La terza puntata della discussione del 23 marzo sulla violenza offre ancora due interventi: leggete e commentate, considerando che l’idea di pubblicarli tutti intende essere una porta aperta a elaborazioni comuni. Perché fra non molti giorni si replicherà.
Fabrizia Giuliani
La violenza è un tema che dobbiamo affrontare singolarmente, e insieme agli uomini. Solo così possiamo:
Far sì che la questione si politicizzi, si ponga al centro dell’attenzione e acquisisca quindi visibilità
Far sì che la nostra azione abbia forza, peso e cambi le cose.
Questo non vuol dire isolare la questione. Al contrario, per dargli questo spessore dobbiamo mostrare i nessi che legano la violenza agli altri aspetti che abbiamo identificato nella nostra proposta politica, a cominciare da ciò che in gergo chiamiamo rappresentazione – il modo in cui in parole e immagini questo paese raccontano le donne, ma anche il lavoro, il welfare e la rappresentanza. In altre parole dobbiamo mostrare come tutto si tenga e la violenza sia solo l’aspetto, più vistoso, brutale e ineludibile del rifiuto della differenza femminile, consapevole di sé e libera.
Lo abbiamo già detto: i dati sulle dimissioni in bianco, sull’abbandono del lavoro al primo o al secondo figlio sono l’altra faccia dei dati sulle donne che non ci sono o sono troppo poche, dove si decide – si distribuisce e si taglia- e delle donne che muoiono. E ancora come ci dice e ridice Linda Laura Sabbadini, gli stessi dati dei servizi inesistenti e mai davvero progettati –ossia il welfare che non c’è ma è necessario per consentire alle donne una vita LIBERA e PIENA -sono ugualmente espressioni di quel rifiuto.
L’accesso alla sfera pubblica – al lavoro, alla creatività, al pensiero, al sapere, alla politica– a dispetto dei diritti che lo consentono, per le donne è di fatto impossibile. La differenza che le segna nel corpo e che si manifesta nella sessualità e nella maternità – anche solo possibile – è rifiutata. O l’omologazione: lavoro, desidero, non faccio figli – come un uomo,- o un’incondizionata disponibilità al desiderio che la storia recente ha raccontato benissimo.
Per comprendere a fondo oggi cosa sia la violenza contro le donne dobbiamo porla in relazione con questi aspetti. Le donne che muoiono per mano maschile – un altro primato, il più orribile, che distingue l’Italia nel panorama europeo- raccontano di un cammino di libertà interrotto. Veniamo allevate alla libertà, come scriveva Cristina Comencini, ma fuori non ne sanno niente e tutto va avanti nel solito vecchio modo. L’altro non è pronto al confronto con questa consapevolezza e al manifestarsi dell’indisponibilità reagisce uccidendo e cancellando. E siccome nel senso comune questo, ancora, non è uno scandalo, un crimine, la notizia non c’è, a stento compare un trafiletto. Non c’è responsabilità nel colpire la libertà di una donna se questa si oppone al volere e al desiderio di un uomo. E allora scattano la protezione, la complicità, l’omertà, la rimozione maschili; ma dobbiamo dire che c’è rimozione anche tra noi, almeno tra noi allevate alla libertà, nell’illusione che il mondo fosse nostro come lo era dei nostri coetanei uomini. Fatichiamo a riconoscere questi gesti perché ci restituiscono una differenza faticosa. Perché ci restituiscono il limite di una fragilità che è propria di tutte le relazioni che ci espongono all’altro. Perché ci restituiscono il peso del nostro corpo differente – e del suo limite, appunto.
Invece la forza è guardarla in faccia, la violenza, e chiamarla con il suo nome, senza vittimismo, pianti, lacrime. Ma mettendo in campo una consapevolezza e una forza nuove. Non c’è trappola nella violenza, piuttosto la vedo nella sua rimozione. Dobbiamo segnare una fase nuova, riuscire a far camminare insieme tutto e non opporre un aspetto all’altro. Ci hanno fatto credere che ci fossero questioni di serie a e b, e questioni politiche e non. La nostra vita ci dice che non è così e ci ha insegnato molto bene che la forza più grande è riconoscere, guardare in faccia la fragilità e le cose che non vanno .Le donne riusciranno ad entrare massicciamente nei centri decisionali e conteranno davvero solo quando smetteranno di morire – almeno con questi numeri -e di essere raccontate in questo modo.
