già come vivere amori a lieto fine: “quei libri, oltre a essere storie meravigliose, sono perfetti manuali per chiunque voglia imparare a trovare la persona con cui trascorrere tutta la vita. I tempi sono cambiati, ma i valori e i concetti individuati dalla Austen si applicano al ventunesimo secolo così come alla società di cui lei scriveva due secoli or sono”. E dunque, “se lui ti piace, faglielo capire”, “fidati dell’ istinto” ma “non fidarti delle sue chiacchiere”, “se lui merita una ramanzina, fagliela, agli uomini non piacciono le donne che danno sempre ragione”. Per finire col quiz: “Che eroina di Jane Austen sei?”.
Quello di Austen è un caso. Ce ne sono mille, diecimila: li ricordava Helena Janeczek in un gran post sull’editoria di genere uscito su Nazione Indiana all’inizio di giugno. Mille, diecimila casi dove un romanzo viene addolcito e cosparso di essenze profumate (nella copertina, nel titolo, nel testo) per rivolgersi esplicitamente alla lettrice.
Dunque, la genderizzazione letteraria esiste già. E viene praticata con perseveranza, spesso raccontando la stessa storia: anche l’assai discusso best seller estivo è, nei fatti, non un romanzo sul sesso, ma la storia di Cenerentola (vergine sposa miliardario).
Detto questo, non fa piacere neanche a me l’area protetta. Ma se quell’area protetta serve a non far scomparire le donne, la ritengo non liquidabile in poche battute. Non mi piacciono le quote rosa nelle antologie letterarie. Mi piacciono meno le antologie dove non ci sono donne, o gli studi sulla letteratura degli anni zero dove le donne sono una parte piccolissima (quattro a ventuno nella raccolta curata da Andrea Cortellessa), come se la loro autorevolezza fosse minima. Mi piace ancora meno il dato che riguarda le scrittrici recensite (54 su 256 sul Corriere della Sera, nel 2011, 100 su 450 per il gruppo L’Espresso: sul resto stiamo lavorando).
Dunque, nel migliore dei mondi possibili Antonella Lattanzi ha ragione. In quello attuale, l’analisi mi lascia qualche dubbio. Vengo così alla seconda affermazione:
“Il punto è anche che se si parla di donna non si parla per forza di femminismo, sono due cose distinte. Circoscrivere l’argomento donna al femminismo è un altro modo di rinchiuderlo e renderlo innocuo, come quando si ascrive ogni teoria non ufficiale al «solito esagerato complottismo» (ma la paura, in realtà, qual è?). Ti prendo in giro? Ti tolgo credibilità, ti rendo insignificante”.
Naturalmente no, femminismo e donna non sono sinonimi. Non mi piace affatto, però, la progressiva demonizzazione della parola femminismo: che di certo non è nelle intenzioni di Antonella Lattanzi, anzi. Eppure i femminismi sono movimenti che lottano per tutte le donne, anche per coloro che interpretano i medesimi come una faccenduola da moraliste isteriche. Questo varrebbe la pena di ricordarlo, specie in un momento in cui si tenta esattamente di compiere l’operazione che Lattanzi paventa. renderlo ridicolo, annientarlo, dimenticarlo. Perché c”è la crisi economica, eh, e la donnità, la femminilità, la mamma sono tutte cose utilissime. Pianificare l’attacco significa essere perfettamente consapevoli di questo.
nell’antologia che citi sui narratori degli anni zero l’autorevolezza femminile è notevolissima, tanto che il curatore vi ha inserito un’autrice che non ha neppure esordito in quel decennio. le scrittrici brave sono atemporali.
Concordo. Ma sono, davvero, solo quattro? 🙂
Cara Loredana,
ti ringrazio per aver sollevato un dibattito – anche – a partire dal mio articolo, mi fa molto piacere. gli articoli sono fatti per questo, io credo. come tutte le cose scritte con “serietà” (e la serietà di cui parli tu, è per me una qualità bellissima, e ti ringrazio anche di questo) e passione. le cose scritte vivono se c’è qualcuno che le legge, che ne parla, che ci discute su.
per quanto riguarda la demonizzazione del femminismo. non era mia intenzione, ma proprio per niente. anzi. scrivo infatti:
“poiché femminista è una di quelle parole – come comunista, rivoluzionario, sessantottino – ormai svuotate di significato e usate come generico insulto o, a voler essere gentili, come beffarda critica che vuol dire solo e sempre: il solito (depresso) idealista. Siamo tornati a prima del 1882, quando femminista era un dispregiativo usato per un uomo femmineo. Senza pensare che, senza questa parola, io non avrei nemmeno il diritto di stare qui a parlare”.
se non mi sono spiegata, tento di spiegarmi meglio.
prima di tutto con un commento che ho scritto al mio articolo, in cui cercavo appunto di puntualizzare alcune cose importanti:
“In questo commento cerco di rispondere un po’ a tutti, scusatemi se dimentico qualcosa, non è voluto; la questione è scivolosa ma per me importante, cercherò di essere chiara e diretta.
Una questione importante da sottolineare e su cui interrogarsi è: perchè esistono le quote rosa?
