ALTRI APPUNTI

Riporto alcuni interventi sull’editoria usciti in questi giorni. Prima della pausa estiva, proverò a tirare qualche somma. L’unico punto su cui intervengo è sulla definizione di “gossip culturale”:  la diminuzione del ciclo vitale del libro, dalla sottoscritta evidenziata già a metà gennaio, è un fatto, ed è un fatto reale quanto grave. Per chi scrive, e per chi legge. Mi auguro che lo sia anche per chi pubblica.  Perchè la sensazione che ho, in questo momento, è che la discussione tralasci due fattori senza i quali il mondo editoriale non esisterebbe: gli scrittori, e i lettori.
Ilaria Bussoni, editor DeriveApprodi, su Il Manifesto del 21 luglio

Puntuale come un monsone, tra una medusa assassina e l’allarme meteoriti, ricompare anche quest’anno tra i privilegiati argomenti di intrattenimento estivo, l’eterno dibattito sull’editoria. L’estate 2010 è stata l’anno della rivoluzione digitale, della fine dei libri di carta, della guerra tra apple e amazon su formati e attrezzi vari da lettura, degli editori che si affrettano a trasformarsi in esperti informatici. L’estate 2011 è quella di una crisi del settore librario che si consuma per eccesso di produzione: in Italia di libri ce ne sono troppi. Se ne stampano troppi, pochi se ne vendono.
A denunciare un’ipertrofia che porta ogni anno più o meno 60.000 nuovi titoli a ingombrare inutilmente gli scaffali delle librerie è, per paradosso, il presidente dell’associazione librai italiani, Paolo Pisanti, su «Repubblica» del 19 luglio. In realtà, come ogni tema estivo, non è lui ad aver dato il là a un dibattito che ha già visto in merito gli interventi di Giuliano Vigini sull’«Avvenire» o dell’editore Marco Cassini sul blog della casa editrice minimum fax (con contenuti diversi, va detto). Ma è Pisanti a osare formulare un precetto finora mai espresso: ad affollare le librerie non sono i volumi dei grandi editori bensì «quelli dei piccoli, poche copie moltiplicate per moltissimi marchi». Ad affollare le librerie di libri definiti «inutili» non sono i «grandi» editori dei best-seller, degli Harry Potter, della Parodi in cucina, delle decine e decine di autori noir scandinavi… ad affollare le librerie di libri «inutili» sono tutti quei piccoli editori che si ostinano a pubblicare libri che non vendono, libri che nessuno vuole comprare né leggere.
Allora cosa vogliamo farci con 60.000 nuovi titoli l’anno? è il leitmotiv dell’estate 2011. Non sarebbe meglio toglierne un po’? Magari proprio quelli che non vendono. Magari proprio quelli dei piccoli editori che non hanno capito che potrebbero fare i soldi pubblicando solo un paio di titoli l’anno, ma si ostinano a pubblicare migliaia e migliaia di libri che non vendono.
Dalla risposta a questi quesiti nasce la campagna, ideata da chi scrive e diffusa sul web, «salva un libro, uccidi un editore». La prima campagna di vera ecologia libraria, altro che carta riciclata non lavata col cloro. 60.000 titoli l’anno corrispondono a: inquinamento da traffico, perché i libri «inutili» in libreria ci vanno coi camion; sperpero delle risorse, perché i libri «inutili» li stampano con le foreste; inquinamento morale, perché i libri «inutili» confondono i lettori che arrivano in libreria e tra 60.000 libri non sanno più cosa comprare e magari finisce che non comprano niente; inquinamento civile, perché i libri «inutili» fanno passare per scrittori degli sfigati qualunque che invece non legge nessuno; inquinamento commerciale, perché i libri «inutili» sono come una bolla speculativa per il mercato immobiliare.
Meglio quindi eliminare i 59.800 libri di troppo e lasciare nelle librerie quei 200 titoli che davvero i lettori vogliono comprare. Facciamola finita con la «bibliodiversità», con i classici in diversi edizioni e le troppe traduzioni disponibili, con i generi letterari e gli stili che si moltiplicano, con tutte queste lingue tradotte, senza parlare poi delle copertine, dei formati, delle bandelle. Meglio trovare un format che funziona, un modello-libro-che-si-vende e fare quello. E per fare questi 100-200 libri davvero importanti, questi libri che il pubblico comprerebbe anche se non sapesse leggere, che farebbe qualunque cosa per comprare (persino andare a cercarli in un supermercato!), bastano pochi editori. Sono sufficienti i pochi «grandi» editori di questo paese.