Lidia Ravera
La violenza contro le donne non è soltanto un coltello piantato alla gola. Parlare di violenza contro le donne non è ricadere nella cultura del lamento, né abboccare alla furberia politica di volerci relegare lì, dove siamo tutti d’accordo ( uccidere la ragazza che ti ha mollato non è una pratica consentita), distraendoci da lotte più imbarazzanti come quella per la parità nella rappresentanza ( se il 50% dei posti a sedere ai piani alti vanno alle donne un buon percento di maschi si deve scansare).
Noi non ci distraiamo.
Noi non ci lamentiamo.
Noi vogliamo capire, e dopo aver capito agire, e dopo aver agito gestire la transizione verso una società di donne e uomini equipollenti (diversi, ci mancherebbe, ma di eguale valore).
La violenza sulle donne è trattarle da oggetti, è tenerle fuori, è offenderle se non rassomigliano all’unico modello femminile incoraggiato: la bella e giovane, subalterna e disponibile.
Quindi la violenza sulle donne è molto diffusa.Molto più diffusa di quella che mette tutti d’accordo, il femminicidio.
Comunque, oggi (23 marzo, ndr) un’altra. Buttata dal balcone.Si indaga l’ex marito.
Le donne non possono mettere fine a una relazione. Sono funzione del desiderio maschile, no? E il maschio non desidera essere lasciato.
Noi dobbiamo studiare il tema della violenza sulle donne, senza piangere. Andando a fondo.Lavorando sui nessi segreti, inconsci, sui non-detti, sui non dicibili.Tutte le nostre battaglie sono collegate fra loro: la rappresentanza,la rappresentazione, la violenza.
Se fossimo la metà del mondo che conta, se in politica ci fossero le donne che vogliamo noi e non quelle che vogliono le segreterie dei partiti, se fossimo persone e non cose, se potessimo invecchiare ed essere brutte senza diventare dei paria o degli zombie.
Se non fossimo “rappresentate” con la sconcia sineddoche ( una parte per il tutto): fiche.
Se fossimo “rappresentate” da una folta schiera di donne come noi e non da una piegata minoranza di donne omologate.
Se l’intelligenza femminile brillasse sugli schermi, nei cda, nelle fondazioni, nei giornali, nelle scuole.
Saremmo rispettate. Saremmo in salvo.
Potremmo morire in duello, ad armi pari, non massacrate da uno più forte di noi nel corpo, più debole nell’anima.
Noi la violenza la vogliamo analizzare insieme agli uomini, perché finché loro non impareranno a pensarsi come parziali, come appartenenti a d uno dei due soggetti e non ad un astratto e potente “universale, la strage continuerà.
Noi piangeremo le nostre morte, loro la loro solitudine.
Inviteremo perciò gli uomini a riflettere sulla loro sessualità, sui loro automatismi, sulle vergogna di genere da cui i migliori devono smarcarsi, i peggiori liberarsi.
Fabrizia Giuliani afferma che”le donne […]muoiono per mano maschile – un altro primato, il più orribile, che distingue l’Italia nel panorama europeo-“. Un altro primato? Ma da dove trarrebbe questo dato?
Lidia Ravera invece nonsembra aver dubbi e si lancia su un’invettiva verso i maschi, questa volta sì facendo della sinneddoche e non come nel suo esempio pedestre in cui chiama sineddoche una metonimia. Ma bontà sua, una che ha scritto Porci con le ali che lamenta, varcati i 60, l’identificazione della donna con la cosina fa per lo meno sorridere e pensare malignamente alla vecchiettadi De André, che dava buoni consigli perché non poteva più dare il cattivo esempio.
Insomma, Lipperini, scusi la domanda ma lei c’era quando sono state pronunciate queste parole, no? Non le ha trovate un filino invasate? Non ha avvertito nessun fastidio in queste retoriche? Lo chiedo sinceramente perchè quando leggo posizioni di questo genere mi chiedo perché una persona come lei sia disposta a chiudere più di un occhio, come un Chiesa che tolleri le tante eresie delle sue pecore pur di non perderne il numero e il gregge.
Insomma, amica Ravera sed magis amica veritas.