In un mondo leale non ci sarebbe bisogno di quote rosa (o di altre quote), perchè in quel mondo le persone non sarebbero considerate per sesso (o per altri parametri) ma per qualcosa che potremmo chiamare, di volta in volta, idoneità, merito, talento, qualità, competenza e così via. in questo modo i diritti elementari sarebbero tutelati e non ci sarebbe bisogno di estorcerli continuamente.
Non sono dunque contro le quote rosa in assoluto. Anzi: credo non esista in merito un sì o un no generalizzato, e tento di spiegare perchè. Dato che mio dovere e piacere è parlare anche alla realtà, non posso e non voglio parlare di un mondo ideale, ma di questo mondo. e in questo mondo io sono contro le quote rosa quando usate come mezzo di discriminazione, il loro uso in ogni campo, o la loro deriva moralista. Un esempio pratico è quello della cultura e delle arti: lì le quote rosa non servono, perchè sminuiscono il valore della persona, dell’individuo (cioè, se in un’antologia ci sono donne perchè devono esserci e non per i singoli scrittori, ciò viene percepito come: accontentiamo il sesso debole, che da solo non ce la fa). ma in altri campi non posso essere contro le quota rosa e non lo sono, perchè ci sono aspetti fondamentali della vita, come per esempio la politica, a cui se non ci fossero le quote rosa le donne non avrebbero accesso o lo avrebbero con molta difficoltà. in Italia siamo davvero sicuri che in questo momento ci sia la possibilità di eleggere un Presidente della Repubblica donna? Siamo sicuri, davvero, che oggi, se ne avesse il talento, la competenza, l’idoneità, una donna potrebbe diventare per esempio Premier? La risposta in un mondo leale è intuitiva e fulminea: sì. senza pensarci una volta.
E’ contro il bisogno delle quota rosa che parlo, non contro le quote rosa tout-court. Non contro il femminismo – spero di averlo detto in maniera chiara nell’articolo – ma contro l’uso sleale di questa parola (femminista = idealista o frustrata o frigida, e sappiamo tutti che c’è chi usa la parola femminista dandole questo significato) e contro chi pensa che femminista e donna siano sinonimi: non lo sono per niente, e dire che non lo sono per niente non vuol dire sminuire il valore salvavita del femminismo, ma solo dare il giusto peso e la giusta importanza all’identità delle parole. E’ contro chi pensa che la parola donna sia prima di tutto un problema; e poi un problema delle donne, che io parlo.
Volevo infine ricordare che il mio non è un articolo sul femminismo, ma sui tanti aspetti della deriva del genere, e sull’abuso o lo stravolgimento del significato di tante parole salvavita, come appunto è “femminismo””.
voglio dire: per me femminismo, come parola e come contenuto, come rivoluzione e come atto storico, è salvavita. non potrei scrivere, se non ci fosse il femminismo. non potrei lavorare. non potrei PARLARE. non lo sto demonizzando. anzi. mi spiace se sembra così. sto dicendo che se svuotiamo di significato parole come rivoluzionario e femminista (che sono parole potenti che a me piacciono tantissimo) allora le rendiamo ridicole, e se le rendiamo ridicole le rendiamo innocue. innocue non perchè, per nascita, siano demoniache, ma perchè, per nascita, sono potentissime, rivoluzionarie esse stesse, fautrici di vita.
non so se mi sono spiegata un po’ meglio. e ti ringrazio, loredana, davvero. anche per avermi dato questa possibilità, e per tutto quello che col tuo lavoro rendi possibile.
Ma grazie a te, Antonella! “Contro il bisogno delle quote rosa”. Sono perfettamente d’accordo. Credo che ognuna di noi sia incappata, nel proprio lavoro, nella fatidica frase “ci vuole una donna” (a una tavola rotonda, in un’antologia, in un articolo, eccetera). Ma – e la domanda non è retorica – come si arriva a estirpare questo tipo di bisogno?
E’ da tanto che ci penso. E’ da tanto che mi arrabbio – non mi innervosisco, mi arrabbio proprio – quando qualcuno mi dice tra il sornione, il tenero e lo strafottente: – Mah, secondo te ci dobbiamo mettere anche una donna?
Una donna?! – gli vorrei dire – Ma come ti permetti.
come si arriva. non lo so. forse potremmo cominciare, ogni volta che ci pongono domande come quella che hai detto tu, facendo notare che non siamo specie protetta. ma “persona”, singolare, femminile.
tu che ne pensi?
Penso che il mondo letterario sia molto spesso più conservatore di quanto si creda, soprattutto sulla questione gender. E’ un paradosso, perché dovrebbe essere, invece, quello dove stereotipi e gabbie vengono visti come fumo negli occhi. E che bisogna cominciare proprio da qui, per tentare di cambiare le cose.
E’ vero. è verissimo. sono d’accordo su ogni parola.
Si puó iniziare opponendosi sempre a affermazioni del tipo “ci vuole una donna”. Questo é l’unico modo se si agisce da soli. E’ difficile, faticoso e, in alcuni casi, perfino pericoloso. Si agisce con gli strumenti che si possiedono, nel contesto in cui si opera, e concordo con Loredana, il mondo letterario é particolarmente importante, un mondo in cui si puó fare molto anche da soli.
Riguardo alla parola femminismo trovo grosse analogie con il “trattamento” della parola comunismo. In questo ultimo caso tutti condannano o magnificano senza conoscere, facendo di tutta un’ erba un fascio.