Sui piccoli editori occorre mettere una moratoria. Scremarne un po’. Dargli degli incentivi perché magari tornino all’agricoltura. Penalizzare quelli che si ostinano a pubblicare libri che non vendono. Occorre pensare una politica per limitare questa proliferazione di piccoli editori, al punto che persino stabilirne quanti sono è complicato: c’è chi dice siano oltre 10.000, ma nel 2008 l’Istat ne censisce 1.700 in tutto. Dunque, non solo prolificano i piccoli editori, non solo inquinano, ma sono pure clandestini. Per tutte queste ragioni, la salvezza del mercato librario, la salute delle librerie, il benessere dei lettori, la vera risposta alla «crisi del libro» passa da una sola e unica misura: salva un libro, uccidi un editore!
Andrea Libero Carbone, editore :duepunti, su Il manifesto del 23 luglio
Che in Italia si pubblichino molti (o troppi) libri, è un dato di cui il lettore medio non può essersi accorto. Scorriamo le classifiche, facciamo caso al gossip culturale e poi andiamo in una grande libreria del centro. Troveremo alte pile degli stessi libri, pubblicati da poche decine di editori, spesso riuniti in gruppi. Torniamo due settimane dopo: stesse pile ma molti titoli saranno cambiati. Gli altri, spariti per sempre. Come ha scritto André Schiffrin (Il denaro e le parole, Voland 2010), in libreria oggi è quasi impossibile imbattersi in una sorpresa: in una parola, la «bibliodiversità» è ridotta ai minimi termini.
Giovedì su queste pagine Ilaria Bussoni ha fatto il punto su alcuni aspetti dell’inconsistenza della tesi secondo cui i titoli poco vendibili proverrebbero per lo più da editori medio-piccoli, chiamati perciò a contrarre per primi un patto di «decrescita». Sul piano politico più ampio, pochi slogan eguagliano la decrescita per ambiguità: piace sì a certa sinistra, ma anche a molte destre, affascinate da oscure mitologie premoderne. Sul piano editoriale, ancora Schiffrin scrive che per esempio il gigante Bertelsman-Random House riduce ormai l’offerta a pochi titoli capaci di vendere niente meno che 60.000 copie.
Non si capisce del resto come la decrescita possa contribuire alla «bibliodiversità», dato che si traduce in una «bestsellerizzazione» dell’offerta, cioè nell’omologazione a un modello «di cassetta» proposto da pochi soggetti forti che invadono il mercato con grandi tirature e un battage mediatico dai toni di propaganda. La decrescita, insomma, è una politica funzionale ai poteri forti dell’editoria. Ma cosa dà forza a questi poteri? Oggi un medesimo soggetto può essere insieme editore di libri e giornali, produttore di media, promotore commerciale, proprietario di librerie, distributore, grossista, operatore logistico… Svolgere cioè tutti i ruoli della «filiera editoriale» esercitando un controllo capillare sul mercato e facendo eventualmente cartello con altri soggetti suoi pari.
La battaglia per la promozione della «bibliodiversità» riguarda dunque una revisione delle norme anti-trust che oggi permettono questo stato di cose. Su questo cimento politico, indicato su «Nazione Indiana» il 28 maggio da chi scrive e giovedì scorso da Marco Cassini sulla «Stampa», gli editori indipendenti dovrebbero concentrare i loro sforzi comuni in vista di una vera legge sul libro, non più rinviabile. Una legge che dovrebbe prevedere un significativo alleggerimento della pressione fiscale sulle librerie indipendenti, nonché rivedere il sistema del sostegno economico a editori, scrittori, traduttori, librai, sul modello francese del Centre National du Livre. Ma in primo luogo occorre impegnare un governo altro da questo sull’attuazione di una politica degna in materia di cultura, formazione scolastica e universitaria, e ricerca, perché lo sfacelo vigente non produrrà certo nuove generazioni di lettori per i libri che ci ostiniamo a pubblicare in una quotidiana opera di resistenza.
Jacopo De Michelis (Marsilio) da Affari italiani.
Negli ultimi giorni due questioni animano un vivace e interessante dibattito tra gli addetti ai lavori, in un anno non facile sotto vari aspetti di transizione per l’editoria italiana: la cosiddetta “decrescita felice” e lo spettro incombente di Amazon, da poco affacciatasi anche nel mercato italiano. La prima questione – la proposta avanzata da Simone Barillari in seno al gruppo TQ e ripresa da Marco Cassini di Minimum Fax di una diminuzione generalizzata della produzione editoriale per “allungare” la vita dei libri pubblicati – è di sicuro animata dalle migliori intenzioni e, se intesa come un invito a un più attento e rigoroso lavoro di selezione da parte degli editori e a non cedere completamente ai diktat del mercato e del marketing, ricordandosi che se i libri sono anche una merce, sono una merce molto particolare, di cui va salvaguardata la specificità, è assolutamente lodevole e condivisibile; ma se va presa nel senso di una significativa diminuzione dei libri messi annualmente sul mercato, allora assume tutto un altro aspetto.
