Tag: Wu Ming

Sono accadute parecchie cose in questo week end e credo che molti di voi le sappiano già. Parlo della censura televisiva ad Antonio Scurati, nonché di quelle, emerse subito dopo, a Nadia Terranova e Jennifer Guerra. Non è la prima volta che avviene, d’accordo, ma è inquietante la modalità, è inquietante il contesto.
Ma non è di questo che voglio parlare oggi.
Voglio parlare di un’altra cosa, che è molto importante quanto rimossa. In questi giorni, dopo il video collettivo in cui, in cinquantatre fra scrittori e scrittrici, abbiamo letto il monologo di Scurati, non sono stati pochi coloro che hanno detto: bravi, ma dove eravate ai tempi del greenpass? La controreazione, per lo più, è stata di scherno, e la terribile parola no-vax è tornata a circolare.
Ebbene. Su questo blog ho più volte espresso dubbi giganteschi su come è stata raccontata la necessità del greenpass. E ho più volte linkato quanto hanno scritto e ripetuto i Wu Ming, cui l’onestà e il nitore con cui hanno provato a intervenire sono costati parecchio.
Linko di nuovo perché, quattro anni dopo la pandemia, ritengo folle non aver riaperto il discorso, come se non fosse accaduto nulla. E non è per rispondere a chi chiede “dove eravate?”. Molte e molti di noi ci sono sempre stati, hanno sempre provato a problematizzare e a capire. Magari non ci avete letto, e ci sta. Ma non bisogna neanche usare la domanda per minimizzare la situazione di oggi o per screditare chi contro questa situazione si batte. Sarebbe non solo ingiusto, ma pericoloso.

Ma quanto si parla di Tolkien, eh? Dopo anni in cui la discussione sul professore è stata relegata ai margini, tutti scrivono de Il signore degli anelli e de Lo Hobbit, si fanno convegni (lunedì, a Milano) e mostre (mercoledì, a Roma) e anche dall’estero ci si interessa allo strano caso dell’autore preferito delle destre.
Ci tornerò in modo ampio, nei prossimi giorni, qui o altrove. Per ora, mi limito a segnalare due interventi: quello di Wu Ming  ieri e quello di Edoardo Rialti (che ne aveva già scritto benissimo) sul Foglio di oggi, dove si ricorda anche l’uscita, più che simbolica, di Maria Elena Boschi contro i maghi e a favore di Draghi, con tanto di innocente bambino munito di cartello. Simbolica non perché Tolkien vada ascritto alla sinistra (ma per favore), ma perché dell’immaginario, del mito, del fantastico, molta sinistra non ha capito nulla, e spesso ancora non capisce.

Ho cominciato la settimana leggendo, divertendomi ma anche arrabbiandomi, l’articolo di Fabrizio Patriarca su Snaporaz: parla di imbecillità e soprattutto parla di influencer, e di quel che può avvenire quando un improvvido organizzatore decide che l’influencer faccia il moderatore nella presentazione di due libri. Al di là dell’episodio (che pure dà da pensare, visto che capita con frequenza maggiore che gli e le influencer presentino o moderino eventi culturali), quel che forse dovremmo ancora capire, e non è facile, è cosa si intenda e come si muovono le persone che hanno un considerevole seguito sui social.
Perché non sono tutte uguali, ovviamente. Ci sono state e ci sono persone che hanno quel seguito perché hanno fatto e scritto e detto cose importanti, e intendono usare i social per raggiungere il pubblico più ampio possibile. Non faccio i nomi ma credo che sia abbastanza intuitivo capire il concetto. Ci sono però stati e ci sono influencer che con i social lavorano, e dunque i loro video e le loro parole hanno un prezzo che viene pagato dal committente, e tanto. Anche qui, niente di male: sapevamo da anni che saremmo finiti dritti dal no-logo al me-logo, e che saremmo diventati i brand di noi stessi, da mettere al servizio di altri dietro compenso. Che si tratti di vendere libri o limette per le unghie o scarpe o quel che volete non cambia.
Però, cosa succede quando non si vende nulla e si milita nei social come attivisti? Quali rischi corriamo?

“Quelli della Bilancia” è una citazione da “Libra” di Don DeLillo. E’ lo spunto per ragionare un po’ sul romanzo storico, che sembra predominare nelle narrazioni contemporanee. Ma quale romanzo? E’ il “defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo efficace fatti ai quali ci siamo tanto abituati da non accorgercene più”, come fa Kazuo Ishiguro ne “Il gigante sepolto”? E’ recuperare il mito e la funzione sociale come fanno i Wu Ming? Spesso ho la sensazione che il romanzo storico venga utilizzato per proiettare all’indietro non qualcosa di cui non ci accorgiamo più, come dice Ishiguro, ma qualcosa che avviene ora. Il nostro io, i nostri problemi, le nostre emozioni. Che è cosa diversa (sempre Wu Ming) del “dar conto di sé” di Judith Butler, ed è cosa diversissima della ricostruzione letteraria della storia di, per dire, Don DeLillo, o della proiezione nella distopia che appartiene a Margaret Atwood. E’ come se il tipo di narrazione che Le Guin definiva “da appartamento borghese di Manhattan” si fosse trasferita fra cascine o baite di un secolo fa.

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