AL SOLITO, CHIAMALE EMOZIONI: UN LIBRO CHE VORREI SAPER SCRIVERE

Tra i miei romanzi kinghiani preferiti c’è La storia di Lisey. Forse non è il prediletto di molti altri, e pazienza: io lo trovo uno di quei rarissimi casi, in King e non solo, dove capacità di emozionarsi ed emozionare e abilità linguistica, e voglia anche di sperimentare, trovano un equilibrio perfetto. Il romanzo uscì nel 2006, in un momento dove molti di noi che amiamo King, e che amiamo i libri e la famigerata cultura pop guardavamo con gioia alla complessità crescente di quel mondo. Qui trovate un intervento di Wu Ming 1 in proposito:
“grandi masse di persone sono in grado di seguire, decodificare, commentare (nonché interagire creativamente con) prodotti culturali che ieri sarebbero stati avanguardia, comprensibili solo a minoranze colte, mentre oggi mandano in tilt gli indici d’ascolto e battono record di vendite.
Anche se a volte non sembra, il pubblico è maturato, è diventato più attento ed esigente. Soprattutto, si sente – ed è – sempre più coinvolto e partecipe, non vuole più essere soltanto “audience”. La cultura pop contemporanea tende a formare comunità aperte di fruitori-riutilizzatori. Per ogni serie TV o videogame esiste una sottocultura di massa, formata da persone che discutono, dissezionano livelli ed episodi, citano, rielaborano, producono addirittura guide ufficiose, manuali on line, compilano il Dizionario Inglese-Klingon, realizzano video amatoriali dedicati alla loro passione etc. Costoro siete “Voi”, gli “You” a cui Time ha appena dedicato la copertina di fine anno.”
Due anni dopo Facebook sarebbe sbarcato in Italia e, come ben sapete, “You” ha preso un significato diverso. Oggi, ci riflettevo in queste ore, è diventato molto difficile sentirsi parte di un voi digitale, scegliendo per esempio di intervenire con frequenza nelle discussioni: non è questione di “troppa violenza, contessa”, ma di quanto in moltissimi casi si discuta ponendo al centro il proprio sentire e non sentendo ragioni, non volendo sentirle, e aggredendo l’interlocutore. E’ uno dei motivi per cui mi sto tenendo lontana dai discorsi più caldi. Non ho paura. Ma le parole sono preziose, e finché non ne trovo di nuove, o non capisco come creare una situazione nuova per discutere, su molto taccio.
Ma che c’entra Lisey? C’entra, perché in queste giornate di baby-blues dovute alla chiusura di un romanzo dove sono stata immersa quattro anni – e che a sua volta affondava le radici in tempi più lontani, e scriverlo è stato felicità, certo, ma anche camminare nella parte più oscura di un bosco – , ho pensato a cosa mi piacerebbe saper scrivere. Ecco, Lisey: una storia d’amore, certo, e di perdita, anche, ma scritta senza nessun compiacimento di se stessi e senza strizzate d’occhio al lettore. Con una lingua funambolica, che muta a seconda delle dimensioni in cui Scott e Lisey si trovano, e altro non dico per chi non lo avesse ancora letto. King lo raccontò così:
“L’idea de La storia di Lisey mi è venuta all’ospedale, mentre cominciavo a riprendermi dalla polmonite, quando ho smesso di prendere gli antidolorifici e per la prima volta sono riuscito a pensare chiaramente. È stata una visione piuttosto chiara, l’idea di scrivere di qualcuno che sta solo, di mettermi in quella posizione. Ma c’era soprattutto la voglia di scrivere qualcosa che trasmettesse lo strazio del modo in cui sentiamo, della nostra fondamentale solitudine e di come sia possibile amare ma, prima o poi, l’amore finisca. Siamo mortali. È il meglio che posso fare. E volevo dare la sensazione che danno le canzoni di Hank Williams, sa, quelle canzoni che ci fanno piangere”.
In questo momento ho bisogno di storie così, e di posture simili, anche come lettrice. Non è facilissimo trovare, non si smette di cercare.

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