ARRIVANO I SONNAMBULI

Domani arriva in libreria L’armata dei sonnambuli di Wu Ming. Intanto, come primo assaggio, vi posto la recensione di Enrico Deaglio uscita oggi su Repubblica.
Il romanzo si apre su una sfilata di nasi abominevoli, deformati e consumati dall’alcol e dalla scrofola. Sono le orribili facce della plebe di Parigi in marcia per assistere alla decapitazione del cittadino Capeto, alias Luigi XVI. E’ l’anno 1793, quando «finalmente la mannaia era in mano al popolo e il re stava sotto». Finirà, dopo ottocento pagine, con il tentativo di “stupro psichiatrico” del Delfino da parte dei Monarchici, dopo che i Repubblicani con sua madre Maria Antonietta erano stati ancora più infami.
In mezzo, gli anni del Terrore, di Madama Ghigliottina, di Marat e Robespierre, delle tricoteuse, della Vandea. Da tempo in lavorazione collettiva e considerato dai suoi autori come «il romanzo con cui ci giochiamo l’osso del collo» — da domani arriva L’armata dei sonnambuli di Wu Ming, il quartetto di scrittori bolognesi marxisti anarchici libertari che da anni gioca con la cronaca, la storia e il teatro. Questa volta si cimentano sul tavolo da gioco più alto: la riscrittura della Rivoluzione francese, ovvero l’inizio di tutta la modernità, della politica, della democrazia, della dittatura. Uno scenario in cui si sono cimentati già Victor Hugo, Karl Marx, il Living Theatre con Marat Sade, Broadway con Les Miserables, Ettore Scola con La notte di Varennes e Simon Shama con il mastodontico Cittadini. Un argomento talmente complesso che il più saggio dei comunisti cinese, il nobile Ciu en Lai, quando gli venne chiesto: «Qual è il significato della Rivoluzione francese?», rispose: «Troppo presto per dirlo».
Ma i Wu Ming non hanno voluto aspettare. Bisognava agire in fretta, perché il periodo del Terrore è diventato un mito d’origine della manipolazione delle nostre coscienze. Secondo questo mito, il Terrore di Saint-Just-Marat-Robespierre è il primo esempio di dittatura, anticipa Stalin e Pol Pot e di fatto distrugge l’essenza stessa della rivoluzione, quella francese e qualunque altra da venire. Compito che i Wu Ming si sono assegnati è combattere questo mito maligno e dare alla storia un’altra dimora, dove i personaggi siano diversi, la speranza di giustizia sia riaffermata, lo sghignazzo vinca sul terrore e l’amore sulle barricate sul fanatismo vitreo della coltellata di Carlotta Corday. In attesa della rivoluzione vera, dicono i Wu Ming, nulla di meglio che crearne una di carta, possente, tenera e consolatoria.
Ce l’hanno fatta. L’armata dei sonnambulisi legge volentieri, è un vero romanzo storico, erudito, preciso. Notevole è la trovata su cui il libro è costruito: la grande diffusione, alla fine del Settecento del mesmerismo, una curiosa teoria che sosteneva la possibilità di guarire le malattie attraverso la trasmissione di un fluido magnetico in armonia con l’universo. La popolarità della terapia, sostengono i Wu Ming sulla scorta delle ricerche dello storico americano Robert Darnton, era probabilmente superiore a quella dell’ Encyclopédie o dell’Illuminismo. Il mesmerismo era all’epoca la vera modernità, temuto dalle autorità, ambiguo nei suoi fini. E con il mesmerismo, l’ipnotismo, la comunicazione mediatica, lo spiritismo, tanto è vero che ancora nel 1840 Marx ed Engels, quando scrissero «uno spettro si aggira per l’Europa», intendevano proprio che era ora di smetterla di parlare di fantasmi e di occuparsi di cose serie.
Ed ecco, dunque, che il protagonista della rivoluzione è l’affascinante e tormentato Orphée D’Alambac, medico romantico in grado di trasmettere il fluido magnetico. Tra teste mozzate e fugaci amori con borghesi e contesse (nel romanzo c’è anche un po’ di sesso, nelle fatali vasche da bagno dell’epoca), il nostro verrà inviato a indagare su strani fenomeni di licantropia nella Vandea ribelle in nome del Re. E qui scoprirà non solo uomini lupo, ma anche mesmerizzati, ipnotizzati, asserviti, manipolati dai Cattivi. Quanto sia facile addormentare il popolo ed asservirlo, lo si sperimenterà a Parigi quando scenderà in piazza un vero e proprio esercito reazionario, che non reagisce al dolore e che combatte contro gli ultimi giacobini come gli implacabili zombie del video di Michael Jackson o i milioni di intronati delle odierne televisioni commerciali.
A rappresentare invece l’arguzia, la passione e l’indomabile libertà, ecco il secondo protagonista, l’attore bolognese Leonida Modonesi, un seguace di Carlo Goldoni, che si esprime in un grammelot primordiale multietnico carnale (i Wu Ming non rinunciano a far notare la differenza tra il bouquin parigino e il buchin felsineo) e si trasformerà in uno Scaramouche mascherato come gli attuali invisibili di Occupy Wall Street. E dato che la rivoluzione è un teatro, eccola riprodotta nel manicomio di Bicêtre dove gli alienati giocano a fare i monarchi e gli amici del popolo e dove i dottori sono gli antesignani di Sigmund Freud, Franco Basaglia e Michel Foucault.
Un coro di popolo finale darà la sua versione, in nome dei morti, degli obliati e degli oppressi. E fin quando ci sarà oppressione, nonostante il Terrore, i monarchici e il Partito, ci sarà sempre qualcuno che farà delle scritte sui muri. La rivoluzione è salva, i Wu Ming hanno compiuto la loro missione. E i lettori possono imparare, consolarsi e divertirsi, più che con Il Codice da Vinci.