Nonostante di primo acchito l’equazione “produrre meno per produrre meglio” suoni molto bene, se ci si sofferma a riflettere si tratta di una proposta irrealizzabile, non priva di pericoli e soprattutto – purtroppo – inutile. Irrealizzabile, perché così come il salary cap per i giocatori di calcio, è una di quelle questioni destinate a essere dibattute all’infinito senza che si trovi mai un accordo abbastanza ampio per applicarla. Ma ammettiamo pure che fosse realizzabile, in tal caso si tratterebbe di una proposta che contiene in sé più di un pericolo, perché meno libri pubblicati vorrebbe dire meno bozze da editare, impaginare e correggere, meno traduzioni da assegnare ecc., togliendo lavoro e aggravando le condizioni già non facili di quella vasta area di “precariato culturale” che gravita attorno alle case editrici; e non solo, siccome non c’è nessun automatismo tra la diminuzione dei titoli pubblicati e l’aumento delle vendite di quelli restanti, almeno a breve-medio termine ciò rischierebbe di provocare una diminuzione del fatturato degli editori e un conseguente taglio degli organici degli stessi, senza alcuna garanzia di recuperare successivamente. Ma ammettiamo pure che tali rischi non esistessero, si tratterebbe comunque di una proposta sostanzialmente inutile: l’editoria – quella italiana non differentemente da quelle degli altri paesi – è alle soglie della rivoluzione digitale, e qui entra in campo la seconda questione, quella del ruolo di Amazon nel mercato editoriale prossimo venturo.
Lo scenario che la diffusione degli ebook ci comincia a lasciare intravedere è quello di un mercato in cui, virtualmente, ogni singolo testo che sia mai stato scritto può diventare un libro “pubblicato”, autonomamente dall’autore stesso oppure per il tramite di retailer come Amazon che negli USA già offrono questo servizio, e magari messo in vendita al prezzo stracciato di 0,79 centesimi, con un conseguente aumento vertiginoso della produzione editoriale complessiva e un abbassamento generalizzato dei prezzi.
Di fronte a uno scenario del genere, che non è attuale ma è molto meno lontano di quanto ci piacerebbe credere, ha davvero senso  proporre la decrescita come rimedio ai mali dell’editoria, o non significa piuttosto combattere con la testa rivolta all’indietro invece che in avanti? Lottare contro il nemico di ieri, che già si avvia verso il declino, invece che con quello di domani, che avanza a grandi passi agguerrito e potente? Le sfide che noi che operiamo in questo settore abbiamo di fronte sono ben altre. Tornando alla questione dei ritmi dell’attuale produzione editoriale, Gian Arturo Ferrari su Repubblica di qualche giorno fa ha ben spiegato come oggi in Italia non si pubblicano più libri che altrove, almeno non più che in quei paesi con cui ha un senso che il nostro si confronti – Francia, Germania, Inghilterra ecc. Ciò che ci differenzia dai summenzionati paesi sono invece le statistiche sulla lettura: da noi infatti si legge molto, anzi drammaticamente di meno. L’anomalia insomma non è dal lato dell’offerta, ma da quello della domanda. E dunque, nell’immediato, la soluzione del problema, ciò per cui vale davvero la pena riflettere e lavorare, non consiste nella diminuzione dell’offerta di libri, quanto nel trovare dei modi incisivi ed efficaci per far crescere la loro domanda (e qui bisogna dire che il Centro per il libro e la lettura di cui è presidente lo stesso Ferrari dovrebbe giocare un ruolo decisivo e insostituibile, e speriamo che sia messo presto nelle condizioni di farlo).
Quanto al domani, noi dell’editoria dovremo molto probabilmente imparare a produrre molti più libri di quanto facciamo oggi, non certo di meno, e se non lo faremo il rischio è che saranno altri a pubblicarli al posto nostro, gli autori stessi, nuovi editori specializzati in ebook, oppure gli store online; e dovremo anche imparare a valorizzare al massimo e a difendere con le unghie e con i denti la specificità e l’essenzialità del nostro ruolo, il valore aggiunto che mettiamo nei libri che pubblichiamo, perché il rischio che si annuncia all’orizzonte è quello della disintermediazione, ovvero di un mercato editoriale in cui gli autori propongono direttamente ai lettori le loro opere, oppure per il tramite di retailer come Amazon – che una tentazione del genere l’ha già manifestata chiaramente – saltando un anello della filiera, le case editrici, che in prospettiva sarebbero quindi destinate a scomparire.
Questo è il futuro che ci aspetta – gravido sì di rischi, ma anche di grandi opportunità -,  queste sono le sfide davvero importanti con cui dovremo misurarci, per le quali occorre attrezzarsi fin da ora, se non vogliamo farci trovare impreparati.

