REINCANTARE: LEGGERE LA Q DI QOMPLOTTO

Qualche settimana fa è uscito La Q di Qomplotto di Wu Ming 1. E’ un saggio (narrativo, un U.N.O., dunque) che ritengo indispensabile non solo per muoversi nel mondo delle fantasie di complotto. A fine marzo ho intervistato Wu Ming 1 a Fahrenheit (la puntata è qui, dopo un’ora circa). Mi dichiaro stupita per la scarsa attenzione data dai quotidiani al libro, che è il lavoro più serio e approfondito sul punto. E insieme al mio stupore vi posto qui un frammento della riflessione sul debunking: perché smontare il falso non basta, mai, a vanificarlo. Buona lettura.
“Per debunking si intendeva la confutazione – analitica nel procedere e polemica nei toni – di una notizia falsa, fantasia di complotto, leggenda urbana, credenza pseudoscientifica o truffa basata sul paranormale.
Il termine aveva una storia curiosa, che cominciava durante la guerra d’indipendenza americana. Il 4 ottobre 1777, durante la battaglia di Germantown, gli inglesi avevano ferito e fatto prigioniero il colonnello Edward Buncombe. Rilasciato in libertà vigilata a Philadelphia, città che all’epoca gli inglesi controllavano, nel maggio 1778 Buncombe era caduto dalle scale del proprio alloggio mentre camminava in stato di sonnambulia. La caduta aveva riaperto le ferite e il colonnello era morto dissanguato. Nel 1791 i legislatori del North Carolina avevano deciso di onorarne la memoria dando il suo nome a una nuova contea: Buncombe County.
Il 25 febbraio 1820 al Congresso degli Stati Uniti si discuteva se nel Missouri, che stava per essere ammesso nell’Unione, la schiavitù dovesse essere mantenuta o abolita. Verso la fine della seduta e tra le richieste di andare al voto, Felix Walker, rappresentante della contea di Buncombe, si era alzato per parlare. Si era lanciato in un discorso lungo, arzigogolato e poco attinente al tema, che aveva suscitato le proteste dei colleghi. Ai tentativi di farlo smettere, aveva risposto: «Io sto parlando a Buncombe!».
Da quel momento la parola «buncombe» aveva assunto il significato di discorso privo di sostanza, vacuo, insensato. La prima testimonianza scritta del suo uso in quell’accezione era del 1828. La grafia era «bunkum». Alla fine del secolo era ormai stata abbreviato in «bunk», e come registro espressivo stava a mezza via tra nonsense e bullshit.
Il verbo «to debunk something», togliere il nonsense da qualcosa, l’aveva inventato lo scrittore William E. Woodward nel suo romanzo Bunk, pubblicato nel 1923.
Negli anni Settanta, durante il boom del cosiddetto «paranormale», organizzazioni come lo Csicop (Committee for the Scientific Investigation of Claims of the Paranormal) avevano usato il termine debunking per indicare una prassi in via di codificazione, un approccio battagliero finalizzato a smascherare i ciarlatani.
In poco tempo era divenuto un vero e proprio sottogenere della divulgazione scientifica, coi suoi stilemi e le sue firme di grido.
Al termine del decennio, seguendo l’esempio americano, in Italia era nato il Cicap (all’inizio, Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale). In seguito entrambi i sodalizi – e i loro “cugini” in altri paesi – avevano allargato il campo del debunking alle «pseudoscienze» nel loro complesso.
Nel 2013 il Cicap aveva cambiato nome senza alterare l’acronimo: era bastato sostituire «paranormale» con «pseudoscienze».
Con l’avvento di internet il debunking aveva visto estendersi la propria platea e il novero dei praticanti. L’attenzione era crescente. Si tenevano veri e propri corsi. Quella del debunking era una storia di successo.
Eppure…
Eppure le fantasie di complotto già “debunkate” continuavano a circolare, e intanto ne nascevano di nuove, che si diffondevano sempre più rapidamente. E i ciarlatani smascherati dai debunker continuavano a operare, a volte con più seguito di prima.