la verità passa però anche attraverso l’autocritica.Per cui non è possibile non menzionare mai una cosa che certo con la violenza domestica e machista non ha nulla a che fare ma è il suo controcanto quasi indolore,ossia le tragedie di quei padri che senza colpe specifiche che non fossero da attribuire alla cultura ricevuta,e che non si sono resi colpevoli di nessun atto da considerarsi come manifestazione fisica o psicologica di forza bruta,si ritrovano alla fine di una relazione ufficiale costretti spalle al muro a mantenere compagne che spalleggiate da una giurisprudenza che forse per compensare l’odiosa declinazione in chiave maschile di tutta la legislazione operante fino a recenti trascorsi,invece sfruttano la situazione fino in fondo senza concedere nemmeno il beneficio delle attenuanti generiche.Una volta che anche questo argomento sarà affrontato senza tabù forse sarà possibile acquistare quella credibilità che le statistiche ufficiali mostrano non essere mai stata raggiunta e spenderla come moneta tonante nei processi decisionali
http://music.ka81.com/Suzi%20Quatro%20-%20Trouble.MP3
Ho letto solo il primo intervento, e vorrei dire che è scandaloso, leggendo avrei voluto che fosse uno scherzo… e invece il femminismo deve progredire ancora di più, la violenza deve scomparire e l’odio deve essere trasformato in amore, direi ai maschi… “Siete nervosi, stressati, stanchi?” non prendertela con la donna, fa qualche sport che ti aiuti a SFOGARE la rabbia (per qualsiasi cosa).. dico così perché una volta a scuola un professore mi ha spiegato che quando una persona ti risponde male (la guardi in volto e ti risponde “Che cazzo vuoi?” è perché non si è liberata dallo stress, come risolvere? CORRENDO, io una volta ci ho provato e ha funzionato.. in alternativa ci sono gli sport.
condivido molto i primi due commenti.
Riflessioni molto dense. A volte il rapporto uomo violento-donna vittima è complicato, visto da fuori. A volte pare seguire dinamiche psicologiche che la cultura popolare ha cercato di spiegare “narrandole” e mettendole in scena nelle fiabe.
La più pertinente mi sembra Barbablù. Ecco il mio apporto alla discussione:http://labiondaprof.wordpress.com/2012/04/04/violenza-donne-e-barbablu/
Scrivo alcune note veloci, le citazioni sono da Lidia Ravera.
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“Se l’intelligenza femminile brillasse sugli schermi, nei cda, nelle fondazioni, nei giornali, nelle scuole. Saremmo rispettate. Saremmo in salvo.”
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Non esiste “l’intelligenza femminile”. Non ci si mette in salvo costruendo un sessismo cognitivo. Ogni individuo ha un’irripetibile intelligenza che va molto oltre la determinazione sessuale. Tra l’altro ragionare in termini di sessismo cognitivo non aiuta certo contro la discriminazione nell’accesso al lavoro o nella carriera.
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“Noi la violenza la vogliamo analizzare insieme agli uomini, perché finché loro non impareranno a pensarsi come parziali, come appartenenti ad uno dei due soggetti e non ad un astratto e potente universale, la strage continuerà.”
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E’ proprio parlando di “uno dei due soggetti” che si attribuisce valore alla classe sessuale, ed è ovvio che ragionando per classi sessuali si costruisca il genere come un’essenza universale.
Bisogna imparare a ragionare sull’individualità (vedere M. Rothblatt).
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“Inviteremo perciò gli uomini a riflettere sulla loro sessualità, sui loro automatismi, sulle vergogna di genere da cui i migliori devono smarcarsi, i peggiori liberarsi.”
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Scrivere una frase chiaramente eterosessista per invitare a riflettere sulla sessualità è piuttosto bizzarro.
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“se il 50% dei posti a sedere ai piani alti vanno alle donne un buon percento di maschi si deve scansare”
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‘Donna’ individua il genere, ‘maschio’ il sesso. Ravera le utilizza come fossero sullo stesso piano perché confonde sesso e genere.
quindi per hommequirit una donna che viva pienamente la propria sessualità (non credo proprio che Ravera abbia smesso, l’esempio della vecchietta è oltretutto quanto mai impreciso) e abbia affermato il diritto di parlarne quando questo non era affatto scontato, deve accettare di essere identificata con il suo organo sessuale e ad esso ridotta.
Superfluo chiedersi se questo valga mai per gli uomini.
Se non è violenza questa…
@Laura A.
Tu l’hai detto.
