4. CONTRO LA VIOLENZA: DISCUSSIONE

La discussione prosegue con altri tre interventi.
Titti Di Salvo
Violenza e rappresentanza. Ma c’è un legame?
Ci siamo chieste se aveva senso tenere insieme nella nostra discussione il tema della violenza sul corpo delle donne con quello della violenza della loro cancellazione dalla vita pubblica,tenute ai margini della costruzione del senso del mondo, escluse dalla scena pubblica.
La mia risposta è che ha molto senso almeno per due ragioni.
-Perché il fatto che arrivi da tante e anche da molti uomini la richiesta a “Se non ora quando” di un atto pubblico, un’iniziativa, un gesto di fronte al femminicidio che continua, dimostra che “Se non ora quando “ è riconosciuta come soggetto collettivo che deve e può assumere la responsabilità di agire di fronte alla violenza:è una richiesta di rappresentanza.
-Perché la catena degli assassinii delle donne, nelle case più ancora che nelle strade, parla di relazioni malate, di maschi padroni incapaci di sostenere relazioni libere e autonomia delle donne.
Parla anche di una società fatta di solitudini,violenta con le persone violente a loro volta nelle loro relazioni. Racconta di una violenza esterna alle relazioni tra le persone e che agisce su di esse.
La presenza delle donne là dove le scelte si prendono, quelle necessarie per rompere le solitudini,per finanziare i centri antiviolenza, per costruire nelle scuole la cultura della libertà e del rispetto, per bonificare la rappresentazione pubblica delle donne nelle televisioni e nella comunicazione, è l’unica garanzia che si assumano le decisioni giuste.Quelle necessarie a sradicare la violenza intorno alle donne ,sulle donne e contro le donne.
Fabiana Pierbattista
E’ sempre molto complesso e difficile parlare di violenza, la violenza non è mai una sola, attraversa più piani, è forte, sfrontata, esibita, ma anche subdola, insinuante e riguarda tutti, i maschi e anche le donne. Riguarda le donne perché tutte noi facciamo una gran fatica a vedere quella parte di complicità che esercitiamo; molte di noi hanno avuto o avranno storie con uomini distruttive e brutali, da cui sono uscite o usciranno annientate, piegate, lese. Ecco: quella fatica che le donne fanno a dare il nome appropriato parla di una subalternità antica che molto si lega con quanto scritto da Alessandra. Le donne nascono con un ruolo già assegnato di vittime, di prede e poi se lo declinano con forme diverse, ma che chiamano, a diverso titolo, in causa, buona parte di noi.
Godiamo pienamente i frutti del femminismo, viviamo vite in cui abbiamo cercato di avere riconoscimenti che le nostre madri non chiedevano, ma facciamo ancora tanta fatica ad uscire da una parte assegnata, a vedere e soprattutto a chiamare la violenza con il nome che le è proprio. Questo è certamente un punto da cui partire, ma non il solo. Se leggiamo i dati impressionanti in continua crescita, ci dicono che la maggior parte delle donne che subiscono violenza sono donne con alto livello di alfabetizzazione: che significa? La prima risposta, la più semplice, è che sono le donne con un alto livello d’istruzione e di consapevolezza che denunciano e certamente in buona parte è così, ma non mi basta. Io credo che negli ultimi trent’anni, negli anni del post femminismo, le donne in qualche maniera, con fatica certamente, siano riuscite a costruire una forza e una consapevolezza maggiore rispetto ai maschi, e questo ha portato a equilibri di forza assolutamente sballati. Mi spiego: a un privato che ha registrato inevitabilmente questa forza, non è seguita un’adeguata proiezione pubblica, dove a detenere il potere sono sempre stati maschi. Questo ha portato a un ulteriore incattivimento dei rapporti; frustrati e violenti nel privato, sfacciati e volgari nel pubblico, dove la cancellazione delle donne dalla partecipazione politica, l’istituzionalizzazione dell’ancillarismo parlano, e di questo dobbiamo essere tutte consapevoli, di violenza.