36 pensieri su “ARRIVANO I SONNAMBULI

  1. Come suol dirsi, ringrazio Deaglio per i complimenti, ma in questa recensione – mi tocca dirlo – faccio una certa fatica a riconoscere il libro. Viene ignorata un’intera sottotrama ed è completamente scomparsa la questione di genere, che è centrale in tutto il libro. L’utilizzo dell’aggettivo “consolatoria” per la rivoluzione che abbiamo raccontato mi sembra una conseguenza di tale rimozione (tutta maschile e non certo imprevedibile). Manca anche l’altro elemento che plasma il romanzo: la dimensione popolare e dal basso del Terrore, così sembra che ci sia una contrapposizione tra sghignazzo e terrore, mentre lo sghignazzo per molti versi è il Terrore-dal-basso, l’impossibile resistenza “terrorista” dopo Termidoro, con l’unica forza della totale disperazione.
    Boh, esco da questa prima recensione un po’ stranito. Attendo i responsi dei lettori.

  2. Certo, Gigi, ça va sans dire. Però appunto: il testo. Tutto quanto, si spera. E sempre lasciando all’autore il diritto di esprimersi sui giudizi che l’opera riceve, confessarsi sorpreso ecc. Una recensione, per quanto prestigiosa la firma che sta in calce, mica è un testo chiuso e insindacabile.

  3. Per carità, anche una recensione è un testo e in quanto tale suscettibile di analisi, critiche e commenti. Però è anche interessante cercare di capire perché una certa parte del testo non abbia colpito il recensore. Oh, comunque a me la recensione ha fatto venir voglia di comprare il libro!

  4. Esatto, è interessante farsi proprio quella domanda. Sulla contraddizione di genere abbiamo costruito non una certa ma buona parte del racconto e della riflessione dei personaggi, ma nella recensione è completamente scomparsa, insieme a tutte le donne protagoniste del romanzo. Ci sono solo i maschi, e quindi solo alcuni degli sguardi su quel che accade, senza gli altri che li guardano da fuori, li contestano, li mettono in crisi. E quindi un personaggio importante diventa un eroe-e-basta, mentre è anche un coglione, ecc. Comunque, se ti ha fatto venir voglia di leggere il libro, vuol dire che il “praise” non è così “faint” come ci è sembrato. Meglio così.

  5. Yamunin, uno che ha già letto il libro poco fa ci ha scritto:
    “Quando ho letto ‘consolatoria’ non potevo credere ai miei occhi”.
    E vabbe’. Ad ogni modo, passiamo oltre. Il libro c’è e chiunque lo leggerà si farà la propria idea.