Se invece le interessa quello che intendevo, visto che non lo ha chiaramente capito, dato che non ha chiesto lumi e invece è partita in quarta con la smania di emettere sentenze e appiccicare bollini di violenza con estrema leggerezza, ebbene, glielo spiego. Non è mai stato in disucssione il “diritto” di Ravera a pubblicare ciò che vuole, ad affermare la sua sessualità “quando non era affatto scontato”; così come nessuno ha minimamente pensato che debba “accettare di essere identificata con il suo organo sessuale e ad esso ridotta”. Proprio in virtù di queste libertà, Ravera dovrebbe darci ragione dei suoi cambiamenti e se vuole essere credibile spiegare in maniera consistente e coerente per quale motivo il suo femminismo si declinava in uso emancipatorio della femminilità attraverso il sesso – perché c’era anche lei a gridare “io sono mia” con la cosina mimata dalle sue mani distese verso il cielo ed eretta a simbolo – e ora ritiene che questa identificazione offensiva (che in verità non c’è mai stata ed è puro pretesto per lamentarsi d’altro). Se l’autrice non riesce ad articolare il passaggio dall’essere stata protagonista intelligente di una filosofia che implicava anche un uso consapevole della propria cosina, anche a rischio che qualcuno identificasse il tutto con la parte, alla sua negazione allora io sono autorizzato malignamente a pensare che siccome non le è più dato il potere che l’avvenenza e la giovinezza concedono al sesso, e le hanno generosamente concesso addirittura con fortunati esiti editoriali, allora valga perfettamente il discorso di De andré. Naturalmente è superfluo ricordarle, cara Laura A., che qui non si parla della sessualità della persona Lidia ma dell’autrice Ravera, non del privato ma del pubblico.
Il passaggio non ha affatto bisogno di essere articolato, essendo implicito nell’istanza di autodeterminazione (anche) sessuale. Non affatto in contraddizione con la posizione espressa oggi.
Temo risulti oscuro solo a chi non abbia mai (più o meno consciamente) voluto accettarlo.
@Laura a.
Creda pure quel che vuol credere. Ma rispetti anche chi, come me, non ha né paraocchi né lenti a contatto con cui occultare o guardare la realtà.
Quello che per lei è “implicito nell’istanza di autodeterminazione (anche sessuale)” io lo voglio esplicito nel processo di divulgazione (anche retorica). Se lei non vede contraddizioni, faccenda sua. Io non chiedo altro che autrici intelligenti mi spieghino le ragioni della loro inversione di rotta a 180° senza nascondersi dietro argomenti da asilo o da lettino d’analista come lo sono proprio l’appellarsi magari all’autodeterminazione sessuale.
Tra l’altro, rilegga ciò che ha scritto e si chieda se anche lei non partecipa con la sua sintassi a quell’oscurità di pensiero e di non detti sulla quale io non chiedo che di fare maggiore chiarezza.
ripeto, non c’è nessuna inversione di rotta.
L’autodeterminazione può essere un termine un po’ fuori moda, ma non è un argomento da asilo o da analista.
Sarà noto anche a lei che ad un certo punto le donne hanno capito che volevano vivere la propria sessualità da soggetti, e anche voluto anche farlo sapere pubblicamente e politicamente. Naturalmente la sessualità è solo una delle tante dimensioni dell’esistenza, che in quel momento ha assunto un rilievo preponderante proporzionalmente a quanto era stata in precedenza repressa.
Da questa affermazione di soggettività è linearmente conseguente il non voler essere identificate con la sola dimensione sessuale.
Sicuramente potrebbe essere detto anche meglio, ma non vorrei portar via altro tempo alla vera discussione, quindi mi fermo qui, certa che la sua intelligenza la aiuterà a capire.
@Laura A.
Brutte bestie le lingue naturali, vero? Permettono infatti di dire un sacco di castronerie e sopratutto di non accorgersene.
L’affermazione di soggettività di uno implica la determinazione dell’oggettività di un altro, come l’analisi logica ci insegna. Siccome ogni frase di senso compiuto, come lei sa benissimo, implica un soggetto, un predicato e un oggetto, si comprende come in qualsiasi relazione esistente ciascuno è soggetto di qualcosa e oggetto di qualcos’altro. La topica della topa, intesa come soggettività della donna relegata a donna oggetto è puro artificio sofistico, ne converrà. Non ci sono donne oggetto, così come non ci sono donne identificate nel solo organo sessuale. Sono tutte quante trovate retoriche che articolano un semplicissimo concetto: io (soggetto) voglio comandare (predicato) altri (oggetto) più di quanto gli altri (soggetto) vogliano comandare (predicato) me (oggetto). Come avrà notato la banale struttura di questa frase l’ha già fatta passare dallo status di soggetto decidente a quello di oggetto subente, indipendentemente (e qui sta il bello) da chi sia il parlante che la pronuncia.
Ora vada avanti da sola: sono certo avrà compreso la natura illusoria e vacua di questo tipo di linguaggio femminista.
Avevo visto giusto, è il concetto che non le va giù. Si faccia un digestivo, che è meglio.
@Laura A.
No, cara, non mi va giù la forma. Quando la forma è inconsisitente (ovvero contraddittoria) articola un contenuto che non ha senso. E non ha senso per chiunque, maschi o femmine, minoranze o maggioranze, che piaccia oppure no.
Caro Hommequirt, provo a esplicitarle i passaggi visto che fatica a capire la risposta di Laura a..