15 pensieri su “ALTRI APPUNTI

  1. “La battaglia per la promozione della «bibliodiversità» riguarda dunque una revisione delle norme anti-trust che oggi permettono questo stato di cose. ”
    Ecco, si ritorna sempre al punto.
    Quello vero.
    Politico.
    Dove gli editors della Premiata Ditta cominciano a fare orecchi da mercante e gli Autori della Premiata Ditta rivendicano l’opzione di far saltare le contraddizioni “dal di dentro”
    Amen.

  2. apprezzo molto gli interventi, ancorché esprimano pareri diversi, e diversi dai miei: proprio perché apprezzo la diversità di opinione tanto quanto la bibliodiversità…
    alcune annotazioni che spero aiutino a sgombrare il campo da equivoci. è vero che una interpretazione restrittiva o errata del concetto di “decrescita editoriale” può produrre più danni che benefici. ma quando mi sono permesso di usare una prima persona plurale dicendo che “noi editori dovremmo impegnarci a…” non ho certo detto “noi piccoli editori”. per cui non è che io proponga, come taluni hanno creduto, “noi piccoli editori dobbiamo tutti pubblicare meno in modo da lasciare ancora più spazio ai grandi per inondare le librerie”. questo per dire che non credo una siffatta proposta ci faccia correre il rischio paventato da fazio e altri (incluso carbone) che si finisca tutti col pubblicare solo potenziali bestseller tralasciando la ricerca sulla qualità.
    a chi domanda “e allora quali libri tagliate?” rispondo che non intendo tagliare nulla (tagliare significa rinunciare a pubblicare qualcosa che si è già scelto): per dare un esempio concreto, la mia casa editrice per i prossimi due anni infatti non sta facendo che rimodulare i piani editoriali in modo da spalmare su un periodo più lungo quei titoli già selezionati e che inizialmente si pensava di pubblicare in un arco di tempo meno esteso. per il futuro invece ci impegniamo a essere ancora più selettivi. quando pubblicavamo quattro (e prima tre, e prima due) titoli l’anno nella collana di narrativa italiana nichel non eravamo più selettivi rispetto a ora (o: se ora ne pubblichiamo sei non significa che di quattro non siamo poi così convinti). oggi abbiamo più occasioni di incontro con scrittori, siamo diventati un editore a cui più autori e agenti letterari si rivolgono, abbiamo i secondi e i terzi libri di quegli autori già pubblicati da noi e che ritornano (e che prima non avevamo ancora) e quindi negli ultimi due anni ne abbiamo pubblicati sei. per i prossimi due anni immaginiamo di ridurre magari a cinque, dando ancora più tempo ai nostri autori per scrivere, lavorare con l’editor, e così via. insomma, la bibliodiversità è salva, e la vita del libro è prolungata sin dal suo concepimento. non ho detto infatti che dobbiamo o dovremmo pubblicare meno tout court, ma pubblicare meglio. impegnarci cioè a prolungare la vita del libro prima e dopo la pubblicazione (sul dopo, accogliendo e raccogliendo quindi la preoccupazione della sempre più breve durata di un libro in libreria; sul prima richiedendo un impegno a noi editori di lavorare sempre meglio alla selezione, cura, realizzazione del libro: in questa duplice direzione quindi credo di rispondere alla duplice preoccupazione espressa qui in apertura da loredana lipperini; da una parte prolungare la vita del libro, dall’altra occuparsi del lavoro editoriale con gli scrittori. e i lettori?, ci chiede sempre la padrona di casa. ho parlato quasi solo di quello nel mio intervento: il patto principale, ho scritto, è fra editore e lettori.)
    per finire, mi sono preso la briga di inviare perfino una lettera a repubblica per dirlo, e l’ho scritto in alcuni degli interventi che ho fatto su questo e altri luoghi di discussione, la “decrescita editoriale” era solo una delle mie modeste proposte. il senso più generale del mio intervento, e non credo di doverlo ripetere ancora una volta, era di ben più ampia portata: era un invito e un impegno a non cadere nel tranello della via facile, dell’omologazione, della semplificazione (e questo mi pare assolutamente nella direzione della bibliodiversità: sono arrivato perfino a esprimere una circonlocuzione che forse potrebbe essere una definizione più estesa – e a contrario – di bibliodiversità, quando ho scritto che uno degli errori degli editori è di promuovere i propri libri “come qualcosa di riconoscibile non perché unico ma perché al contrario simile a qualcos’altro”); ma soprattutto era un invito a riflettere su quello che ritengo la principale delle mie preoccupazioni (condivisa da altri) e cioè le storture del mercato editoriale, e la necessità di porre un argine alle concentrazioni orizzontali e verticali.
    invece il dibattito si è tutto incentrato solo sul concetto di “decrescita editoriale”, e si è discusso ragionato controbattuto inveito osannato solo quelle due paroline, estraendole da un contesto più ampio e articolato e argomentato e dotandole di un valore sloganistico. insomma mi pare che il rischio della semplificazione che ho stigmatizzato nel mio testo sia stato messo in pratica, in qualche occasione, addirittura nel recepire quel testo stesso. a ben vedere forse le risposte le repliche i chiarimenti sul mio intervento sono in qualche modo già espressi nel documento stesso, il quale alla luce del dibattito che ne è seguito risulta certo arricchito. se non rischiassi di sembrare supponente direi che forse a rileggerlo oggi se ne possano comprendere meglio le modeste intenzioni.

  3. Cassini, io ci sto pensando su da un paio di giorni e sono arrivato alla conclusione che la “decrescita” ha un senso per come la declini tu adesso (fare meno libri per seguirli di più) ma come proposta generalizzata di soluzione del problema finirebbe per generare lo scenario peggiore, cioè la scomparsa dei piccoli e l’aumento dello strapotere dei grandi.
    Secondo me hanno senso due cose, non alternative ma complementari, una politica (premere sull’antitrust e boicottare – a livello di consumatori e di autori – le major), l’altra tecnologica (affrettare la diffusione dell’ e-book in modo che venga azzerata l’attuale disparità nella distribuzione tra chi domina l’intero ciclo produttivo e chi invece svolge magari meglio il lavoro di selezione e produzione ma non è in grado di difendere la permanenza dei propri prodotti in libreria).

  4. loredana, grazie del chiarimento. a dire il vero nonostante il mio atavico senso di colpa e il mio codadipaglismo spinto, stranamente non avevo interpretato come riferita a me il richiamo alla faccenda del “gossip culturale estivo”. mi ero riferito alla tua breve introduzione di stamani riprendendo la tua giusta preoccupazione a che non vengano tralasciati i rapporti degli editori con autori e lettori sottolineando, in risposta, come il mio testo da una parte prendesse le mosse proprio dalla voglia di recupero del rapporto coi lettori; dall’altra come dicevo intendesse recuperare un maggiore e miglior tempo da dedicare ai libri non solo dopo la pubblicazione ma prima (quindi appunto proprio per migliorare ulteriormente il rapporto editore-autore).