  6. Dimenticavo: segnalo una svista, dovuta molto probabilmente ai tempi stretti giornalistici. “Marat/Sade” non è un lavoro del Living Theater (non “Theatre”), ma l’adattamento cinematografico di Peter Brook della pièce di Peter Weiss La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade.

  7. Leggendo la recensione – e avendo letto il romanzo – mi sono incartato anch’io sull’aggettivo “consolatorio”. Evidentemente si può trarre consolazione da cose diverse e imprevedibili. Io non ne ho trovata traccia. Deaglio sì? Sarei davvero curioso di sapere quale passaggio o meccanismo narrativo l’abbia consolato.

  8. Ulteriore precisazione, teatrale: in Italia il testo di Peter Weiss è andato in scena in prima nazionale nel 2005 al Teatro Argentina di Roma, regia di Le Moli; musiche di scena da “Le quattro stagioni” di Vivaldi eseguite dal vivo da Europa Galante. (Non c’è bisogno di scomodare il Living.)
    Spettacolo e testo tutt’altro che “consolatori”.
    Pace.

  9. Sia chiaro: va comunque bene che la recensione sia uscita, dà una notizia con un certo rilievo, tratta il libro come un’uscita importante e, azzardando una lettura, dà il “gancio” per altre letture che la mettano in questione. Il dibattito funziona così. Poteva andare ben peggio.

  10. Oggi una recensione è una pubblicità. Non è un atto critico. Il frame unico di qualunque cosa sia scritto su media generalisti è: “ECCO QUESTO LIBRO, ALBUM O CHE ALTRO”. Io ringrazierei tanto Deaglio, è stato davvero gentilissimo a forzare il proprio metabolismo pancreatico, i cui calcoli si vedono controluce, come in una buona vecchia ecografia. Per quanto concerne me, che amo incondizionatamente il Victor Hugo di “Novantatré”, non vedo l’ora. Dare la parola alle masse, alle potenze, alle energie è il punto di uno scenario mitografico come la Rivoluzione, che non è puramente occidentale. Non esiste un iper-romanzo uno dei Wu Ming che sia consolatorio. Leggetelo e basta. Per citare un mio altro padre fondatore, il poeta Antonio Porta: “Andate mie parole, calcate le tracce dei linguaggi infiniti”.

  11. Certo che va bene, ci mancherebbe. Nonostante il tono abbastanza fastidioso è un pezzo a misura di lettore di Repubblica. Ed è vero che lo spunto offerto dall’omissione di Deaglio è assolutamente interessante. Elenca tra i protagonisti l’intellettuale maschio illuminista-giacobino; l’attore maschio “folk-hero”; e la plebe parigina – che però anch’essa viene declinata al maschile, “coro di popolo” – e dimentica per strada la protagonista femminile che tiene in se stessa lo sguardo di classe e di genere, illuminando molte contraddizioni e rompendo proprio lo schema consolatorio. Come dire: la consolazione è nell’occhio di chi legge. Ma, ripeto, va bene così: è una cartina al tornasole di come probabilmente gli intellettuali con una certa storia alle spalle leggeranno questo romanzo.
    Adesso avanti con le prossime recensioni. Sperando che ci dicano qualcos’altro.

  12. Insomma, per capirci: L’Armata dei Sonnambuli ha come protagonista una tricoteuse del feaubourg Saint-Antoine di nome Marie Nozière e tra i personaggi più importanti Claire Lacombe, celebre “enragée” e principale animatrice del club delle Cittadine Repubblicane Rivoluzionarie. Costoro, tra le altre cose, furono tra le più decise e radicali nel chiedere che si tenesse il Terrore “à l’ordre du jour”.

  13. Ma Albert Mathiez è tenuto in adeguato conto? 🙂
    WM4: se ci saranno, le recensioni, per quanto misuro attualmente, servono nella misura in cui offrono uno o più nuclei da sviluppare socialmente, attraverso quell’attività cognitiva ed emotiva che voi fate in 3 e in 2D (io provo, ma solo in 2D, e l’impatto è ovviamente diverso). Da questo pezzo “inaugurale”, non credo che ci sia nulla da rilanciare, se non le precisazioni – utilissime – fatte qui sopra da WM1. Comprendo invece molto bene una citazione extratestuale che c’è su Repubblica e cioè che vi giocate “l’osso del collo”: è così, per quello che è venuto prima e che verrà dopo, e per la massa STERMINATA di nozioni, prospettive, filosofie, vicende storiche, tradizioni saggistiche e letterarie, che avrete dovuto affrontare già soltanto per ambientare AdS in quel periodo. L’incipit, per come è descritto, rimanda moltissimo al carnacialesco di “Notre Dame de Paris” di VH, che perfino Bachtin elesse a exemplum di una strategia narrativa, in cui mi pare siete andati a inscrivervi per rinnovarla. Tutto sommato, WM4, misuriamo il depositarsi di un testo importante: questo è il dato fondamentale. :*