Cara Loredana, le tue due affermazioni «Non mi piacciono le quote rosa nelle antologie letterarie» e «Mi piacciono meno le antologie dove non ci sono donne, o gli studi sulla letteratura degli anni zero dove le donne sono una parte piccolissima (quattro a ventuno nella raccolta curata da Andrea Cortellessa), come se la loro autorevolezza fosse minima» sono in contraddizione una con l’altra.
Se il curatore di un’antologia, che non ha pregiudizi sciovinisti, reputa che quei venticinque autori siano i migliori e decide di non osservare quote rosa (per i motivi che emergono dal tuo dialogo con Antonella Lattanzi), per ipotesi le donne ivi comprese possono essere meno di quattro, anche zero. Se i suoi criteri sono esclusivamente letterari, si discuteranno quelli. E non si contrabbanderanno magari altre insoddisfazioni (legittime, ovvio, ma da esplicitare apertamente) con rivendicazioni di genere o addirittura numerologiche (come da tempo fa Sergio Garufi, con ostinazione degna di miglior causa, per sua personale avversione nei confronti di un singolo autore – che poi, per ironia della sorte, è appunto una donna).
Se invece il curatore di un’antologia osserva un criterio gender (come Giovanna Rosadini in Nuovi poeti italiani 6) fa benissimo a includere solo autori donna, ovviamente, e saranno quelli a essere discussi. Come per inciso ho fatto io qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=6455.
Ciao, Andrea
Salve Andrea. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia dubbio: non ho alcun tipo di insoddisfazione implicita da evidenziare. Ho semplicemente avanzato un dubbio: possibile che solo quattro autrici siano da ritenersi autorevoli? In questo caso la domanda era retorica: ovviamente, dal tuo punto di vista, sì, o le avresti incluse. Ma allora rilancio e chiedo, non retoricamente: com’è possibile? Restano un passo indietro? Non hanno lingua, idee, coraggio letterario? E perchè?
Quanto all’antologia esclusivamente femminile, potrebbe avere un senso, ma qui devo concordare con Antonella Lattanzi in pieno: è, comunque, un ghetto.
Loredana, non si può chiedere a un’antologia di motivare tutte le esclusioni. Di 60.000 novità letterarie che escono ogni anno in Italia quante sono opera di donne? Sarebbe interessante farla, questa statistica. Fossero solo il 10%, dovrei spiegare il motivo di 6000 (e anzi, 6 x 12 – ché sono dodici gli anni coperti dall’antologia, spiacente per Garufi – 74.000) rifiuti?
Quello che si può fare con le antologie è motivare le inclusioni, invece. In modo che possano essere discusse, appunto. Non tutte le antologie pensano necessario di dotarsi di questo che non è un orpello accademico o narcisistico o altro dell’antologizzatore, ma appunto la “regola d’ingaggio” del genere-antologia. Se quello che viene detto nei cappelli o nell’introduzione di Narratori degli anni zero ti pare discrimini a priori la scrittura delle donne, fallo notare, e di quello discutiamo.
non esprimo nessuna insoddisfazione personale, in quell’antologia non potevo starci perché esordii più tardi, nel giugno 2011. sarebbe come accusarmi d’invidia da esclusione perché critico un’antologia di narratori under 25 (io ho 49 anni, per la cronaca).
Sergio, abbiamo già discusso in privato, ma tu insisti e allora facciamolo in pubblico. Il discorso che fai sulle date non sta in piedi per due motivi, 1) perché io considero il decennio iniziato nel 2001 e finito nel 2010 (tu sei di opinione diversa? liberissimo, c’è ancora chi è convinto che la Terra sia piatta, ma non puoi asserire che il tale autore «non ha esordito in quel decennio»: per te non l’ha fatto, per me sì e l’antologia l’ho fatta io e non tu); 2) perché in ogni caso molto apertamente, sin dalle prime pagine dell’introduzione, non ho considerato rigidi questi paletti: dal momento che letterariamente per il percorso che propongo al lettore era essenziale avere dentro degli autori che hanno esordito nel 1999 (cioè Pincio, Nori, Cornia e Pascale), io dal 1999 ho cominciato (annata che né per te né per me mi pare possa essere considerata far parte degli anni Zero).
Non ti sta bene che sia inclusa Gilda Policastro? Allora ti prego di prenderti la responsabilità di spiegare perché, letterariamente, non andava inclusa.
http://it.wikipedia.org/wiki/Anni_2000
Ti rendi ridicolo Andrea, lo dico per la tua reputazione. Su wikipedia il decennio degli anni zero va dal 2000 al 2009, evidentemente anche l’enciclopedia ce l’ha con la Policastro, o è invidiosa della propria esclusione.
Caro Sergio non so chi è più ridicolo, se il sottoscritto o chi tiene Wikipedia per Vangelo. Al punto 2 poi non rispondi, mi pare.
Caro Andrea, wikipedia è il primo risultato dei motori di ricerca, ne potevo citare altri e comunque è gente che non pensa che la terra sia piatta o rosica perché non l’hai inclusa in un’antologia. Neanche tu rispondi a questo.
Se non fossero Cortellessa e Garufi sembrerebbero due troll che stanno cambiando argomento – ma forse erano meglio due troll. Complimenti.
