LO STIGMA

Stamattina avrei potuto scrivere del bell’intervento di Stefano Rodotà su Repubblica, o della rivelazione (ma dai?) “Amazon sa quali parti degli ebook sottolineiamo”.
Invece, scriverò del mio scaldabagno. Che stamattina sferragliava cupo, come uno di quei treni regionali in procinto di essere tagliati, e che non sai mai se riuscirà a ripartire dopo la fermata. Se si rompe lo scaldabagno, ho pensato, sono rovinata: non ho i soldi per comprarne uno nuovo.
Si chiama stigma. In greco significa, più o meno,  marchio. Indica la disapprovazione sociale per un comportamento ritenuto non conforme. La povertà è uno stigma. Specie se appartieni a quella creatura mitologica che si chiama “ceto medio” e che teoricamente non dovrebbe essere povero.
Facciamo un passo avanti. Cosa significa, oggi, essere poveri? Ci sono infinite gradazioni di povertà, fino ad arrivare alla più drammatica: non poter assicurare cibo e ricovero, come si sarebbe detto un tempo, a se stessi e alla propria famiglia. Ma c’è anche una gradazione non meno inquietante: quella di poter fronteggiare solo il previsto. L’affitto, il condominio, il riscaldamento, le bollette, le tessere mensili per bus e metropolitana, le minime necessità dei figli. Se si rompe lo scaldabagno, se devi fare un’analisi medica con un ticket significativo, se devi sostituire la montatura degli occhiali che si è rotta, sei nei guai.
Perché sei nei guai, visto che hai sempre vissuto e fatto vivere del tuo lavoro, e un lavoro ce l’hai? Perché, molto banalmente, guadagni sempre la stessa cifra e quella cifra non ti basta più per fare la spesa, pagare l’affitto, eccetera. Ma i libri? I libri non rendono, se non in casi eccezionalissimi, ed è bene che coloro che pensano di diventare ricchi-e-famosi solo con l’atto del pubblicare se lo ficchino nella testa una volta per tutte. Gli anticipi – bassi – arrivano dopo mesi, quando ormai sei talmente disperato che devi coprirci gli arretrati. Ma il meraviglioso mondo dell’immateriale e del lavoro intellettuale? Ti chiede di lavorare gratis, e nella maggior parte dei casi quando fai presente che non puoi più farlo ti guardano male, come se avessi commesso una scorrettezza. Come se fossi un capello in una immacolata ciotola di ricotta.
Sei pazza a scrivere queste cose? Lo status di intellettuale impone di tacere. E’ vero. Mia nonna sarebbe scontenta di me, non solo i “si fa così” del mio mondo. Mia nonna aveva poche e ferree regole: non si chiede mai un prestito (neanche i soldi per la merenda, piuttosto si digiuna), non ci si ferma a guardare le vetrine dell’alimentari perché altrimenti pensano che tu abbia fame, non si canta “Ninì Tirabusciò” perché è da bambine permale, non ci si vanta, non ci si lamenta.
Mia nonna aveva attraversato due guerre e mangiato bucce di piselli bollite, e finché ha vissuto ha nascosto croste di pane nelle maniche, non si sa mai.
In questi giorni mi torna continuamente alla memoria, mentre borbotta “non si fa così”. Eppure, credo che l’unico modo per far capire il punto in cui non sono, ma siamo, sia esibire lo stigma: e non per risposta sfinita a tutti quelli e quelle che trillano di intellettuali col culo caldo. Perché solo conoscendo la realtà, solo nominandola, forse ci renderemo conto che siamo nella notte, e che da quella notte occorre uscire.
Essere “intellettuali”, qualsiasi cosa voglia dire, significa mettersi in gioco.  Lo stigma è nell’occhio di chi guarda, dicono i sociologi: eccomi qui.