Perché nella cancellazione delle donne dalla scena pubblica o ancora nella loro rappresentazione oscena di questi anni c’è una rabbia, un livore e una violenza che non si spiegano con altre parole. Il nodo quindi è profondo, tocca tanti piani, politico, culturale e giuridico. Niente come il diritto infatti, è specchio fedele della cultura di un popolo, la rappresenta e la codifica: ora, il legislatore del nostro Paese, e questo è indubitabile, ha fatto una fatica incredibile a riconoscere al corpo delle donne la piena soggettività e titolarità di diritti. E penso al reato di adulterio, al delitto d’onore, alla riforma del diritto di famiglia o alla rubricazione del reato di violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona avvenuta solo nel 1996, per tacere di 194 o della legge 40.
Questo per dire che i due piani sono strettamente intrecciati. Il neutro del diritto è un neutro declinato al maschile, anche perché sono pochissime le donne nelle assemblee legislative e anche questo è un punto. Penso anch’io che dobbiamo organizzare una grande campagna contro la violenza, ma dobbiamo anche sapere che, come la rappresentazione, anche la rappresentanza si tiene insieme a questo tema. Non è certamente scontato, ma più donne nei luoghi deputati a legiferare possono essere la garanzia di un legislatore non più neutro, perché partecipato anche al femminile. Un approccio multiplo, quindi, con il nostro linguaggio nuovo e con il nostro modo tutto nuovo di tenere insieme più piani, sapendo che tutto parla della nostra condizione, del nostro essere cittadine in questo Paese oggi, nell’anno zero, e non possiamo leggere o parlare di una sola parte senza tenere anche le altre. E tanta più forza avremo in questo percorso, quanto più riusciremo a coinvolgere i nostri compagni, i maschi e le istituzioni ai diversi livelli.
Loredana Taddei
Terrei separate violenza e rappresentanza, due temi importanti e urgenti da affrontare, ma seppure affini, per la loro complessità credo sarebbe più efficace trattarli separatamente. Se possibile con due gruppi di lavoro in parallelo. Altrimenti si corre il rischio di un messaggio confuso, con troppe articolazioni da portare a sintesi.
Una campagna comunicativa contro la violenza deve già tener conto di tante declinazioni. Perchè sia incisiva bisogna agire sul fronte culturale, mediatico, politico. C’è la violenza domestica e c’è quella nei luoghi di lavoro, che va dallo stalking, al ricatto, alla molestia sessuale, al mobbing, all’umiliazione costante.
Bisogna contrastare l’accettazione, l’assuefazione e la connivenza delle donne, l’apatia della politica, l’assenza delle istituzioni. Inasprire le pene, denunciare la scarsissima informazione rispetto alle misure di prevenzione e di protezione.
Così come è necessario sensibilizzare l’opinione pubblica spesso indifferente, assuefatta allo stillicidio quotidiano, con meccanismi simili alle morti sul lavoro: in media tre al giorno, non fanno più notizia. Peggio, diventa nell’opinione comune un dato ineluttabile, un prezzo da pagare quando si lavora.
L’assuefazione e la sottovalutazione sono favorite dal linguaggio dei media, che ancor oggi parlano di delitto passionale, di gelosia accecante, di amore e cose del genere. Allora, come per le morti sul lavoro, anche la violenza contro le donne diventa un dato fisiologico, un prezzo da pagare nel rapporto di coppia, nella sfera familiare e sentimentale.
La scuola e la formazione sono fondamentali, perché attraverso la diffusione di strumenti tra gli insegnanti circolino informazioni sulla differenza di genere, sul rispetto della persona.
E’ importante poi decidere se puntare ad una campagna di informazione e di sensibilizzazione o di denuncia e pressione. Se rappresentare la donna come un soggetto che si deve difendere e che va difeso, oppure come una persona forte, che dice basta, che esige il rispetto dei suoi diritti insieme all’adozione di misure che la tutelino maggiormente. Se parlare soltanto alle donne, come sempre si fa, o anche agli uomini che sono decisamente parte in causa.