A un certo punto ci si era chiesti: a chi e a cosa serve il debunking? Chi ne fruisce? Per chi è pensato?
Alcuni studi avevano concluso che, in buona sostanza, i debunker erano bravi a convincere chi già la pensava come loro.
Non solo: il debunking rischiava di ottenere l’effetto contrario a quello auspicato, rafforzando le credenze che prendeva di mira (Backfire Effect).”
“In un illuminante articolo pubblicato su Giap nel 2015 – La «neutralità» che difende Golia. Scienza, feticismo dei “fatti” e rimozione del conflitto – Mariano Tomatis aveva posto il problema di quali elementi, messaggi e bias il giornalismo scientifico basato su fact checking e debunking fosse portatore senza minimamente riconoscerli, perciò senza farne oggetto ulteriore d’indagine critica. Approccio che invece Tomatis suggeriva.
Il debunker si percepiva come latore di un discorso che stava solo ai fatti, fatti giudicati sufficienti a dire l’oggettiva verità, ma in realtà nel suo discorso agivano narrazioni pregresse, cornici di senso non riconosciute, quadri concettuali assunti acriticamente, condizionamenti ambientali.
Il debunker scartava ogni logica diversa da quella aristotelico‑leibniziana, qualunque forma di ragionamento e pensiero che non si basasse su tale logica e procedesse per metafore, narrazioni, analogie. Strumenti che non erano inferiori alla logica ma soltanto diversi, e non meno della logica potevano aiutare a pensare e giungere a conclusioni valide. In realtà, mentre pensava di usare un linguaggio puramente factual e logico‑referenziale, senza rendersene conto il debunker usava a sua volta metafore, frame, narrazioni.
Nella discussione in calce all’articolo mi ero concentrato sulla singola frase di un debunker scientifico:
Una volta che ti smonto l’idea che il fotovoltaico è una alternativa realistica, poi sta a te scegliere in base ai tuoi criteri se preferisci l’eolico, il nucleare o il fracking.
Chi stava parlando si poneva subito come artefice di uno smontaggio. C’era già una narrazione, con un protagonista attivo e potente. Il racconto cominciava in medias res: qualcosa era lì per terra, sotto i nostri occhi, fatto a pezzi. Quel qualcosa era stato un’idea. Sapevamo chi era stato a smontarla, ma non sapevamo ancora il perché.
Il perché arrivava con l’attributo «realistica». Il motivo per cui quell’idea aveva fatto una brutta fine era: non era realistica.
«Realistico» era un attributo ad alta carica ideologica. Su cosa fosse da considerarsi realistico rispetto all’accettazione di quale premessa si giocava praticamente tutto l’agire collettivo sotto il cielo. «Realistico» rispetto a cosa?
Si poteva parlare di realtà del consumo energetico senza parlare di quanto fosse dopato il nostro «fabbisogno», senza rilevare lo spreco di energia, l’inefficienza delle reti, l’irrazionalità del mercato, i costi sociali e ambientali di questo o quel modo di produrre energia?
Si dava per inteso che solamente lo stato di cose presenti fosse Realtà – «le cose stanno così» –, quando invece il discorso sulla scelta tra fonti rinnovabili o non rinnovabili riguardava il modello di sviluppo e quindi un possibile cambiamento.
La concessione che seguiva – «poi sta a te scegliere in base ai tuoi criteri» – era finta, perché la premessa aveva già chiuso la questione: c’era stato lo «smontaggio» di una modalità di produzione energetica in base a un dato di realtà, ancorché assunto acriticamente”.
“Per andare oltre il debunking non bastava riconoscere i nuclei di verità delle fantasie di complotto, spiegare con pazienza che quelle narrazioni erano diversive, agire conflitti reali per limitare l’attrazione dei Sozialismen der dummen Kerls. No, bisognava anche lavorare su forme di reincanto. Con ogni mezzo necessario, e il più collettivamente possibile”.

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