28 pensieri su “LO STIGMA

  1. Post bello e coraggioso. Le regole di tua nonna sono le stesse della mia famiglia e di tutti quelli che la povertà l’hanno conosciuta davvero. Mi torna in mente un pezzo di Gianni Brera, di tanti anni fa, che raccontava di come non fosse mai riuscito a smettere di essere povero, nemmeno dopo essere diventato un giornalista e uno scrittore di successo (all’epoca si guadagnava bene, con questi mestieri). Certi riflessi condizionati gli erano rimasti, una parsimonia eccessiva per il suo status lo condizionava. E si firmava, alla fine, “un povero tra i tanti poveri di questo mondo”. Sembrava un insulto alla miseria, ma non lo era. Per me è sempre stato il monito che poveri si può tornare a esserlo. Basta poco, per finire letteralmente in mezzo alla strada. E ne vedo tanta di gente così, per Roma: non sono né freak né avventurieri, sono un pezzo della mitica “classe media”, quelli meno fortunati che magari per la perdita di un lavoro e la fine di un matrimonio si sono trovati a non avere più di che mettere insieme il pranzo con la cena. Quelli e quelle, è bene chiarire, sennò qualcuno potrebbe attaccare la solfa dei poveri uomini spellati vivi dalle mogli in fase di separazione. Ci vuole poco, perché tutti siamo in una condizione di precarietà: va tutto bene finché non capita un imprevisto, e speriamo non capiti mai. Ma questa è sempre più una società dell’esclusione, che espelle progressivamente chi ha difficoltà anche minime. Dovremmo fermare questo meccanismo, o finiremo per pagarla tutti molto cara.

  2. Fantastico. Dici: ‘Ma c’è anche una gradazione non meno inquietante: quella di poter fronteggiare solo il previsto’ – e non puoi fare altro, non puoi fare di più, non ti puoi inventare altre entrate.

  3. Non sono un’intellettuale, ma anch’io mi sento abbastanza precaria, con una lavoro legato ad una convenzione che non so se rinnoveranno. Occupandomi di disabilità, ed essendo quest’ultima molto spesso causa di povertà, ho imparato a guardare il sia la povertà, che la disabilità come condizioni possibili anche per me. Cerco di studiare la dignità con la quale molti e molte affrontano queste condizioni, spero eventualmente di riuscire a diventare all’altezza. Seguo il tuo blog da tanto e ho imparato molto. Ma oggi ti sento ancora più vicina.

  4. Abbiamo passato gli ultimi 30/40 anni a nasconderla la realtà della nostra povertà, esibendo una ricchezza materiale che avrebbe dovuto garantirci felicità, bellezza e successo.
    Ci siamo giocati per questo la ricchezza intellettuale che avrebbe potuto evitare questa notte, abbiamo abbandonato l’etica e l’impegno civile come inutili zavorre e ora vorremmo ritrovarci candidi ma col culo al caldo.
    “Non ci si vanta, non ci si lamenta” però si racconta, si mostra, si domanda perché non ci si accontenta della notte.

  5. A Lipperini e a Simona L.
    Apprezzo molto, Lipperini.
    Non credo che si possa parlare di libertà senza ragionare di condizioni economiche (lo sa e l’ha detto bene anche Bruce Springsteen, che non ha l’aspetto e l’habitus dell’intellettuale). Non credo si possa fare politica per trasformare il mondo senza ragionare sulle proprie condizioni materiali.
    Cara Simona L., non vedo perché tu non sia un’intellettuale: un’intellettuale-massa precaria. Non è né un complimento né un’offesa. Credo che Gramsci direbbe che lo sei!
    Buona giornata.

  6. Cosa significa, oggi, essere poveri? Secondo me non ci sono infinite gradazioni. Significa non poter assicurare cibo, ricovero e altre necessità primarie a se stessi e alla propria famiglia. Lo stesso significato che ha sempre avuto.

