AMATE LA NON MAMMA

La piccola gioia di una notte in albergo dove puoi, per una volta, lasciare il bagno in disordine. I sogni degli inquilini della casa dove ti trasferisci, svelati da disegni infantili sotto la tappezzeria scrostata. L’odore di pizza bianca e maglie di lana di una riunione di lavoro. E insieme, come sospiri gentili, i fatti e i dolori grandi. Un padre amatissimo che appare attraverso un orologio, o il cimitero dove riposa visto dall’aereo (“Ma che senso ha tutto questo, in terra lui e io in cielo?”). Un bimbo perduto prima di nascere che affiora alle memoria insieme al ricordo delle scimmie di mare mai sbocciate dal loro batuffolo di ovatta, o traspare nello scarabocchio su un pezzo di carta, quelli che fai mentre qualcuno parla.
Cos’è questo libro? E’ un piccolo dono di poesia e bellezza, “La non mamma” di Susanna Tartaro, uscito ieri per Einaudi. La premessa, a uso e consumo dei maliziosi che passassero di qui, è ovvia e forse non sarebbe necessaria, ma la faccio ugualmente. Susanna non è solo la persona con cui lavoro in radio. E’ una mia amica, molto cara e molto amata: una di quelle amiche con cui è bellissimo discutere fino allo sfinimento per poi dirci reciprocamente “vabbè”, e di cui rimpiangere, in questi lunghi mesi, la possibilità di andare a bere qualcosa, magari in uno di quei bar col fungo che riscalda che appaiono nel libro, e in effetti quando si poteva consumavamo zuppe e insalate nella trattoriola vicino via Asiago, che aveva i funghi-stufa per le freddolose come me. Ho molto amato i libri precedenti di Susanna, ma questo l’ho visto nascere, frammento dopo frammento. E grazie al cielo non ci sono termini di paragone per descriverlo.
Questo non è un romanzo, e insieme lo è. Questo non è un libro “del Sé”, come i tantissimi di questi anni, eppure lo è. E’ un susseguirsi di sguardi, frammenti, immagini (e non a caso le fotografie nel libro sono non un’illustrazione ma un complemento necessario) colti con sorprendente acume dalla “motorinista” che Susanna è. Dei suoi viaggi in motorino aveva parlato in “Haiku e Saké”, e già allora si capiva che quel suo afferrare al volo le vite degli altri durante il percorso sulle strade bucherellate di Roma era un dono raro: perché non sono quadretti, quelli raccontati qui, ma esplorazioni che durano in apparenza pochi istanti, ma che quelli istanti fermano, moltiplicano, rendono storie. La donna incontrata in metropolitana e la bambina che lancia i suoi “drin drin” al mondo, gli sconosciuti che comprano guainette e lattice memory alle televendite, le arance ripiene di gelato di un compleanno, fuori e dentro, guardando e guardandosi: “Sono mia figlia e mia madre, sono una non mamma. Mi educo e mi vizio. Mi compro quello che voglio”.
Ma allora, cos’è questo libro? Se devo trovare un termine di paragone, l’unico che mi viene in mente è “La camera da letto” di Attilio Bertolucci: un romanzo in versi, dove si racconta la vita e il passare del tempo e il modo in cui le nostre esistenze sono fatte di profumi, immagini, ricordi, desideri, propri e degli altri. In cui una città, Roma (ma non solo) e le sue strade si ricompongono in quella grazia piccola e benedetta di chi sa guardare e tenerci dentro il suo sguardo. “Così sto, signora o signorina, boh”. Fuori dagli schemi, con libertà, con tenerezza, con poesia. Amatelo, come l’ho amato io.

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