Ma scambiarvi il numero di cellulare e insultarvi a voce, che almeno dal tono capite se l’affermazione è ironica o assertiva, no? Che poi esistono anche le chat, per litigare in privato.
@ Ma basta!
Allora, torniamo in topic. Ma già ci siamo. La questione del decennio «anni Zero», che Garufi pensa sia normata da Wikipedia in termini di legge, consente benissimo di farlo. Perché (e questo diceva il punto 2 su cui Garufi non sa cosa dire) il decennio in questione, nell’antologia in questione, viene interrogato letterariamente e non numerologicamente. Gli Anni Zero per me cominciano, letterariamente, con Pincio e finiscono con Policastro: questi sono il primo e l’ultimo autore incluso. (Potrei precisare ulteriormente, e nell’introduzione lo faccio, che in realtà cominciano con Pincio e con Pincio finiscono: perché libro decisivo – in termini “epocali” – viene da me considerato Lo spazio sfinito, che esce nel 2000 e viene ripubblicato appunto nel 2010; ma il discorso sarebbe lungo e invito a farlo in altra sede – appunto per non allontanarci dall’argomento.)
Se però il discorso è appunto letterario e non numerico (come diceva Lipperini stessa contestando il concetto di “quota rosa”) non vedo come si possa essere accusati di dare «autorevolezza minima» alla scrittura delle donne facendo un computo appunto solo numerico (4 su 25): senza entrare nel merito di chi siano, quelle quattro donne, e del perché esse siano state incluse nell’antologia. Magari, se lo si facesse, si potrebbero avere ulteriori argomenti in negativo; oppure no. Ma non lo si fa. Si fa invece appunto, dopo averlo escluso a priori appena una riga prima, un discorso di “quote”. Il che mi colpisce perché per esempio è stato calcolato (da Ambra Zorat, la cui documentatissima tesi sulle antologie di poesia e la presenza in esse di poeti donna, è consultabile in rete) che l’antologia di poesia, dal 1945 al 2010, che ha dato maggiore spazio alle autrici è stata Parola plurale (Sossella 2005), con circa il 18% (nessuno di noi otto antologizzatori aveva mai calcolato la percentuale, appunto). Una “quota” che fra l’altro, sempre fenomenologicamente parlando, aumenta in corrispondenza degli ultimi decenni. Come dico nell’articolo del manifesto ripreso da Le parole e le cose, questo si deve evidentemente all’onda del ’68 e alla “presa di parola” delle donne che in poesia, negli ultimi due decenni circa, è stata secondo me impressionante. Non quantitativamente, criterio che per me non ha senso, ma qualitativamente. Il che giustifica appunto, ai miei occhi (ma non a quelli di altri critici, da me citati) un’antologia come quella di Rosadini, senza renderla necessariamente un «ghetto»: perché fotografa (o tenta di fotografare) un fenomeno che è evidente a ogni lettore di poesia. Ora, la domanda che poneva Lipperini è: possibile che in narrativa questo non avvenga? La risposta della mia antologia, che mi pare aver dimostrato non nutra pregiudizi sciovinistici, è no. Non è un caso che delle quattro autrici incluse due (Pugno e Policastro) siano anche, se non soprattutto, autrici di poesia (o che le altre due, Vorpsi e Jones, abbiano una scrittura fortemente influenzata dalla grammatica della poesia: in senso visionario e/o ritmico). Quella «scrittura corporale», che in poesia (dopo Amelia Rosselli) è stata in grado di introdurre anche i contenuti, i temi della condizione femminile nella sostanza linguistica (e non appunto contenutistica) della nostra letteratura, in narrativa fatica ancora – secondo me, ovviamente – a farsi sentire credibilmente. Ma chi l’ha saputa interpretare, invece, mi pare abbia sempre avuto ascolto da me (come tutta la mia storia di critico, ridicola o autorevole, mi pare dimostri a sufficienza).
Provo a spiegarmi di nuovo e riformulo la domanda: non sto certo mettendo in discussione l’autorevolezza delle quattro autrici inserite, Andrea (ma scherziamo?). Mi sto chiedendo “come mai” il numero delle scrittrici considerate autorevoli NON SOLO DA TE (perchè ho citato l’antologia, ma anche il numero delle recensioni su quotidiani) è inferiore a quello degli scrittori considerati autorevoli. Questo non riguarda la tua persona né le tue scelte. Riguarda UNA PERCEZIONE della scrittura femminile che è, a mio parere, generale e diffusa.
L’autorevolezza di un* scrittor*, artist* è percepita nello stesso modo da una donna e da un uomo? Bisognerebbe occupare i posti di chi decide cosa è importante leggere, vedere, ascoltare e cosa no, e in questo caso le quote rosa possono essere d’aiuto, poi ovviamente non è detto che una donna con un forte potere decisionale sia anche femminista e che faccia aumentare il numero di autori e pensatori donna selezionati e resi fruibili, ma qualche possibilità in più la aggiungerebbe. Manca il potere, altra parola, per carità, da dire sottovoce. 🙂
banalmente per una questione di tempo. se noi lettori ( ma pure lettrici ) diamo un’occhiata ai libri in casa troviamo che la maggior parte sono scrittori. c’è un blocco dei “grandi” che nel tempo calerà in percentuale. questo si riverbera anche per le recensioni. io ammetto di non avere una scrittrice del cuore ( per quanto ultimamente pugno, policastro, tomassini, vorpsi etc. ). solo che questo discorso è problematico. da un lato mette in luce una disparità in partenza, ma una disparità non discriminante; da un lato a me pare che un’antologia già discrimina di suo, poi che si metta l’accento sul genere non ha senso per il discorso letterario e alla fine ha poco senso anche per il resto. può essere scarsa attenzione alle scrittrici o scarsa autorevolezza delle scrittrici ( impossibile stabilirlo ).