  7. (quindi magari i signori in grigio che ti orbitano intorno non sono ne i legionari di cristo paludati maldestramente o mariti maneschi arcistufi di ritrovarsi i bastoni tra i raggi. E nemmeno i personaggi scappati da una magistrale composizione di King?)

  8. Rileggo le tue parole e sento l’eco delle mie preoccupazioni.
    Ceto medio -molto- impoverito. Con la paura di non pkter car studiare bene i miei bambini, con la speranza di cavare almeno uno striminzito ragno dal buco del mio “lavoro” di autrice e blogger.
    Ma ne vale la pena? O non dovrei smettere di insidtere e cercare qualcosa che mi aiuti a portare qualche soldo a casa? Il gioco è diventato una farsa.

  9. Potessi ti aiuterei….potessi ti abbraccerei, anzi, di più, ti voterei. Lipperini for President o almeno Ministro. Ti farei dare uno stipendio (da) onorevole. Vorrei che Tu Loredanalipperini che hai scritto Mozartinrock che ho comprato d’estate alla stazione di sestrilevante mentre aspettavo una ragazza fossi felice. Perché all’improvviso volevo che quella ragazza che camminava con me fossi tu. Non potendoti conoscere di persona vorrei almeno che tu fossi il mio Onorevole e mi rappresentassi politicamente così come già stimoli la mia curiosità, stuzzichi la mia indolenza intellettuale (o intellettiva?) e mi costringi a togliermi il paraocchi da maschietto.Mi hai costretto ad alzare il paletto della donna con cui mi fidanzerei perché dovrebbe essere come te. E oggi me lo hai fatto mettere ancora più in alto. Ma non c’è un’altra come te. Ti frequento (quasi) ogni giorno: quanto nervoso e quanta sorpresa nell’ascoltarti alla radio. Impagabile Loredana, non arrenderti…

  10. Le regole della nonna sono anche le mie ma non sono considerate un valore oggi perchè , seppur poveri, le si pensa come un inutile e dannoso eccesso di dignità o scambiate per superbia.
    Povertà non è una parola al singolare perchè ce ne sono di diversi tipi. Quella che impone regole di sopravvivenza come stile di vita, si chiama coraggio.

  11. A me sembra invece che talvolta lo stigma sia la ricerca etica della ricchezza da parte degli intellettuali. “Devi rimanere povero, altrimenti sei un venduto”: non è forse questa una credenza che ci portiamo dietro?

  12. “I libri non rendono, se non in casi eccezionalissimi, ed è bene che coloro che pensano di diventare ricchi-e-famosi solo con l’atto del pubblicare se lo ficchino nella testa una volta per tutte. Gli anticipi – bassi – arrivano dopo mesi, quando ormai sei talmente disperato che devi coprirci gli arretrati”
    Come se non lo sapessimo, noi disposti praticamente a tutto pur di pubblicare. A me basterebbero giusto quei 100 euro in più al mese dato che il lavoro ce l’ho e malgrado questo sono anch’io nella situazione di poter fronteggiare solo il previsto.

  13. Sascha-Stefano Trucco, ma persino sotto un post che riguarda la povertà si parla della pubblicazione? (e comunque scordati anche i cento euro in più al mese, se è per questo, a meno che per i concorrenti di Masterpiece sia previsto un trattamento di riguardo. Ma non credo).

  14. E’ che a giudicare dal tuo articolo siamo in una situazione economica piuttosto simile. Sul ‘famoso’ non saprei, quanto al ‘ricco’ ne so abbastanza per sapere che, tranne casi improbabili come una vincita al Superenalotto, non si vive scrivendo, in Italia ma, sempre di più, anche nei famosi ‘paesi civili’ di cui parlano sempre i grillini.
    http://www.theguardian.com/books/2014/mar/02/bestseller-novel-to-bust-author-life
    Si scrive per la gloria, punto, e ne sono perfettamente consapevole.
    Speravo giusto in un qualche piccolo arrotondamento di stipendio…
    (e poi, insomma, qualcuno ogni tanto lo vince, il Superenalotto – per questo però bisogna comprare il biglietto…)