La Costituzione all’art 2 tutela i diritti fondamentali della persona umana.
Il soggetto è la ‘persona’, non una sua determinazione biologica (colore della pelle, caratteri sessuali, eccetera). La persona è un guscio di diritti fondamentali che presidiano la dignità umana. Dentro questo guscio sta anche l’identità sessuale che comprende – come le diceva giustamente Laura a. – l’autodeterminazione rispetto alla propria sessualità.
Dunque rivendicare la libertà sessuale rimanda alla dignità della persona, non alla sua riduzione a oggetto sessuale o parte anatomica.
Ciò che dico vale naturalmente soltanto per chi accetta il disegno di conviventa civile che la Costituzione fissa.
Per coloro che non lo condividono, cioè coloro che non sono disposti a riconoscere la dignità umana, non c’è spazio nel nostro paese, perché l’art 2. è una sorta di super-principio che nemmeno la procedura di revisione costituzionale potrebbe modificare.
@Andrea Barbieri
Mi scusi ma lei arriva da me con tono da maestrino a redarguirmi spiegandomi una ovvia serie di passaggi per brandirmi alfine davanti agli occhi una parola valigia, un termine passe-partout come “dignità”, che vuol dire tutto e quindi niente? Rilegga ciò che ho scritto che non ha alcun nesso con il suo panegirico costituzionale a ruota libera.
Lei pensa troppo per la sua intelligenza.
“lei pensa troppo per la sua intelligenza” è proprio bello, voglio dirlo anch’io.
Caro Hommequirit, proprio perché non voglio usare parole senza un significato preciso, ho ancorato il significato della parola ‘dignità’ all’art 2 Cost. che riguarda i diritti fondamentali della persona umana.
Se mi riferisco alla Costituzione, è perché quei valori sono – o devono essere – condivisi.
Bene, ho trovato in libreria “Diventare persone” di Marta Nussbaum. Il titolo mi ha attirato, sul retro c’è scritto che la N. “individua i principi costituzionali fondamentali che dovrebbero essere rispettati e fatti rispettare dai governi di tutte le nazioni per superare la disparità e dare al concetto di dignità umana un nuovo spessore.”
L’ho comprato. A pagina 95, sotto la voce “integrità fisica” di un elenco delle “capacita funzionali umane fondamentali” trovo “la possibilità di godere del piacere sessuale”.
Costituzione – dignità – piacere sessuale.
E’ in sostanza la stessa argomentazione che ho utilizzato nel mio commento. Quindi siamo in due “a pensare troppo per la nostra intelligenza”: la Nussbaum e io. Non male come compagnia.
Andrea, grazie del supporto. Ma l’apparente contraddittorio di cui sopra non è che una trappola per sfinire l’avversario. Meglio usare le energie per altro.
ma sì dai, parliamo solo tra di noi in questa nostra bella e calda parrocchietta dove la pensiamo tutti (ops, scusate, tutt* ….. ) nella stessa identica maniera! E ignoriamo quei cattivoni che ci vogliono tendere una trappola cercando di prenderci per sfinimento con sterili e pretestuose polemiche!
A cosa serve non si sa, ma è così rassicurante!
Che cosa orribile l’unisono delle opinioni …!
rita, buona pasqua.
la signora Lidia Ravera cura ancora una rubrica de il fatto quotidiano? Si è dissociata, insieme alle altre donne che collaborano con il giornale, dall’articolo di Massimo Fini che non riesco più a trovare nella cronologia de Il Fatto? Lo potete trovare ancora qui:
http://www.massimofini.it/articoli/l-ossessione-per-la-donna
chiedo, gentilmente, un chiarimento.
Gentile Alessandra, lo chieda altrove. Ho riportato l’intervento di Lidia Ravera in una riunione specificamente dedicata alla violenza contro le donne. Questo blog non è il luogo dove regolare i conti, ma dove discutere degli argomenti trattati nel post. Grazie.
ah beh, se è per questo, Buona Pasqua anche a te/lei, Laura.
Cioè, uno contrappone un argomento, con un po’ di sarcasmo che ogni tanto non guasta (anche se sarebbe sempre meglio l’ironia) e l’altro cosa fa? Gli augura Buona Pasqua.
Ma smentirsi almeno una volta, no eh?
Buona Pasquetta, cara Rita.
Lipperini, sei una bella sagoma lasciatelo dire (o se lo lasci dire).
E non mi sei più antipatica, incredibile ma vero, e in fondo nessuno qui mi sta così tanto “su”, mi sembrate tutti ( o tutt* come piace a qualcuno) delle buone teste pensanti.