Cortellessa per restare in topic ha introdotto l’argomento dell’invidia di ciò che non ci appartiene, tipo l’invidia del pene, e quando lo si ridicolizza glissa e accusa gli altri di non rispondere. Per me de hoc satis. L’antologia è pubblicata, ognuno si faccia la propria opinione.
Ci siamo incrociati, Loredana. Il punto è che il criterio – non di “autorevolezza” ma di “qualità” – che ha guidato le mie scelte non è, semplicemente, un criterio “di genere”. E neppure tematico, se è per questo (anche se un rceensore, Francesco Longo, mi ha posto obiezioni interessanti al riguardo). Dunque non si può valutare il tasso di “autorevolezza”, delle autrici incluse, dal loro numero. Se ciò nonostante lo si fa, mi si accusa più o meno implicitamente di sciovinismo – il che mi offende.
Sergio, mi dici dove qui ho parlato di invidia? Quello che ho scritto è che per te l’unica cosa da dire sul mio lavoro è che un’autrice vi è inclusa contro l’autorità di Wikipedia. Dal che si misura 1) il tuo interesse per il mio lavoro 2) la tua disponibilità a parlare di letteratura (ma evidentemente non mi ritieni un interlocutore alla tua altezza).
Dopo di che, i nostri numeri li abbiamo e facciamola finita qui, sennò Ma basta! chi lo sente?
A me sembra, perdonate molto, che un’osservazione che intendeva essere pacata abbia sollevato reazioni tali da farmi supporre che ci sia qualche nervo scoperto qua e là.
Andrea, non mi sono ancora spiegata: mi sembra evidente che non si giudica il tasso di autorevolezza delle scrittrici incluse (ri-ma scherziamo?). Tento di porre una questione di “visione”. Di non-visibilità letteraria, ok? Io non so se, come dice faccina, la disparità non è discriminante: temo, ripeto, che si tenda a dare minore importanza (uso l’iper-maiuscolo: IN ASSOLUTO, non nella TUA ANTOLOGIA!) a scritture che in assoluto (IN ASSOLUTO!) vengono considerate più “leggere”. Ho già postato in proposito un bell’intervento di Meg Wolitzer per il New York Times. Mi perdonerete se lo ripropongo:
Se La trama del matrimonio di Jeffrey Eugenides fosse stato scritto da una donna, ma avesse avuto lo stesso titolo e la stessa copertina, avrebbe ricevuto la stessa attenzione da parte del mondo letterario serio? Oppure questo romanzo (che personalmente ho amato) sarebbe stato relegato alla «narrativa femminile», quell’affollato scaffale inferiore sul quale spesso finiscono i libri incentrati sui rapporti affettivi e sulla vita interiore delle donne? Vero è che La trama del matrimonio, il primo romanzo di Eugenides dopo il premio Pulitzer per Middlesex, era destinato a suscitare enorme attenzione indipendentemente dalla materia trattata, ma la presenza di una protagonista femminile, la grazia della narrazione, il tono a tratti nostalgico e la rilevanza data alle relazioni affettive non fanno che sottolineare come molti libri di qualità scritti da donne e che parlano di donne non riescano mai a sfuggire alla “narrativa femminile” e a fare il salto sullo scaffale più alto, dove certi libri, perlopiù scritti da uomini (e sì, anche da qualche donna, ma di questo parleremo più avanti) godono di grande visibilità e ammirazione.
L’argomento è spinoso. Tirare in ballo la questione femminile – nel senso di narrativa femminile – è un po’ come parlare del debito di stato durante una cena. C’è chi si infastidisce, ritenendolo un argomento di cui si è parlato troppo e in modo inesatto, mentre alcuni lo considerano cruciale.
Poco tempo fa, a un evento sociale, scoprendo che ero una scrittrice un ospite mi ha chiesto: «Potrei aver letto qualcosa di suo?» Gli ho declinato le mie generalità: il nome non gli diceva nulla, il che va benissimo, non sono così famosa. Poi, dietro sua richiesta, gli ho descritto i miei romanzi. «Mah, contemporanei, direi. Alcuni parlano di matrimonio. Di famiglia. Sesso. Desiderio. Genitori e figli.» Trascorsi alcuni istanti d’imbarazzo, il signore ha chiamato sua moglie, annunciandomi che era con lei, «che quel genere di libri li legge», che avrei dovuto parlare. Se ripenso a quell’incontro, lo vedo come un’occasione persa. Alla domanda «Potrei aver letto qualcosa di suo?», molte scrittrici sarebbero tentate di rispondere: «In un mondo più giusto».
