Nel 1935 Archibald Cronin pubblica “E le stelle stanno a guardare”, ambientato in un’immaginaria, ma decisamente realistica, cittadina di minatori. Nella storia ci sono i doverosi sognatori, che saranno sconfitti, un cattivo, Richard Barras, proprietario della miniera, e un supercattivo, Joe Gowlan, che è destinato a vincere tutto in quanto “nuovo che avanza”, ed è peggio del vecchio. Qualche anno fa, quando si predicava da sinistra “serve rinnovamento, servono energie fresche” e si licenziavano i cinquantenni, dicevano loro, per assumere ventenni, dicevano loro, pensavo a Joe Gowlan, e a come tutti, nei romanzi e nella vita, sapessero benissimo che il discorso reale era “servono schiavi da sottopagare, con minori tutele e magari minori esigenze”.
In questi strani giorni, che davvero si trascinano con piedi sanguinosi, e che stanno mettendo tutti noi a durissima prova, mi sembra che tutte le riflessioni di pochi, pochissimi anni fa, stiano saltando in aria. Il nostro tempo coincide con il tempo del lavoro: chi può lavorare da casa, nei fatti, non fa altro che inchiodarsi senza soluzione di continuità davanti allo schermo del computer. Mi rendo conto che non si può fare diversamente, al momento: ma mi preoccupa moltissimo il fatto che, continuando di questo passo, rischiamo di dimenticare che le disuguaglianze che pure passavano spesso sottotraccia peggioreranno.
Quel che mi preoccupa, anche, e molto, è l’assenza di aspettative. In queste settimane parlo, sia pur virtualmente, con molte persone. Avverto una stanchezza comune, come un cedimento di difese, in moltissimi miei interlocutori. E’ normale, si risponde, è fatigue, è la reazione al trauma. Eppure, mai ho avvertito con maggiore chiarezza il vecchio diktat da cui ci sentivamo, almeno alcuni, immuni. Questo:
“Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrice, macchina, lettore cd e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete mutuo a interessi fissi, scegliete una prima casa, scegliete gli amici. Scegliete una moda casual e le valigie in tinta, scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo, scegliete il fai-da-te e il chiedetevi chi siete la domenica mattina. Scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz, mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio, ridotti a motivo di imbarazzo di stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete il futuro, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa cosí? Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni”.
E cosa mai c’entra il monologo iniziale di Trainspotting con il nostro stato attuale? Molto, moltissimo, secondo me.
..scegliere la vita, scegliere la non vita, scegliere qualcos’altro. viene davvero da chiederselo se valeva la pena, o invece era meglio liberi e morire prima. sei mesi un anno un battito di ciglia. a ma non da soli come adesso al pronto soccorso
Il punto, caro k., è che tutte queste considerazioni possiamo farle appunto perché siamo vivi, dato che questa pandemia non sta lasciando la scia di morti che lasciavano le precedenti. Però una differenza rispetto a prima c’è: quando il flagello era devastante, altrettanto pronta era la risposta a reagire non appena passato. Oggi invece ho paura che la pandemia ci lascerà come il terremoto ha lasciato noi che abitiamo l’Italia centrale: abulici e incapaci di reagire, pronti a ritirarci in una bidimensione senza prospettive. Eccezion fatta per pochi (soliti) fortunati, of course.
Bravo Luca almeno te che hai un cuore buono mi pigli un po’ in considerazione, non come quelli che travolti dal clima d’odio salviniano censurano attutto spiano.. Comunque sulla pandemia, non so se ci rialzeremo prima o dopo rispetto alle precedenti.. tieni presente però che “le precedenti” colpivano delle società già a terra, con infrastrutture sociali e welfare comunque già assenti e quindi poco da perdere… Io appunto vorrei chiedere anche a te, se il modo in cui è stata affrontata questa pandemia è quello giusto. Io mi pongo la domanda. Perché ‘d’accordo che avremo salvato la vita a qualche decina di migliaia di vecchi. Ma a quanti di loro è stata rovinata? Quante famiglie nella povertà?? Quanti ragazzi lasciati soli in casa in balia di dipendenze depressioni autolesionismo? Abbandono. Che conseguenze avrà tutto cio’ a lungo termine? Nel mio piccolo sono stato testimone di tre suicidi. Una ragazza si è buttata dal 4 piano la morte. La morte. I morti. Questi 60.000 (morti, gran parte di loro, sono spirati soli, e mentre i familiari erano in isolamento , loro in una corsia o un corridoio di ospedale senza poter vedere nessuno , nella confusione, nel dolore, senza una parola, come cani in un canile. Io davvero mi chiedo se valeva la pena, o invece era meglio fare un po’ di funerali in più, ma con un saluto dignitoso( alla faccia della digitalizzazione) potendosi abbracciare
ciao,k.