  5. premesso che la Lippa non può fare rastrellamenti, né che si possa pretendere che uno vada dove non vuole, è comunque abbastanza desolante che l’unica voce editoriale presente in questi post sia quella di Cassini, ossia Minimum Fax. Si potrebbe pensare (e lo dico solo come paradosso) che lui sia qui a promuovere se stesso e a tentar di diventare la Mondadori del futuro.
    Non conoscendo personalmente Cassini, ma avevdo buona contezza di quello che Minimum Fax pubblica, sono portato a ritenerlo in buona fede. “Pubblicare meno, pubblicare meglio”, quindi, deriverà da un ragionamento fattuale al di là degli slogan. Mi sembrerebbe strano se Cassini avesse ignorato l’eventualità che “pubblicando meno, pubblicando meglio” rimarrebbero in vita solo le major.
    Non so se Cassini, grazie a una rivoluzione del mercato editoriale, aspiri a riciclarsi ricco e spietato come il conte di Montecristo. Ma, di certo, non credo voglia che l’Acea gli stacchi la luce della casa editrice.
    Diamo per buono, quindi, che la selvaggia e indiscriminata pubblicazione vada frenata in ragione di un’oculatezza qualitativa. Ma, mi chiedo, quali sono le linee guida di questo programma? Minimum Fax avrà le sue, che saranno forse diverse da quelle di Ponte alle grazie o di Nottetempo o di Fandango. Insomma, ogni editore ha (o dovrebbe avere) un suo concetto di qualità e perseguirlo poi nella pubblicazione. Attualmente ho dei dubbi. Vedo tanti editori (major atque minor) come se partecipassero al gioco della pentolaccia. Bendati, con un bastone in mano, a spaccare pignatte di coccio. Se poi spaccano quella con le leccornie gastonomiche o quella con lo sterco di pecora, ciò pare casuale.
    E poi, credo, l’individuazione della formula magica è solo il primo passo. Come promuoverla, questa qualità? Come diversificarla? Come far passare il messaggio che una cosa è di qualità rispetto a un’altra che non lo è? E se per l’editore X una cosa non è di qualità, potrebbe esserlo invece per l’editore Y. Insomma, sarebbe mai possibile in tal senso una sorta di accordo tacito tra editori? Ho dei dubbi. Magari sono amici, ma comunque concorrenti. Nessuna scorrettezza, magari, però è lecito il raggiungimento del miglior risultato. Non so, forse sbaglio. Ma ragiono con i miei parametri. Per esempio, sono amico da oltre 30 anni di Massimo Lugli. Ma io sto al Messaggero e lui a Repubblica e, se posso, gli faccio “correttamente” un culo così.

  6. Loredana, onestamente io avverto una confusione dei piani. Le politiche sui prezzi dei libri, sulla distribuzione ecc. sono una cosa. Ed è un piano su cui si può intervenire. Quello che non sopporto ( estiqatsi dirai ) è quando si arriva a parlare di qualità dei libri, di bibliodiversità. La qualità editoriale riguarda la professionalità, la qualità letteraria è un’astrazione. Cioè o mi si dice che gli editori stanno per fallire e allora mi posso anche preoccupare oppure cosa è che vogliono? Non si può raccontare la favoletta del mercato cattivo che ha fatto nascere tanti libri brutti, tutti uguali ecc. Per favore! Hai pubblicato libri brutti ( brutti secondo te poi, a me piacciono tantissimo ) cazzi tuoi.
    Sul ciclo vitale del libro penso che in un paese esistono tot scrittori e libri scritti. Se questi aumentano mi pare ovvio che escano più libri e che restino meno in libreria. Dovrebbero aumentare le librerie e dovrebbe succedere che i librai facciano scelte diverse di esposizione. Ma invece di insistere sul tempo di rimanenza, e comunque se un libro non vende c’è poco da fare, ha più senso far conoscere quel libro fuori dalla libreria e magari uno poi va in libreria e lo ordina ( scusate ma che è questa fretta per cui o il libro c’è o apriti cielo! ). In libreria ci vado se un libro è appena uscito e mi va di leggerlo al più presto. Le case editrici potrebbero accordarsi per aprire delle biblioteche. La libreria come centro culturale non è più necessaria, è sempre un piacere andarci, càpita di trovarne alcune speciali, ma l’informazione sul libro perlopiù passa altrove.
    Quello che mi rimane è il discorso reale e concreto che faceva @Danae, che raccontava come il suo lavoro fosse peggiorato nei fatti. Ma questo riguarda chi lavora, e la sua capacità di sopportazione. Devono muoversi in proprio, non arriverà nessuno a migliorare le loro condizioni.