4 pensieri su “4. CONTRO LA VIOLENZA: DISCUSSIONE

  1. “Il modo in cui gli uomini hanno costruito il nostro potere sociale e individuale è, paradossalmente, fonte di enorme paura, isolamento e dolore per gli stessi uomini. Se il potere è strutturato come capacità di dominio e di controllo, se la capacità di agire in modi “potenti” richiede la costruzione di una personale corazza e una distanza dagli altri piena di
    paura, se proprio il mondo del potere e dei privilegi ci tiene lontani da quella sfera dove si allevano e educano figli, allora stiamo creando uomini la cui esperienza del potere è carica di problemi.
    Questo succede in modo particolare perché l’interiorizzazione delle aspettative della mascolinità sono di per sé impossibili da soddisfare o realizzare. Questo può sembrare un problema inerente al patriarcato, ma sembra particolarmente vero in un momento storico e in culture dove sono state rovesciate le rigide frontiere di genere. Sia che
    si tratti di realizzazioni fisiche o finanziarie o la soppressione di una gamma di emozioni umane e di bisogni, gli imperativi della virilità (in opposizione alle semplici certezze dell’essere biologicamente uomo ) sembrano richiedere una costante vigilanza e fatica, specialmente per gli uomini più giovani.
    Le personali insicurezze dovute al fallimento di essere all’altezza dei requisiti richiesti dalla mascolinità, o semplicemente, la minaccia del fallimento è sufficiente a gettare molti uomini, in particolare quando sono giovani, in un vortice di paura, isolamento, rabbia, auto-punizione, odio verso sé stessi e aggressività.
    In un simile stato emozionale, la violenza diventa un meccanismo compensatorio. E’ un modo di ristabilire l’equilibrio maschile, di esibire a sé stesso e agli altri le credenziali della propria mascolinità. Questa espressione di violenza di solito include la scelta di un bersaglio che è fisicamente più debole o più vulnerabile. Si può trattare di un bambino, di
    una donna, o di gruppi sociali come uomini gay o minoranze religiose o sociali, o immigranti che sembrano rappresentare bersagli facili per l’insicurezza e la rabbia di singoli uomini, specialmente perché questi gruppi spesso non godono di adeguata protezione da parte della legge. (Questo meccanismo compensatorio è chiaramente visibile, per esempio, nel fatto che la maggior parte degli attacchi punitivi ai gay sono commessi da gruppi di giovani uomini in un periodo della loro vita in cui sperimentano la più grande insicurezza di non essere all’altezza rispetto ai requisiti maschili richiesti.)
    Ciò che fa della violenza un meccanismo individuale compensatorio è stato l’accettazione condivisa da molti della violenza come mezzo per risolvere le differenze e affermare potere e controllo. Ciò che la rende possibile sono il potere e i privilegi di cui gli uomini godono, le credenze codificate, le pratiche, le strutture sociali e la legge.
    La violenza degli uomini, nella sua miriade di forme, è il risultato congiunto del potere maschile, del loro senso di avere diritto ai privilegi, il permesso all’uso di certe forme di violenza e la paura (o realtà) di non avere paura.”
    Michael Kaufman – Le 7 P della violenza maschile

  2. La violenza e la discriminazione subite dalle donne sono una vera e propria piaga della nostra società e continuare a parlarne e a denunciare il problema è l’unico modo per far cambiare le cose!

  3. A proposito dell’educazione al disprezzo per le donne
    .
    Da SNOQ cito questa segnalazione su un “manuale di decifrazione” per genitori ed insegnanti, degli stereotipi sessisti nelle illustrazioni dei libri per bambini della scuola materna.
    In particolare – in tema con il post – la dicotomia mamma di maschio vs mamma di femmina.
    .
    Cito:
    “Ai due estremi di questa ristretta gamma di madri stanno la madre di un ragazzo e quella di una bambina. La madre del maschio è la “madre serva”. La sua immagine più estrema è quella di una donna senza età, indigente, scarmigliata e stralunata. Giovane e sfinita o miserabile e non più giovane, la madre di un maschio è totalmente al servizio del figlio. Il suo ruolo non è mai di educatrice: nella sua ignoranza e banalità non è in grado di insegnargli nulla, le lezioni vengono tutte dal padre.
    “La madre della bambina invece è correttamente abbigliata, disponibile, pronta a impartire un’educazione. La si vede insegnare alla figlia come fare le torte, disporre i fiori in un vaso, portarla con sé quando va a fare acquisti di abbigliamento. Si capisce che è incaricata di una missione: trasmettere il suo savoir-faire di padrona di casa e, in tal modo, perpetuare il ruolo.
    “Questo doppio personaggio di madre, che incoraggia nelle bambine l’identificazione con il ruolo e nei maschi il disprezzo per le caratteristiche descritte come naturalmente ed esclusivamente femminili (in primo luogo impersonate dalla madre) è lo strumento più flagrante, e forse uno dei più efficaci, usato nell’impresa che gli albi conducono da secoli, di condizionare i bambini ai ruoli sessuati.”

    http://www.comune.torino.it/quantedonne/documenti/guida_alla_decifrazione.pdf

  4. Quoto Loredana Taddei quando scrive della comunicazione
    !E’ importante poi decidere se puntare ad una campagna di informazione e di sensibilizzazione o di denuncia e pressione. Se rappresentare la donna come un soggetto che si deve difendere e che va difeso, oppure come una persona forte, che dice basta, che esige il rispetto dei suoi diritti insieme all’adozione di misure che la tutelino maggiormente. Se parlare soltanto alle donne, come sempre si fa, o anche agli uomini che sono decisamente parte in causa.”
    Mi chiedo se non sussitsa il rischio, approciando con un riduttivo “o anche ” l’ uomo, di divenire ancora e nuovamente autoreferenziali. Il genere maschile, a parer mio, dovrebbe essere il nuovo e primo referente del messaggio. Genere maschile che è alcontempo assunto e accettato da quello femminile. Inutile continuare a parlarsi addossso.

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