Caro k., personalmente credo che meglio di così non si poteva e non si possa obiettivamente fare, anche perché non abbiamo salvato la vita solo “a qualche decina di migliaia di vecchi” (forse la loro vita non vale a sufficienza per essere stati salvati?), visto che il flagello si sta abbattendo anche sugli adulti maturi (oggi gli ospedali sono pieni di 40-60enni che hanno ottime probabilità di non morire, ma che porteranno i segni di questa malattia e della degenza forse per tutta la loro esistenza). Diversamente il virus avrebbe dilagato ancor di più e avremo avuto tanti Stati Uniti o tanti Brasile ovunque con continue colonne di bare e di fosse comuni come accaduto nelle altre pandemie storiche.
Certo, il problema della solitudine nella sofferenza e nella morte me lo sono posto anch’io e forse è quello che tuttora interroga di più la mia coscienza (come credo quella di chiunque dotato di un minimo di umanità): ti confesso che il dilemma che tu poni brutalmente, in me è ad oggi senza risposta e forse mai l’avrà.
Quanto alla digitalizzazione, io la benedico: se non ci fosse stata, la solitudine e il blocco economico sarebbero stati ben peggiori.
Da persona che ha vissuto il dramma della sequenza sismica del 2016/2017 continuo a pormi il problema del come affrontiamo questa ulteriore emergenza e purtroppo osservo molti paralleli con quanto ho visto e provato sulla mia pelle: ciò che più mi spaventa è l’assenza di prospettiva e la strana percezione “ondulatoria” di questo nuovo pericolo che potrebbero portare a una sostanziale immobilità e all’indifferenza verso quei drammi vissuti come personali (ma che personali non sono, almeno non soltanto) che tu hai giustamente evocato. Il risultato -come accaduto qui- è l’immobilismo circondato dall’indifferenza dopo la sovramediatizzazione, con periodiche ondate di odio verso questa o quell’altra categoria; le singole persone -dal canto loro- hanno completamente interiorizzato i disagi esprimendoli in comportamenti psichici anomali o estremi (come hai evidenziato pure tu citando gli esempi che hai riportato, sapessi quanti si sono suicidati dalle nostre parti non avendo speranza di poter tornare nella propria casa, per esempio).
Eppure sono cose ampiamente conosciute e narrate: “La peste” di Camus e “Se questo è un uomo” di Levi in fondo raccontano e riflettono sull’impatto delle devastazioni che si scatenano nella vita di intere comunità e sugli individui che le compongono. Entrambi hanno descritto esattamente quel che è accaduto pure stavolta, sia pure in maniera apparentemente più “soft” rispetto al passato.
Riflettendo sulle due esperienze devastanti che ho vissuto e che sto vivendo posso concludere che, se da un lato è innegabilmente migliorato il modo di saper affrontare l’emergenza, ciò che è scomparsa invece è la capacità di immaginare una ricostruzione dopo la distruzione, di immaginare una normalità dopo l’eccezionalità. E questo provoca povertà materiale e distruzione interiore, con gli effetti che giustamente riportavi (dipendenze, depressioni, autolesionismo, ma anche ira, intolleranza, odio). Ecco, senza questa immaginazione (che poi altro non è che la famosa e abusata “resilienza”, ovvero la capacità di ri-costruire imparando e superando l’esperienza negativa), ho paura che avremo tante vittime quante ne sarà riuscito a fare il virus. Ma spero di sbagliare, ovviamente.
Luca ti ringrazio per la risposta.Credo che parlare di queste sofferenze di questo dolore sia doveroso e utile. perché purtroppo nella narrazione dominante, prevale unicamente il modo di dire “ abbiamo evitato..” con questa scelta “abbiamo scongiurato” .. invece secondo me, non “abbiamo evitato un bel niente: siamo nella tragedia e nella tragedia sono state fatte delle scelte “tragiche, perché queste sessantamila persone morte da sole come bestie sono una tragedia, perché tenere ragazzi chiusi in casa e fargli perdere due anni di scuola è una tragedia, perché la devastazione sociale ed economica che da qui a qualche mese si abbatterà sul paese è una tragedia. E tutto questo avrà ulteriori conseguenze anche sul piano strettamente sanitario l’unico aspetto che si è voluto preservare. Sia chiaro, anche l’aver fatto scelte diverse avrebbe portato comunque a conseguenze drammatiche, ma mi sembra si sottovaluti e di molto quelle che tantissimi stanno vivendo, e non per la pandemia, ma per come è stato scelto di affrontarla.
ciao,k.