La verità è che le donne che scrivono letteratura devono spesso vedersela con un mondo ingiusto, e questo nonostante nelle principali città americane i guadagni delle giovani single stiano superando quelli dei maschi, e il numero complessivo delle laureate negli Usa sia superiore a quello dei laureati. Come si evince dal secondo resoconto statistico annuale della VIDA, un’organizzazione letteraria femminile, nelle pubblicazioni più prestigiose le donne sono incredibilmente bistrattate, sia come scrittrici che come critiche. Di tutti gli autori recensiti dalle testate monitorate per lo studio, quasi tre quarti erano uomini. Non stupisce che, quando si parla degli autori attualmente più rilevanti, quelli che generano fermento e dibattiti e vengono letti sia dagli uomini che dalle donne, quasi sempre si parli di maschi.
Succede in continuazione, e la colpa non è soltanto degli sconosciuti alle feste, o dei tanti librai che non si fanno problemi a definire romanzi interessanti e complessi scritti da donne «narrativa femminile», quasi che gli uomini dovessero starne alla larga. Perfino gli editori possono contribuire a questo processo di segregazione e di vaga, benché involontaria, umiliazione. Pensiamo alle copertine di certi romanzi scritti da donne. Panni stesi ad asciugare. Una bambina in un campo di fiori. Un paio di scarpe su una spiaggia. Un dondolo vuoto nella veranda di una vecchia casa gialla. Paragoniamolo all’uso del lettering sulla copertina del romanzo di Chad Harbach L’arte di vivere in difesa, o alle scritte giganti su quella delle Correzioni di Franzen. Copertine del genere dicono al lettore: «Questo libro è un evento».
Ho studiato semiotica alla Brown University all’apice del decostruzionismo, nello stesso periodo in cui è ambientato il romanzo di Eugenides (insieme, frequentammo lo stesso laboratorio di scrittura), ma non ho certo bisogno di ricordare cosa siano i significanti per capire che, proprio come i blocchi di maiuscole giganti, anche le illustrazioni di copertina femminili sono un codice. Immagini che evocano una sorta di nostalgia della povertà alla Walker Evans o offrono ovattati scorci di vita domestica, puntano alle donne con la stessa determinazione di uno spot degli integratori per l’osteoporosi. Tanto varrebbe appiccicare su queste copertine l’adesivo di una strega, e la scritta: «Alla larga, uomini! Tornate a leggere Cormac McCarthy!»
A volte mi domando se anche la lunghezza di un libro non segnali al lettore, più o meno intenzionalmente, la supposta importanza di un romanzo. Scrittori che hanno acquisito un alto profilo letterario come David Foster Wallace, Haruki Murakami e William T. Vollmann hanno tutti pubblicato libri lunghissimi. Con alcune eccezioni degne di nota, dal Taccuino d’oro di Doris Lessing non si contano molti “fermaporte” famosi pubblicati da donne. È il mercato che, sottilmente e paradossalmente, anche nell’era della soglia di attenzione breve, suggerisce all’orecchio di alcuni maschi «Ma sì, bello, scrivi pure quanto vuoi, mettiti lì e butta giù ogni singolo pensiero che hai sull’America», oppure sono le donne che istintivamente si impongono (o si lasciano imporre) vincoli di spazio più severi, creando romanzi compatti e armoniosi che lettori e gruppi di lettura possano trovare accessibili? O non è che semplicemente non hanno l’ossessione per le dimensioni, né in un senso, né nell’altro? Tutto questo non per dire che i megalibri siano per forza superiori. Nella loro prolissità, anzi, è forse più facile che siano inferiori. Certo, però, fanno più rumore.
La mia impressione è che, come la maggior parte degli uomini, la maggior parte delle donne i libri li scriva lunghi quanto vuole, anche se spesso non ottengono lo stesso riconoscimento. Negli ultimi anni, autori come Ian McEwan e Julian Barnes hanno scritto libri molto brevi, molto apprezzati dalla critica e molto letti. Ma se di questi tempi una donna scrive qualcosa di breve, specie se parla di una donna, il suo lavoro corre il rischio di essere considerato minore. («Asciutto» è il complimento più frequente.) Se, per contro, una donna scrive un mattone infarcito di libere associazioni mentali sulla vita e l’amore e la gravidanza e la guerra, infilandoci battute e ricette e magari pure un romanzo nel romanzo, insomma, tutto ciò che può contenere una membrana infinitamente elastica, rischia di essere tacciata di indisciplina e autoindulgenza.
Julia Glass, che nel 2002 ha vinto il National Book Award con il romanzo Tre volte giugno, ha affermato: «Molti lettori mi chiedono come mai io scriva così spesso adottando un punto di vista maschile. Qualche ipotesi ce l’ho, ma la verità è che non lo so. Non scrivo i miei libri pensando di approfittare del pubblico maschile, ma è vero che il punto di vista può migliorare l’accoglienza che ricevono. Credo che gli uomini accettino i miei libri più facilmente di quanto non farebbero se il punto di vista fosse sempre femminile.»
Anche personaggi hanno enorme importanza, e a un primo sguardo i romanzi che raccontano di genitori e figli piccoli sembrano essere considerati a priori territorio sentimentale delle donne. Tranne, ovviamente, quando i genitori e i figli sono maschi, come nel caso di La strada di McCarthy e Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer, entrambi incentrati su una coppia padre-figlio, ed entrambi accolti con pari entusiasmo da uomini e donne.