  7. paperinoramone. Forse mi sono espressa male io. Il discorso che interessa me non riguarda i bollini di qualità. Riguarda a) il ciclo vitale (che è un’anomalia collegata alla nostra anomalia economica, anche: flussi di denaro inesistente non precisamente svincolati dai prestiti bancari, per esempio). Che, se di giorni trenta, è un danno per tutti gli scrittori che non entrano nella top 20 delle vendite, e per i lettori che, fisicamente, non vedono i libri che cercano. Tu li ordini? Altri entrano in libreria e guardano. Se non vedono, non comprano. Per me, è la riduzione del diritto di scelta. b) l’iperproduzione per imitazione. Non sono affatto contraria a pubblicare Moccia. Ho dubbi se subito dopo vedo fiorire trecento imitazioni di Moccia. Non sono contraria – figurarsi! – al libro dell’esordiente che vince o sfiora lo Strega. Ma ai cinquecento esordienti che nella stagione a venire vengono mandati al massacro cercando il bis. E’ miopia, ed è dannosa. Per me, lettrice e osservatrice.
    Marco. La tua coda non c’entra: anche in questo caso, non mi rivolgevo a te, bensì a un paio di interventi successivi che mi sembravano col mignolo alzato, come se la faccenda non fosse – e restasse, pur con tutta la buona volontà TQ – molto grave.

  8. Un chianti classico per l’editoria
    Immaginiamo di essere sull’autobus romano n. 75, quello che in 45 minuti va da piazza Indipendenza a Monteverde, sono le 8 del mattino, è un luglio anomalo perché non fa caldo, ma la città è già semivuota per le partenze estive. Immaginiamo di comprare un quotidiano importante, di aprirlo e di iniziare a leggerlo alle pagine culturali soddisfatti di aver trovato un posto a sedere. Il giorno prima è stato avviato un dibattito, sulla «crisi delle enoteche», perché c’è la forte impressione che il vino venga bevuto sempre meno, ormai se ne consuma anche meno di una bottiglia procapite all’anno (sopra i 16 anni). I piccoli vignaioli stentano a portare avanti il loro lavoro, perché a imporsi sul mercato sono i grandi produttori, quelli che riescono ad avere una presenza maggiore, ad abbassare i prezzi e che fanno un vino «più vendibile» con un gusto più omologato e quindi più facile. Immaginiamo di leggere, su questo importante quotidiano, un’affermazione del presidente delle enoteche italiane che suoni più o meno così: le enoteche italiane sono in crisi perché sono sommerse da centinaia e centinaia di piccole etichette che propongono troppi vini diversi; sarebbe ora di smetterla di produrre tutti questi chianti classici di cui nessuno sente la necessità; basterebbe produrre molte meno varietà e ciascuna in molte più bottiglie… Immaginiamo che quello seduto sull’autobus che legge sia un piccolo vignaiolo, uno che fa poche bottiglie e che non è affatto affermato sul mercato del consumo di massa; fa un suo chianti classico anche se ce ne sono già tanti ed è convinto che sia del tutto diverso da quello degli altri e c’è pure, tra i bevitori, chi lo apprezza. Ebbene, questo vignaiolo sull’autobus 75 a Roma nel bel mezzo di una mancata calura estiva come dovrebbe sentirsi di fronte all’osservazione del presidente italiano enoteche? Di fronte a qualcuno che in qualche modo gli sta consigliando di sparire, di andare a fare dell’altro, magari l’editore?
    Ecco, quando ho letto la seconda puntata del dibattito organizzato da Loredana Lipperini su «Repubblica» il 19 luglio scorso, mi sono sentita come questo ipotetico vignaiolo: feccia. L’affermazione di Pisanti era così assurda e offensiva nei confronti di un’intera categoria di «imprenditori culturali» che ho pensato di non aver capito, colta da sconcerto. Quando ho davvero preso nota di dove si aprissero e chiudessero le virgolette, ho pensato fosse giusto rispondere, testimoniare un dissenso anche nel risvolto presuntamente «oggettivo» di quell’affermazione: le librerie sono intasate dai piccoli editori che non vendono e la crisi del libro grossomodo sta qui.
    Poi, però, ho anche pensato che gli interventi dei piccoli editori sembrano spesso avere quel tono lamentoso di chi si sente escluso, di chi rivendica una centralità che non riesce a conquistarsi da solo, di chi vuole un aiuto, una tutela, un diritto a esistere perché in fondo non sa fare bene il proprio mestiere. È spesso così che vengono intese le denunce degli editori indipendenti, come la richiesta di un assistenzialismo (ohibò) che consenta loro di vivere anche a prescindere da ciò che decide il mercato. E in genere la reazione di chi legge è più o meno la seguente: col mercato fanno i conti tutti carino e non si vede perché i libri debbano fare eccezione.