  14. Non ho ancora letto il libro ma sta in cima al comodino, in buona compagnia.
    Ho solo sentito un tuffo al cuore dopo aver letto il nome di Marie Nozière, che mi ha fatto venire in mente un nome molto simile, Violette Nozières. A lei due dei poeti che più amo hanno dedicato delle poesie molto forti (Breton e Péret). E la sua storia è stata portata sullo schermo da Chabrol. C’è un collegamento? Una eco con quella vicenda dell’era surrealista? (una risposta violenta al patriarcato, peraltro).

  15. La cosa principale che dice questa recensione è che vi siete posti un compito, ovvero combattere un mito sulla rivoluzione francese ( immagino parli della visione di Adorno-Horkheimer; a me a scuola così è stata spiegata ). Vi siete posti questo compito?
    Genna, sei molto severo, è una segnalazione, come ne stai facendo tu di belle ultimamente su Arrigoni, Orecchio e Bocchiola. Pone un punto di partenza e anche una critica ( forse anche velenosa ). Una segnalazione invitante, e penso a misura di lettore, non solo di Repubblica, che dovrebbe e potrebbe essere di più?

  16. Una sinossi maliarda. Ovviamente per valutare una cosi` vasta narrazione bisogna saggiare la qualita` delle digressioni, la profondita` dei personaggi,il tessuto di collegamento e il ritmo dei fraseggi(il cavo e` teso,terso il cielo, e pesto il buio. Buona passeggiata

  17. Uhm… No, piccolo lettore x, sinceramente non mi sembra quella la cosa principale che emerge, nel complesso, dalla recensione. Quel passaggio va letto nel contesto. Non credo nemmeno che si riferisse ad Adorno-Horkheimer, ma a François Furet. Ad ogni modo, il senso è: “Questi scrivono ponendosi un compito solo politico, ma alla fine la loro è evasione, fanno rivoluzioni di carta consolatorie; il risultato è comunque divertente”.
    Mi sembra che il senso complessivo della recensione lo producano per accumulazione
    – l’utilizzo di espressioni come “dovevano agire in fretta” (!!!), “consolatoria”, “consolarsi”;
    – il ricorso comparativo al “Codice Da Vinci” (che è come dire: non ci vuole poi molto a scrivere di meglio);
    – altro faint praise tipo “si legge volentieri” o, più sottile, “hanno scritto un vero romanzo storico” (bontà sua! :-)));
    – i riferimenti a scene da film con Lando Buzzanca che nel romanzo non ci sono (il “sesso nelle vasche da bagno”);
    – lo strano riferimento a un finale che nel libro non c’è (lo… “stupro psichiatrico” del Delfino da parte dei “monarchici”) che serve a ribattere: i repubblicani erano stati ancora più infami, come se nel romanzo ci fossero i rivoluzionari Buoni-Buoni (e infatti a un certo punto lo scrive, con un tono di rimprovero obliquo segnalato principalmente dalla maiuscola: gli altri sono “i Cattivi”);
    – soprattutto, come si diceva, la totale escissione di tutta la parte femminile del romanzo, che di conseguenza diventa una narrazione semplicistica.
    Il senso è: ci sono delle belle trovate, è divertente… per essere un sottoprodotto.
    E poteva andare peggio 🙂
    Detto questo: io posso solo dirti cosa non siamo e cosa non vogliamo. Alla domanda su quali compiti [al plurale: poetici, estetici, musicali, etici] ci siamo o non ci siamo posti, deve poter rispondere il romanzo, autonomamente.