Alcune tra le romanziere più acclamate hanno certamente scritto di donne senza complessi e con autorevolezza. Ma perché tale autorevolezza attecchisca, è necessario che l’ambiente sia ricettivo, che la riconosca e la celebri. Non è un caso che Toni Morrison, Joyce Carol Oates, Margaret Atwood, Doris Lessing, Marilynne Robinson siano emerse in un momento storico insolito, quando la presenza del movimento femminile si percepiva ovunque. Quel periodo, dagli anni 70 ai primi anni 80, sembrò creare per le autrici di narrativa una realtà nuova e definitiva. Se prima d’allora capitava di tanto in tanto che una donna venisse accolta nel cosiddetto club dei maschi, in seguito le donne di lettere cominciarono a fare massa critica, diventando più che semplici anomalie. Ma benché questa ondata abbia aiutato quelle venute dopo, col passare del tempo, per le donne, raggiungere certi traguardi è diventato sempre più difficile. Come dice Katha Politt, poetessa e critica letteraria: «Sono convinta che ci sarà sempre posto per una Toni Morrison o una Mary McCarthy, ma solo una alla volta. Per ogni donna, c’è spazio per tre uomini.»
E qui di solito cominciano a piovere le proteste e i controesempi, una manciata dei quali non manca mai: Jhumpa Lahiri e Zadie Smith sono quelli correnti. Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, che ha vinto sia il National Book Critics Circle Award nel 2010 che il Pulitzer nel 2011. Nel 2009, Elizabeth Strout ha vinto il Pulitzer con il romanzo di racconti Olive Kitteridge, molto amato dai gruppi di lettura, e che varie donne pare abbiano regalato ai loro uomini, i quali in alcuni casi, stupendosi loro stessi, lo hanno persino apprezzato. Più raro è che un romanzo scritto da una donna si trasformi in un vero evento, come di recente negli Usa è successo all’Amante della tigre di Tea Obreht. Eccezioni come queste potrebbero far pensare che il mondo si avvii verso una specie di idillio letterario, in cui uomini e donne siedono insieme all’ombra degli alberi, mangiando fichi e commentando brani di Kiran Desai o Jeanette Winterson. Ma nel momento in cui le donne si trovano a dover di nuovo lottare per l’accesso alla contraccezione, le statistiche dell’organizzazione letteraria femminile VIDA mostrano che anche le scrittrici devono di nuovo battersi perché il loro lavoro venga preso sul serio. La sezione letteraria dell’American Academy of Arts and Letters annovera 33 donne tra i suoi 117 membri. Negli ultimi tre anni più dimetà dei premi del National Book Critics Circle è andata a donne, e due donne, Jaimy Gordon e Jesmyn Ward, hanno vinto gli ultimi due National Book Award di narrativa. Finora, però, nessuna delle due è diventata un caso culturale.
Chi legge chi? E come? Erano gli interrogativi sollevati da Francine Prose in un affilato pezzo apparso nel ’98 su Harper’s Magazine: in una «degustazione alla cieca», dimostrava che, rimuovendo l’etichetta di genere, identificare il sesso di un autore non era così facile. Concludeva: «Ancora oggi, la narrativa scritta dalle donne viene letta diversamente, con il solito armamentario di pregiudizi e preconcetti». «Vorrei poter dire che da allora le cose sono drasticamente cambiate», mi ha confidato di recente l’autrice, «Ma non sarebbe vero.» Aggiunge Lorrie Moore: «Una volta una studiosa mi ha detto: “Io quello che pensano le donne grosso modo lo so già. M’interessa di più leggere libri scritti da uomini”». Il problema di un’affermazione del genere risulta evidente ribaltandola. Se un uomo dicesse «Io so già cosa pensano gli uomini. Mi interessa di più leggere libri scritti da donne» andrebbe incontro a qualche incomprensione.
Certo, le donne che scrivono letteratura possono cavarsela benissimo anche senza i lettori maschi. E alcuni autori maschi hanno confessato di invidiare alle donne il predominio femminile nella comunità di chi legge (e compra) romanzi. Si sente ripetere che le donne sono le principali consumatrici di narrativa, e alcune di loro ritengono che gli uomini, quanto a letture, siano casi così disperati che forse bisognerebbe smetterla di considerarli consumatori di narrativa di qualità. Di fronte a un’ipotesi del genere, più di un uomo si sente comprensibilmente offeso. Ma lo scaffale più alto della narrativa di qualità – dove l’aria è pura, la vista magnifica, e un libro entra nell’immaginario del pubblico e nel dibattito culturale – continua a sembrare curiosamente, sproporzionatamente maschio. L’avvento di una nuova generazione di lettori riuscirà a modificare le abitudini letterarie di un’intera cultura? Magari in un mondo più giusto.
che poi in un mondo più giusto sparirebbe il concetto di narrativa di qualità, cosa priva di senso. al di là del monitoraggio sui media.
È interessante questo pezzo, Loredana. E credo che, in questo caso, il tempo sarà in effetti (è il caso di dire, per una volta) galantuomo: i “piani alti” delle librerie novecentesche sono più abitati da donne di quanto non lo fossero quelli delle librerie ottocentesche, e il processo – se ci fermiamo alla fenomenologia – non può che continuare. Ma il punto è un altro: l’esempio che hai fatto, e che purtroppo mi riguarda, è un esempio sbagliato (oltre che nei miei confronti ingeneroso). Perché in questo caso dovresti spiegare che, stando ai presupposti letterari del mio lavoro, sono state discriminate l’autrice x e l’autrice y (cioè che l’autore zeta è presente, in loro luogo, senza motivo).