    Pr evitare di cadere in questo tranello retorico – ah, ecco l’ennesimo editore che vorrebbe solo due lire per campare ¬– ho pensato che una «campagna» provocatoria e dai toni paradossali fosse più efficace. Se sul sito della casa editrice DeriveApprodi, di cui sono la subdirettora, avessimo pubblicato un intervento con tanto di cifre e analisi per dimostrare che la crisi delle librerie, del sistema culturale, della lettura fa tutt’uno con la «crisi economica», con un modello monopolistico di tipo berlusconiano, con la riforma dell’università già Berlinguer poi Moratti poi Gelmini, con i tagli alle risorse culturali e alle biblioteche, con l’idea che né i libri né la cultura siano un bene comune, ecco se sul sito avessimo scritto e argomentato tutto questo credo che in pochi se ne sarebbero accorti (solo gli estimatori del nostro chianti classico per intenderci). Il nostro intervento aveva con tutta evidenza il tono acido della provocazione e come ogni bravo giornalista sa, e Loredana Lipperini meglio di molti altri, occorreva semplicemente un incipit. Non volevamo in alcun modo denigrare il lavoro di Loredana Lipperini, che sappiamo essere giornalista attenta alle trasformazioni del mondo editoriale tutto, e questo da diversi anni. Volevamo però testimoniare il nostro fortissimo disagio di fronte ai contenuti di un’affermazione riportata sul giornale per il quale la Lipperini scrive. Come potevamo sentirci in quanto editori che da anni portano avanti un lavoro di ricerca (a volte anche con vantaggio dei grandi editori), senza alcuna sovvenzione o pubblico contributo, un lavoro basato sul nostro auto sfruttamento e sulla nostra precarietà e sul nostro rischio, di fronte a qualcuno che definisce i nostri libri «inutili»? Alla stregua di ciò che dice Pisanti, dovremmo quindi pensare, ad esempio, che la nostra ripubblicazione della traduzione dell’Odissea di Omero per mano del poeta e critico d’arte Emilio Villa sia stata «inutile»? O persino che l’editoria italiana vivrebbe una migliore condizione se avessimo rinunciato a ripubblicare quella storica – e per noi fondamentale – traduzione dell’Odissea? E pensare che avevamo persino immaginato di pubblicare la ritraduzione dell’Antico Testamento fatta proprio da questo grandissimo studioso di lingue semitiche. Cosa risponderebbe Pisanti? che non serve perché c’è già la Bibbia della Cei?
    Ci spiace sinceramente se Loredana Lipperini non ha colto il risvolto volutamente tagliente di una risposta piccata, che non era in alcun modo rivolta a lei. Del resto lei stessa sa che il dibattito sulla crisi del libro è solo all’inizio, come è solo all’inizio quel processo di concentrazione della filiera di vendita del libro che porterà tutta l’editoria indipendente ad avere una posizione di mercato sempre più marginale. Si tratta di un processo avviato da tempo, che oggi subisce un’improvvisa accelerazione anche in relazione alla «crisi», anche di fronte a una ristrutturazione del mercato del libro nel quale a contare sono i manager e i buyers.
    C’è chi da anni denuncia il processo in corso: basti vedere la riflessione di Alfredo Salsano (scomparso direttore editoriale di Bollati Boringhieri, quando la casa editrice era indipendente) e la sua proposta di un circuito Slowbook; o gli articoli di Marco Bascetta (direttore editoriale della manifestolibri) di denuncia del «monopolio di fatto» dell’editoria italiana; o il progetto di «filiera corta» dell’associazione criticalbook di cui DeriveAprodi è un animatore… Da anni singoli o piccoli gruppi di editori denunciano un mercato del libro che favorisce le concentrazioni, un mercato dopato dalle rese e dalle fatturazioni; denunciano la moria delle librerie indipendenti e la necessità di immaginare forme di difesa dell’editoria di ricerca e di progetto; denunciano i tagli alle risorse per la cultura in generale e le biblioteche – comunali, scolastiche, universitarie – in particolare; denunciano le continue richieste di sovrasconti da parte delle catene di librerie, che finiscono con lo strozzare l’editore lasciandogli meno del 40% del prezzo di copertina di un libro…
    Di tutto questo si continuerà a parlare, forse anche con la consapevolezza che per molti editori in gioco c’è la loro sopravvivenza. Prima di darsi all’agricoltura, gli si vorrà perdonare la voglia di non darla vinta (almeno a parole).