  15. Mara o come si chiama davvero, certo: ho scritto nel post di avere un lavoro, ma che per quel lavoro prendo una retribuzione uguale da anni e dunque non più sufficiente. Se desidera il mio 740 posso farglielo avere.
    Stefano Trucco: della serie, siam senza vergogna, ma pazienza.
    Daniele: veramente, pur non avendo mai aspirato alla ricchezza, il problema non è “mio”. Il problema è di tutte le persone (il famoso ceto medio) che fin qui riuscivano, come diceva mia nonna, “a campare una famiglia” e ora non ce la fanno più.
    Ps. Tony, un bacio, grazie.

  16. Fino a qualche tempo fa gli “intellettuali” solidarizzavano con le classi lavoratrici e i ceti popolari da una posizione di classe differente dalla loro, visto che in larga parte provenivano da quegli ambienti sociali in cui si poteva offrire un’istruzione avanzata ai propri figli.
    Oggi le cose sono diverse. E anche senza arrivare a chi di professione scrive, o si occupa di cultura, ci sono schiere di individui con un livello d’istruzione medio-alto o alto, che vengono magari da famiglie della classe lavoratrice o del ceto medio inferiore, che vivono precisamente questo tipo di povertà relativa (l’incapacità di poter affrontare l’imprevisto, appunto).
    Io mi colloco senza problemi in questa fascia di popolazione, senza oltre tutto poter contare neppure su un reddito costante e sufficiente, e senza poter proiettare la garanzia di questo reddito oltre qualche mese.
    Per cui, d’accordo con l'”esibire lo stigma”. Ma non basta. Per riconquistare delle prospettive bisogna riprendere ad organizzarsi e a lottare. Nel modo classico, alla “vecchia maniera”, insomma, consapevoli che il nemico ha strumenti molto potenti e non ce la farà passare tanto liscia.

  17. Quando si è poveri è molto facile cedere alla diffidenza verso tutto ciò che è estraneo a se stessi. Capita che dalla povertà si crei miseria e che la miseria tolga quelle prospettive necessarie a risollevarsi. E la cognizione della dignità umana si perde.
    Sino ad ora è questo il punto che ho visto tra le persone come me e, davvero, la cognizione della dignità di ognuno di noi risulta uno sforzo quasi impossibile a sostenersi nel tempo. E sembra addirittura una favola la questione della dignità umana per cui, a raccontarla, a pretenderla, si crea uno stigma interno alla povertà stessa. Questo stigma è, credo, un effetto della miseria nata dalla povertà.

  18. se da una parte mi complimento per l’articolo, per la dignità e per la fotografia di una situazione comune a molti, dall’altra credo che se il lavoro intellettuale non paga allora si può cambiare e provare a fare altro. so che è terribile, contro ogni ideale di lotta e giustizia e che non è quello il punto (il punto è che il lavoro non basta), ma si tratta di prendere atto della situazione. L’editoria è una flotta che affonda…meglio un lavoro meno figo ma che faccia mangiare i miei figli e che permetta loro una doccia calda al mattino. Chi “fa” cultura di solito ha il culo al caldo, lo fa per hobby e pretende lo stesso da te (true story).

  19. Sì anche a 58 anni se la scelta è tra riparare uno scaldabagno e non farlo. Almeno ci si prova, se la quotidianità fatta di imprevisti è insostenibile. se è davvero questa la sua situazione…beh, ci ha mai tentato?

  20. Luci, trovo piuttosto squallido insinuare fra le righe che io non muova “il culo caldo” per conservare lo status di intellettuale. Se desidera saperlo, ho fatto e faccio tutto quello che posso per garantire la doccia calda ai figli. Stia bene e, sì, è “davvero” questa la mia situazione.

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