  18. @ WM1
    Sì, ma quello io l’ho messo tra parentesi, anche perché penso che freghi poco a chiunque, polemizzare su quanto si è rivoluzionari. Poi il romanzo darà le sue risposte, ma io ad esempio non sapevo di Furet. Se né l’una né l’altra visione hanno influenzato la creazione ( nel senso di ripercorrere o di contrastare ) è una risposta. Chiamavatelo l’armata delle sonnambule, così era più facile.

  19. Non si può rispondere alla questione posta in questo modo, per il semplice motivo che scrivere letteratura è sempre qualcosa (anzi, molto) di più che “contrastare una tesi”, anche una tesi che ci fa schifo. I romanzi a tesi li lasciamo ad altri. Quanto al titolo, andava al maschile, e chi leggerà capirà perché.

  20. Ogni opera d’arte, per sua natura, rischia di essere consolatoria. Ogni rivoluzione di carta rischia di essere un surrogato (e per molti è preferibile che lo sia). Non importa se gli autori siano attivi nei movimenti o no. Credo, tuttavia, che gli autori abbiano fatto benissimo a correre il rischio e a sfidare i pregiudizi. Sono molto curioso. Lo leggerò.

  21. Leggerò il libro. Non voglio che Loredana Lipperini se ne faccia una ragione (scherzo, via). La storia è una delle mie grandi passioni insieme alla letteratura umoristico-satirica, al romanzo poliziesco e agli scacchi (che non vengono per ultimi). Non per niente mi sono laureato in questa disciplina con il grande (per me) Giorgio Spini in quel di Firenze negli anni in cui furoreggiavano Capanna e compagnia bella, fra il “tutto e subito” e le cariche della polizia. La storia in grande fermento, soprattutto sulla Rivoluzione francese. E proprio sul periodo del Terrore mi beccai in seguito “La Francia rivoluzionaria- La Repubblica giacobina 1792/94” di Marc Bouloiseau, Laterza 1975, e prima ancora i due volumi de “La Rivoluzione francese” di Albert Mathiez e Georges Lefebure”, Piccola Biblioteca Einaudi 1960, Erano quelli gli anni pure degli “Scritti sulla storia” di Fernand Braudel e insomma di un profondo dibattito storiografico che mi affascinava. Anche sulla Rivoluzione russa. Leggerò il libro per il gusto della lettura e per un mio ritorno all’infanzia…

  22. I “sonnambuli” hanno solleticato anche la mia passione per il romanzo poliziesco (comprensivo di thriller, noir e compagnia bella) per cui mi sono venuti in mente due libri che ho letto tempo fa: “Terrore” di Danila Comastri Montanari e “L’ombra della ghigliottina” di Anne Perry ambientati nel 1790 e nel 1793. Per chi fosse interessato.

  23. Consolare significa anche confortare e il conforto ci da anche coraggio e ci sostiene nell’azione. Non vediamo solo il sognificato banale del termine consolazione. Saluti a voi

  24. Ho appena terminato di leggere il libro. Per le ragioni esposte sono completamente d’accordo sul fatto che questa recensione sia piuttosto parziale, superficiale ed edulcorata in quanto non restituisce la complessità della trama e delle tematiche affrontate. Quello che i Wu Ming offrono é un affresco ricco e variegato, personaggi complessi e stratificati, una molteplicità di sguardi che squadrano e percorrono la rivoluzione da angolature diverse. Nessuno sguardo panoptico che costruisca tesi preconfezionate, ma una ridda di maschere, di persone dunque, sia maschili che femminili (la questione di genere é assolutamente ineludibile) del gran teatro rivoluzionario. Teatro che non consola ma che mostra tale complessità, ricordando che il termine teatro deriva da theorein, vedere; abbiamo così una visione della rivoluzione che apre ampi e significativi squarci sulla vita vissuta del tempo, offrendoci anche il corpo della rivoluzione, perché come già indicano le parole di Foucault poste in esergo, il corpo in tutta la sua densità materiale é uno dei grande protagonisti della storia narrata dai Wu Ming. La madre di tutte le rivoluzioni é ancora lì a sollevare questioni e a porre interrogativi al nostro presente; merito ai Wu Ming di essere riusciti a restituirci alcune delle sue voci più significative. Non lo si legge volentieri, perché volentieri si mangia una pizza, casomai; più semplicemente merita ampiamente di essere letto e discusso. Sul parallelo con Dan Brown meglio sorvolare.

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