  9. Ilaria Bussoni: io non ho “organizzato” un bel niente. Io ho firmato due articoli su questo argomento. Il primo è uscito il 14 gennaio, il secondo il 18 luglio. Quindi, cominciamo a stare alla realtà dei fatti, grazie.

  10. Sono sinceramente dispiaciuto del fatto che l’espressione “gossip culturale” abbia potuto occasionare dei malintesi. Non mi riferivo affatto al dibattito in corso sui maggiori quotidiani e sui principali blog letterari perché non ho l’abitudine di denigrare i miei interlocutori. Intendevo, per esempio, proprio il battage mediatico che accompagna con rulli di tamburo i “cinquecento esordienti che nella stagione a venire vengono mandati al massacro cercando il bis” (Lipperini) e altri fenomeni consimili.
    Per riprendere l’intervento di Marco Cassini, trovo senz’altro commendevole l’obiettivo di assumere a criterio della produzione editoriale la qualità delle scelte e del lavoro, cioè la coerenza rispetto a una politica editoriale dichiarata e riconoscibile, e concordo sul fatto che per una casa editrice sia razionale e raccomandabile autoregolamentare quantità e ritmi di produzione commisurandoli alle proprie forze. Per fare un esempio banale, basterebbe già che un piccolo editore pubblicasse soltanto i manoscritti che ha avuto il tempo di leggere personalmente e che la sua redazione ha avuto modo di rifinire dedicando a ciascuno la cura che un buon artigiano investe nel suo manufatto. Mi pare in effetti che nella sostanza la proposta di Marco consista in questo, e che questo fosse lo spirito di Marcos y Marcos, casa editrice che per prima l’ha messa in pratica. E questa scelta, che per me non è di “decrescita” (termine del lessico politico, come “marxismo”, “protezionismo” o “liberismo”) ma di buon senso e, come si diceva una volta, di onestà intellettuale, deve essere affiancata a una battaglia politica su altri fronti, che investono gli aspetti strutturali della filiera editoriale. Mi pare che anche su questo ci si ritrovi su posizioni comuni, benché diversamente articolate.
    Uno di questi aspetti riguarda naturalmente il prezzo del libro e la regolamentazione delle campagne promozionali, ma anche, bisogna aggiungere, dei sovrasconti imposti agli editori per entrare nei circuiti si smercio più visibili. Molti lettori, anche su questo blog, sono insorti giustamente contro una legge che li priva del vantaggio di un congruo sconto su prezzi di copertina spesso molto alti. Ripeto, giustamente. Siamo tutti lettori, prima di ogni cosa. Ma occorrerebbe considerare che del prezzo di copertina di un libro una percentuale che va dal 50% a oltre il 60% spetta alla distribuzione, che paga a sua volta le librerie in percentuali molto variabili, e che contando anche i diritti d’autore e chiaramente le spese di produzione, il ricavo degli editori è molto lontano dalla cifra iniziale, ridotto di vari ordini di grandezza. A mio avviso il lettore può e deve pretendere dagli editori una politica dei prezzi onesta e commisurata al valore del lavoro che ha permesso la pubblicazione di un buon libro, senza pagare sovrappiù. Ma se a questo non corrisponde un “consumo critico” del bene libro, attento alla complessità e alle storture delle dinamiche che governano il mercato editoriale, il circolo non può che rimanere vizioso.
    Il commercio della libreria oggi non è un libero mercato, se per libero mercato intendiamo un regime di scambio in cui vige una libera concorrenza che permette ai libri migliori di essere apprezzati e acquistati al miglior prezzo. È inquinato da pratiche di controllo e di concentrazione di pochi soggetti forti. Non dovrebbe neppure essere inteso come un regime di concorrenza, a rigore, perché un libro non è un frigorifero o un’automobile, non se ne compra certo uno solo.
    Una delle possibili soluzioni a questo stato di cose, che deve a mio avviso tradursi in una proposta politica da parte degli editori indipendenti di qualità, è un programma di aiuti e di alleggerimento della pressione fiscale sulle piccole librerie indipendenti, che della bibliodiversità e della lentezza del “ciclo vitale” del libro sottratta ai ritmi frenetici della novità a tutti i costi sono il luogo naturale, le uniche dove oggi un lettore può aspettarsi di trovare un libro di cui non aveva mai sentito parlare, un piccolo tesoro, o di farsi un’idea della linea di un piccolo editore trovando da sfogliare una scelta significativa del suo catalogo.

  11. Loredana, mi sono rivolto a te perché sapevo che mi avresti letto e risposto. Non ti sei espressa male e i miei dubbi riguardavano gli interventi letti fin qua. Anche se è probabile che molte cose mi sfuggano. In realtà pongo delle obiezioni ( spero non fastidiose ) ma non mi sto opponendo ( mitomania ).
    Io non metto in dubbio che l’attuale ciclo vitale ( il passaggio dell’anomalia economica non l’ho potuto capire ) dei libri sia un problema, ho dei dubbi circa la possibilità di un intervento per migliorarlo attraverso delle modifiche dirette come se fosse il risultato di una causa mentre da quel che capisco è dovuto a troppe cose. Le condizioni che portano allo stato attuale sembrano essere il numero “eccessivo” di pubblicazioni e la corsa al guadagno immediato per poi passare ad altri titoli e cosi via ( attraverso anche il marketing pervasivo delle varie mode, “gli esordienti”, “i best-sellers” e i vari “filoni” che funzionano ). E va bene. Dal punto di vista del numero di pubblicazioni, mi pare che sia un discorso chiuso sia perché ognuno è libero di pubblicare quanto gli pare, e non è pensabile di governare la quantità di titoli. Se il grosso delle pubblicazioni non dipende dai piccoli editori non ha senso parlarne, se invece sì lo stesso. Avrebbero già potuto farlo. L’iperproduzione per imitazione: non si tratta di essere d’accordo o meno io e te, ma chi i libri li scrive e chi li pubblica ( oltre a chi li legge ), e la confusione di cui parlavo è di pensare che le politiche intelligenti debbano intervenire sulle tendenze in maniera diretta. Cioè essere contrari all’iperproduzione è una posizione legittima ma non può essere istituzionalizzata e non c’è una possibilità di intervento pratico in questo senso. Come fai a dire agli editori non pubblicate certe cose tanto per sfruttare il filone? Dunque sistemare le cose che vanno sistemate e che possono essere sistemate, e l’iperproduzione non è tra queste. È come se si volesse ripristinare una condizione più vivibile. Nello specifico io non so come funzionano le librerie, ma se ho capito succede che il libraio rispedisca indietro l’invenduto per sostituirlo con i nuovi titoli. Ma allora è il libraio che deve decidere di non prendere i nuovi ordini, non tutti almeno, e insistere sui titoli in cui crede magari. È il libraio che ha più possibilità di intervento? Per spiegarmi meglio è come se si dicesse “bene, il ciclo vitale dei libri è troppo breve, dunque facciamo questo e quest’altro e tornerà a durate migliori”. No, “questo e quest’altro” devono avere giustificazioni concrete, perché diventeranno regole, leggi, e può benissimo accadere che tutto funzioni ma che si continuino a produrre libri tanto per.
    _stefano_ (il suicidio di paperinoramone a volte detto paperinomane altre e per fortuna paperinamore, raccontato come fosse una cosa seria)

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