Non sono io, del resto, che disegno i caratteri sulle copertine dei libri o compilo i cataloghi delle case editrici (e anzi, quando ho avuto la responsabilità di una collana, mi pare di averla iniziata con Sara Ventroni e conclusa con Giulia Niccolai).
Più interessante mi pare però, fra le cose che riporta Meg Wolitzer, la frase di Lorrie Moore: «Una volta una studiosa mi ha detto: “Io quello che pensano le donne grosso modo lo so già. M’interessa di più leggere libri scritti da uomini”. Il problema di un’affermazione del genere risulta evidente ribaltandola. Se un uomo dicesse “Io so già cosa pensano gli uomini. Mi interessa di più leggere libri scritti da donne” andrebbe incontro a qualche incomprensione». Ma invece è proprio questo il punto. Quando tu all’inizio di questo commento dici che c’è scarsa disponibilità a prendere sul serio libri scritti da donne per le donne, metti il dito nella piaga. Che è appunto il contenutismo narcisistico, mi verrebbe da dire, che oggi – a mio modo di vedere – domina il mercato librario. Oggi ai libri si chiede appunto di parlare di ciò che già i lettori conoscono, di far rispecchiare le esperienze di chi legge in quelle che trova scritte. Mentre in passato la letteratura (quando ambiva a salire ai “piani alti”) faceva la scommessa di andare «au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau» (citazione da autore maschio, pardon, e pure sciovinista assai). Parte non indifferente della grandezza di Ulysses consiste nella scelta di “uscire da sé” (Stephen) per divenire-altro (Bloom) o, più radicalmente, divenire-altra (Molly nel monologo finale). Oggi invece si prende per letteratura quella che non è altro che la mera esposizione, sentimentalmente più o meno ricattatoria, di quello che il lettore (che sociologicamente parlando, sì, più spesso è una lettrice) già sa.
Se un libro che amiamo entrambi come Sirene di Laura Pugno per me (numeri a parte) è stata parte decisiva di quella che io considero “la narrativa degli Anni Zero” è proprio per il coraggio di esplorare una dimensione radicalmente altra non solo da me, ma da tutti i lettori. Che poi lo si possa leggere anche, allegoricamente, come trasposizione deformante di dinamiche che invece conosciamo benissimo (e ci appartengono da sempre, anzi), è solo la dimostrazione che non si tratta del testo né di uno scrittore uomo né di uno scrittore donna: ma, molto semplicemente, del testo di uno scrittore. (Non mi piace usare gli asterischi, ma pensali di default.)
Bisognerebbe allora cominciare ad incoraggiare la pessoaizzazione delle carriere letterarie, tutti quanti con pseudonimi maschii e femminili e poi vediamo cosa succede.
Grazie Lips per avemi fatto rileggere la Wolitzer. E grazie a Lorenzo per aver risollevato il livello della discussione.
Mi viene in mente una bella espressione intraducibile dall’ olandese che per indicare una persona suscettibile dice che il tale fa subito a farsi pestare l’ uccello (credo sia la deriva di un’ altra espressione, avere le dita dei piedi lunghe, che significa lo stesso, uno che si fa subito a pestargli i piedi).
Scrive Andrea: “Oggi invece si prende per letteratura quella che non è altro che la mera esposizione, sentimentalmente più o meno ricattatoria, di quello che il lettore (che sociologicamente parlando, sì, più spesso è una lettrice) già sa.” E questo è un nodo cruciale. Che il sistema editoriale attuale cerchi di livellare (verso il basso, molto spesso) scrittura e lettura femminili è un dato di fatto: l’esempio portato nel post a proposito di Jane Austen è, credo, drammaticamente calzante. Ma a questo punto mi chiedo quale sia la via d’uscita (forse vertici editoriali che, quanto meno, si pongano la questione?).
Mammasterdam: favorevolissima.
@ Mammasterdam
Tradurrei in italiano il proverbio olandese in questione con “avere la coda di paglia”. Ma ha chi la coda di paglia chi si sente chiamato in questione quando non lo è (rivelando appunto la sua suscettibilità). Io invece tirato in questione lo sono stato, esplicitamente, e dunque ho pensato di poter, se non dover, intervenire. Saluti alla sua splendida città.
Forse, Loredà, forse.
(scusate se mi disinteresso della questione letteraria, ma l’altro filone del post mi interessa di più)
Cara Antonella, grazie della spiegazione. Senza il movimento delle donne e i femminismi (o le varie correnti nel femminismo) probabilmente non avremmo neanche un quadro storico e teorico da cui partire, e son contento di sentirlo dire anche a te.
Questo quadro storico e teorico da cui partire per discutere ce l’abbiamo, per fortuna, e possiamo anche ridiscutere e ridefinire il quadro stesso, che perfetto non è, come tutte le costruzioni teoriche. Teniamolo da conto.
Per me, femminismo resta una parola da difendere a spada tratta (o è meglio se dico con le unghie e con i denti? mah!) anche da parte degli uomini che si rendono conto di quanto il mondo potrebbe essere migliorato decostruendo un potere che ha tratti “maschili”.
E bisogna reagire contro chi agisce per svuotarla, con intelligenza e pazienza. No?